domenica 10 luglio 2011

Pensieri


Ho letto questa intervista su Repubblica ed ho voluto postarla in questa sezione perchè,secondo me,non ci dà solo lo spaccato di un uomo che,oltre ad essere un grandissimo artista,dimostra di avere un grande cuore ed una grande sensibilità,difficile che un uomo cosi famoso si sveli nudo con le sue fragilità e i suoi momenti bui.Ma a me ha colpito soprattutto il fatto che,malgrado il successo,dopo anni di gavetta e sacrifici,i primi soldi che arrivavano,dopo anni di stenti,Zucchero era infelice perchè non aveva dentro più quell'energia d'amore,energia che ha trovato ricostruendosi una vita affettiva,trovando un posto che lui ha subito sentito come casa sua,ritrovando quell'armonia interiore che,oggi,a 55 anni,ce lo mostra sereno e maturo non solo professionalmente ma anche come uomo.


Sarà la sua origine contadina, sarà quella pazza vocazione per la musica italiana corretta in salsa soul, ma di sicuro Adelmo Zucchero Fornaciari è uno che sprigiona la miglior simpatia di provincia, sana e bonaria come un frizzantino di campagna. Che poi questo l'abbia portato a duettare con Eric Clapton e i Queen, con Miles Davis e Pavarotti è una delle più belle e misteriose favole del mondo della canzone del nostro paese. "Sembra assurdo - confessa tornando indietro nel tempo a quando la favola incominciò - ma il primo incontro è stato il più grande, ovvero Miles Davis. Aveva ascoltato Dune mosse e, incredibile, fu lui a dire che voleva suonare in un mio pezzo. Andai a New York, ero terrorizzato perché aveva una fama terribile, e infatti in studio all'inizio fu difficile. Era tutto vestito di pelle nera, neanche salutava. Entrò e mi disse: "Play!" Io attaccai alle tastiere e lui, "What fuck are you doing!", perché avevo attaccato con un accordo di Si minore, e lui diceva che era Si bemolle minore. Io timidamente dissi, ma no, l'ho scritta io, lo saprò che accordo è... La verità è che aveva sentito il nastro a una velocità diversa. E l'intonazione era un'altra. Però alla fine andò bene, e lui dopo fu dolcissimo, mi mise le dita alla gola e disse: mi piace la tua voce".

Poi c'è stato Clapton, il gentiluomo, che lo volle in tour con lui, Sting e tutti gli altri. "Ma quello che mi ha sorpreso di più sul piano umano è Bono. Dopo che ha scritto un testo per me, e soprattutto dopo aver ascoltato come l'ho cantato, mi ha riempito di messaggi d'amore". Fu da quel momento che la favola divenne qualcosa di più: uno strano connubio tra provincia e mondo, artigianato e show business, sapienza da cantautore e blues. Tra Reggio Emilia e il West stava nascendo la fabbrica di musica che avrebbe esportato il suo prodotto in tutto il pianeta.

Ma dopo gli eventi, gli incontri, le avventure in ogni parte del mondo, come un normale lavoratore ogni giorno Zucchero torna alla dimensione più di routine. Perché anche incidere dischi e preparare tour, dice, in fondo può diventare un lavoro come un altro, la stessa storia che si ripete. "Ai miei manager lo dico sempre: sono un asino, I'm a donkey, ho bisogno sempre della carotina, mi serve una sfida per andare avanti. Ogni volta che si annuncia un tour mi vengono le crisi di panico, non ci dormo la notte, faccio rifare le date più volte perché mi sembra impossibile rimettere insieme tutto il baraccone. Poi piano piano mi convinco, cerco sempre delle novità, posti nel mondo dove non sono mai stato, oppure raddoppio date in posti come la Royal Albert Hall. Ovviamente quando il tour parte mi diverto come un matto".

Ma la sfida non può essere solo di numeri, anche se questo suo Chocabeck Tour sta avendo un successo clamoroso e ancora deve culminare con la data clou all'Olimpico di Roma il 23 luglio. "Questa cosa l'ho sentita con l'ultimo disco. Prima, devo confessarlo, mi ero un po' perso, o meglio, diciamo che mi ero troppo fatto condizionare dalle pressioni esterne, soprattutto all'estero. Mi dicevano devi fare il duetto con questo francese per andare forte sulle radio in Francia, devi fare così e colà, non erano imposizioni è ovvio, ma ho fatto dischi in cui c'erano troppe strizzatine d'occhio al mercato. E non va bene, a un certo punto mi sono detto: io voglio invecchiare bene, musicalmente parlando, tanto a questo punto cosa mi può succedere, vendere un po' di meno? E chi se ne frega, tanto il mercato dei dischi ormai si sta dissolvendo, e allora basta compromessi, voglio fare solo quello che sento. E infatti è successo col disco Chocabeck. Un sacco di gente che non sentivo da anni si è rifatta viva e mi ha detto: ecco, questo sei veramente tu. E la gente, il pubblico, questo lo sente. Ora sono circondato da affetto, come mai prima".

Insomma, uno Zucchero senza amarezze? "Insomma, mica tanto. Per arrivare alla serenità di oggi ho fatto una fatica tremenda. Nel 1987 proprio quando dopo un sacco di gavetta il mio disco Blue's è arrivato primo in classifica, ho vissuto il periodo più brutto della mia vita, una depressione durata tre anni, e forse anche di più". A sentirlo pare incredibile, proprio Zucchero, con la sua musica così vitale, ritmata, tutta energia e contagio. "La causa fu innanzitutto la separazione dalla mia prima moglie. Lei non era indipendente come Francesca, la mia compagna attuale. È una ragazza che ho amato tantissimo, ma molto provinciale, è di Forte dei Marmi e non era mai uscita da lì. Eravamo ragazzi, ci siamo sposati che io avevo ventitré anni e lei ventuno, siamo stati insieme sedici anni, ma lei non ha mai fatto pace col mio lavoro, sotto sotto sperava inconsciamente che io non avessi successo. All'epoca facevo le balere, mi arrangiavo, non riuscivo ad avere un contratto, lei pensava: lasciamolo sfogare. Quando scrivevo una canzone gliela portavo e lei diceva: è una cagata, io soffrivo come una bestia, ma ero innamorato. Mi sono indebitato per lei per 450 milioni di allora, e non avevo ancora una lira, dovevo ancora avere le royalty di Blue's, ero nella merda, ma lei non si è mai abituata.

"Va beh, comunque non ha funzionato, non ce l'ho più fatta, lei l'ho lasciata nella villa per cui mi ero indebitato e me ne sono andato. È stato il momento più brutto della mia vita, sono stato sei mesi in una specie di baracca senza cucina e cesso, per i bisogni andavo alla pensione di fronte, e il paradosso è che ero primo in classifica. Il sabato prendevo le bimbe ma non sapevo dove portarle perché la gente mi fermava per strada, loro erano gelose, mi tiravano via, ero il fenomeno dell'anno. Era un disastro, non prendevo una baby-sitter perché a quei tempi era inconcepibile, almeno nella mentalità dei Fornaciari. Provai anche a tornare dai miei, a Reggio Emilia, ma mio padre non aveva capito che facevo un'altra vita, alle sette cominciava urlare "sa fè at let?" cosa fai a letto? Voleva che lo andassi a aiutare nei campi".

E com'è uscito da questo periodo terribile? "C'è voluto tempo, mi sono dovuto curare, ho preso psicofarmaci, e tante cose bellissime che mi capitavano non me le sono godute. Nel 1992 mi chiamò Brian May che mi invitò a Wembley a cantare con loro, i Queen, per il tributo a Freddie Mercury, ma stavo ancora male. Ricordo che nei camerini stavo in mezzo a gente come Bowie, Daltrey, George Michael, ero lì spaurito, e mi venne un attacco di panico, sudori freddi, volevo scappare, sembrava che mi dovessero portare alla fucilazione. Poi andai sul palco. Qualcuno doveva portare la chitarra acustica perché dovevo cominciare io e poi si sarebbero aggiunti i Queen, ma nessuno mi portava la chitarra, ero davanti a ottantamila persone, volevo morire, poi Brian May, che è un grande, mi fece un segno e partì lui con la chitarra elettrica. Alla fine andò benissimo, ma io ero ancora in uno stato pietoso. Anche perché non ero abituato a stare solo con me stesso. Sono sempre stato uno sradicato, finché una volta trovandomi nelle campagne vicino a Pontremoli, ero in moto, ho visto una valle verde con un rudere e un fiume. Sono sceso giù e mi sono sdraiato per terra. Per la prima volta in vita mia mi sono sentito a casa. Ho comprato tutto e lì ho costruito la mia fattoria. Da lì è cominciata la mia vera rinascita. Ora è un posto straordinario, viviamo interamente dei prodotti della terra, facciamo il vino, i formaggi, poi ho trovato Francesca, è nato l'altro mio figlio Blue. Ora posso dire davvero di vivere come voglio. Ho cinquantacinque anni, ma la testa è quella di un ragazzino, le sfide sono ancora tutte lì, a portata di mano". E ogni giorno la fabbrica riapre.

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