domenica 6 marzo 2016

Cinema




Ho e Mark, traditi dal capobanda, sono arrestati per traffico di banconote false. Usciti dal carcere dopo tre anni, vorrebbero rientrare nella legalità, ma lo strapotere dell'uomo che li ha traditi li induce a riprendere le armi. La situazione è complicata dalla presenza di Kit, poliziotto, che vede nel fratello Ho il responsabile della morte violenta del loro padre.Secondo film del plastico Woo a uscire in Italia (dopo Senza tregua) e prima parte di una delle saghe più straordinariamente visionarie dell'ultimo cinema moderno. Montaggio micidiale, ritmo delirante, stile «coreografico»: gli action movie americani sono avvertiti e azzerati.Bellissima la sequenza finale che da sola vale tutto il film.

Canzoni


Dipinti





Dipinto di Vladimir Kush

Poesie





Le volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno tu non voglia
da un altro amore credere l’amore.



Giovanni Raboni

Cinema





Bachir Lazhar, immigrato a Montréal dall'Algeria, si presenta un giorno per il posto di sostituto insegnante in una classe sconvolta dalla sparizione macabra e improvvisa della maestra. E non è un caso se Bachir ha fatto letteralmente carte false per avere quel posto: anche nel suo passato c'è un lutto terribile, con il quale, da solo, non riesce a fare i conti. Malgrado il divario culturale che lo separa dai suoi alunni, Bachir impara ad amarli e a farsi amare e l'anno scolastico si trasforma in un'elaborazione comune del dolore e della perdita e in una riscoperta del valore dei legami e dell'incontro.
Il film è un racconto semplice, sia dal punto di vista della struttura che dell'estetica, assolutamente naturalistica, ma suscita emozioni forti perché sembra uscito da un passato più autentico, incarnato dal personaggio del titolo, che delle nuove locuzioni per l'analisi logica non sa nulla ma conosce la sostanza, quella che non muta. Un passato, soprattutto, in cui l'insegnamento era anche iniziazione e cioè trasmissione di una passione prima che di un sapere e in cui l'abbraccio tra maestro e bambino, così come lo scappellotto, non era proibito ma faceva parte di un relazione profonda, che non poteva non contemplare anche le manifestazioni fisiche. Monsieur Lazhar è dunque un film commovente, non pietistico né moraleggiante, che riflette sulla perdita ma fa riflettere anche noi su cosa ci siamo persi per strada.
Le istanze sociali, quali il rischio di espulsione del maestro dal paese o la solitudine famigliare di molti bambini, contribuiscono al clima del film ma non sgomitano per emergere là dove non servono. Il cuore del film resta la relazione tra i bambini -Alice (Sophie Nelisse) in particolare- e il maestro, ovvero l'incontro con l'altro, la scoperta reciproca delle storie personali che stanno dietro un nome e un cognome sul registro, da una parte e dall'altra della cattedra. È questa simmetria, infatti, che, se inizialmente può suonare un po' meccanica, diviene poi responsabile della forza e della bellezza del film, specie perché il regista e sceneggiatore Philippe Falardeau non pone tanto l'adulto al livello dei bambini quanto il contrario. Posti di fronte alla necessità di superare un trauma che alla loro età non era previsto che si trovassero sulla strada, gli alunni di Bachir sperimentano il senso di colpa, la depressione e la paura esattamente come accade all'uomo, nel suo intimo.
Insegnando ai bambini e a se stesso a non scappare dalla morte, Lazhar (si) restituisce la vita.


Marianna Cappi

Serie Tv





The Wire è una serie televisiva statunitense prodotta dalla HBO e trasmessa in USA dal 2 giugno 2002 al 9 marzo 2008, con 60 episodi nell'arco di cinque stagioni. Gli autori della serie sono David Simon e Ed Burns.
Nella classifica stilata da Writers Guild of America si piazza al nono posto tra le serie meglio scritte di sempre.
The Wire è un racconto duro, realistico e spietato della società americana nel suo rapporto con il crimine legato al traffico della droga. Mostra i legami tra povertà, l'indotto del commercio della droga, la morte della classe operaia americana, le istituzioni, l'educazione, i mass-media. Ne risulta un quadro pessimista ed estremamente critico. La struttura della serie è interamente orizzontale: non ci sono casi di puntata, ma un unico arco narrativo di stagione. Il racconto parte da un'indagine di polizia su una singola organizzazione criminale, ma ben presto si estende a tutto ciò che ruota intorno al traffico di droga: mandanti, fornitori, riciclatori di denaro sporco, disfunzioni delle istituzioni preposte alla legalità e all'educazione, storture del sistema dei media. Secondo l'autore David Simon, The Wire è solo in apparenza un telefilm poliziesco, poiché in realtà la serie analizza lo stile di vita delle metropoli americane, l'influenza che le istituzioni esercitano sugli individui, ed i compromessi che chiunque è costretto ad accettare, siano essi poliziotti, scaricatori di porto, trafficanti di droga, politici, giudici, giornalisti, avvocati o persino attivisti per la comunità.
La serie è interamente ambientata a Baltimora, città americana di medie dimensioni nello stato del Maryland che ha un numero di omicidi sette volte maggiore della media nazionale, seconda solo a Detroit. Ogni stagione si concentra su un aspetto differente di Baltimora: il traffico di droga (prima stagione), il porto (seconda stagione), la burocrazia e l'amministrazione cittadina (terza stagione), il sistema scolastico (quarta stagione), e l'apparato dei media (quinta stagione).
La serie è stata molto apprezzata per il ritratto realistico della vita urbana e la profonda esplorazione dei temi sociali e politici. Sebbene non abbia vinto premi importanti, né riscosso un grande successo commerciale fuori dagli USA, The Wire è spesso definita dai critici statunitensi come la migliore serie televisiva di tutti i tempi.

Viaggi


Cinema




Qualche volta per scrivere un articolo, per mantenere una promessa, per ispirare i più giovani, per combattere la depressione, per arricchirsi, per accumulare obiettivi, per alimentare il proprio sogno e realizzare quello degli altri si è disposti a tutto, anche a scalare l'Everest. Al confine tra Cina e Nepal, la vetta è la meta di un gruppo eterogeneo che ha deciso di affidarsi a Rob Hall e alla sua società, l'Adventure Consultants, per tentare l'impresa. Rob è sposato con Jan e in attesa di una figlia che sogna di cullare in fondo alla discesa. Ma le cose si complicano presto perché il campo base è affollato da dilettanti e da altre spedizioni commerciali gestite da Scott Fischer, alpinista col vizio dell'alcol. Rob e Scott trovano però ragione e modo di collaborare e il 10 maggio 1996 partono alla volta della vetta alta 8.848 metri. La scarsa preparazione dei clienti, combinata all'approssimazione organizzativa, ritarda la salita dei due gruppi. Nondimeno alcuni di loro toccheranno con mano la vetta a fianco di Rob, sempre generoso coi suoi clienti. Poi una tempesta improvvisa si solleva, soffiando sulla discesa e sul destino degli uomini.
Non si può essere romantici con la montagna, soprattutto se si è alpinisti, soprattutto se da voi dipende la vita di altre persone. E di romanticismo 'pecca' il protagonista di Everest, perseverando quando invece avrebbe dovuto fermarsi. Eppure Rob Hall lo sa bene. Un'alpinista sa quando la ragione deve dominare la passione e il piacere verticale che procurano le sfide estreme e i territori inesplorati. Ma quel piacere Rob non vuole negarlo a Doug, amico e cliente che ha qualcosa da dimostrare a se stesso e ai bambini della scuola frequentata dai suoi figli.
A un passo dalla vetta e in quella decisione azzardata sta il senso del 'film di montagna' di Baltasar Kormákur, che recupera un genere cinematografico popolare negli anni Venti e Trenta in Germania e polemizza sulla globalizzazione del viaggio che snatura la natura e i popoli che incontra. Nelle cosmogonie la montagna è il luogo delle origini, l'asse verticale di congiunzione tra il mondo celeste delle potenze divine e il mondo terreno. Il percorso dal basso all'alto per ascenderla è un'iniziazione, un cambiamento di status per chi la sfida, trascendendo in qualche modo la condizione umana. La pratica dell'alpinismo per molti aspetti si inscrive in questa logica, nella logica di purificazione e di dominazione del mondo che procura l'ascesi.
Kormákur, scalando il suo Everest tra suspense e vertigine, rimpiange quell'intendimento e denuncia le ascensioni turistiche di massa che attrezzano montagne indomabili, enfatizzano la spettacolarità delle sue attrazioni (naturali e culturali) e allargano a dismisura il campo base. Everest conduce gli attori in parete ed esplora il sentiero sbagliato infilato dall'occidente. In perfetto equilibrio tra crepacci e ghiacciai, il regista islandese sale con le masse, avanza con le mode e 'arrampica' i profanatori contro cui la 'fede' di Rob Hall, eletto dagli dei a toccare cinque volte la vetta dell'Everest, non può più nulla. La 'democratizzazione' della montagna, contaminata con sprovvedute ambizioni e lattine sfondate, quelle che Rob raccoglie turbato, ne ha depotenziato la sfida (drammatica, sportiva, poetica, simbolica). Sfida alla base di un genere prodotto dal XIX secolo, che inventò il cinema e la montagna e li mise l'uno al servizio dell'altra.
Lontano dall'essere un film giocattolo, Everest, condotto 'su corda' da Jason Clarke e Jake Gyllenhaal, congela gli aspetti eroici dell'alpinismo e smaschera la visione ludica (e prosaica) dell'arrampicata (sociale). Il viaggio sentimentale, l'attitudine contemplativa, la conquista fisica, la montagna come luogo dei valori svaniscono dentro una tempesta e un disappunto (di natura) che suona come ultima parola. Perché come diceva George Mallory, alpinista inglese morto sulla celebre vetta nel 1924, l'Everest "è lì" a ricordarci il rispetto che si deve alla natura e all'altezze inaccessibili. Tratto dal saggio di Jon Krakauer ("Aria Sottile"), giornalista di "Outside" sopravvissuto alla spedizione del 1996 in cui morirono otto persone, Everest chiude su un'ultima ascesa, quella della macchina da presa a cercare un 'risveglio', un nuovo funambolico ardimento, destinato a cancellare da altre pareti la parola impossibile e a ritrovare il valore e la dimensione della professionalità. Una competenza declinabile con moralità.


Marzia Gandolfi

Pensieri


Canzoni


Cinema





Damian Hale è un industriale miliardario, che ha riscritto i connotati alla città di New York. Messo al muro da un cancro incurabile, decide di sottoporsi ad una terapia segreta, in grado di dargli una seconda vita: lo "shedding". A cambiarsi i connotati, questa volta, è Damian stesso, che rinasce nel corpo prestante, creato in laboratorio, di "Edward". L'operazione riesce, ma la nuova vita di Hale è infestata da vecchi ricordi che non gli appartengono.
Se sul fronte narrativo l'analogia che salta agli occhi è con Operazione diabolica, Frankenheimer del '66 con Rock Hudson, sul piano pseudoscientifico, il film può richiamare alla memoria anche il più recente Source Code, per il modo in cui la mente del protagonista migra in un corpo altrui, non potendo più utilizzare quello di partenza. Là, però, dove il film di Duncan Jones sceglieva un un'unità di luogo - il treno- e di tempo - 8 minuti - e teneva così al caldo il nucleo centrale, e cioè l'idea, evitando di disperderla, il film di Tarsem fa esattamente l'opposto. L'idea è un pallone da basket che, una volta iniziata la partita, viene lanciato di qua e di là (e non a caso anche i due finali finiscono per essere opposti).
Come spesso avviene al cospetto di Tarsem Singh, l'eccesso è il responsabile dell'interesse tematico dei soggetti esplorati ma anche della mancata misura del quadro nell'insieme. In questo senso, la favola, già spesso grottesca e visionaria di suo, come quella di Biancaneve, si era rivelata un terreno a lui più consono di altri. Qui, invece, le misure saltano presto: un po' Bourne-movie ("chi sono veramente?"), un po' detective-story (senza reale giustificazione), Self / Less si risolve infine in un melodramma che indossa l'abito fantascientifico soltanto come un prestante involucro (esattamente ciò di cui si parla, per altro).
Ryan Reynolds regge bene la parte, mentre Ben Kingsley strafà e Natalie Martinez rischia seriamente di compromettere il tutto, fin dalla sua prima apparizione. Ma è nei modi di racconto che il film fa acqua: pedissequo laddove non ce n'è bisogno, si affida a sincopate clip di montaggio quando vuole invece stringere i tempi. Man mano che si procede in questo modo, non solo si va riducendo l'afflato filosofico del tema ma anche e soprattutto il nostro interesse.


Marianna Cappi

Accadimenti





Un avvenimento che mi ha letteralmente sconvolto,non so se relegarlo all'atto insano di terrorismo o alla follia omicida di una donna malata,in ogni caso un evento da film horror che mi ha paralizzato pensando alla povera bambina e ai suoi genitori....
Una donna con in mano la testa mozzata di una bambina è stata avvistata nelle prime ore della mattina di lunedì 29 febbraio fuori dalla stazione della metropolitana Okt'abrskoje Pole, a nordovest di Mosca. 
Secondo quanto riportato dai media locali, la donna con indosso un burqa si aggirava nel piazzale appena fuori la stazione metro, urlando Allahu Akbar e brandendo in mano la testa mozzata di una bambina. 
Alcuni testimoni hanno raccontato all'emittente Russia TV di aver notato "una donna vestito di nero che gridava parole incomprensibili. I clienti di un centro commerciale lì nelle vicinanze hanno iniziato a urlare e scappare per timore di una bomba".

Dalle prime indiscrezioni sembra che la donna lavorasse come baby-sitter presso la famiglia della bambina, e che l'avesse uccisa dopo che i genitori erano usciti di casa, dando poi alle fiamme l'appartamento per cancellare le prove del delitto.
Il ministero degli Interni russo ha rilasciato una dichiarazione confermando che la testa mozzata apparteneva a una bambina di quattro anni. Poche ore prima, la polizia aveva scoperto in un appartamento parzialmente bruciato il corpo di un bambino senza testa. 
Dopo le segnalazioni dei testimoni, gli agenti di polizia sono accorsi sul luogo e hanno fermato la donna. Quando le hanno domandato di mostrare un documento di identità, la donna ha tirato fuori dalla borsa la testa decapitata della bambina. La donna è stata sottoposta a test psichiatrici per verificare se è sana di mente e in grado di comprendere la gravità del crimine commesso.
Secondo alcune fonti locali, il nome della donna sospettata sarebbe Gulchehra Bobokulova, 39 anni, originaria dell'Uzbekistan.

Cinema





Nel 2013, un muro insormontabile separa il centro di Parigi dai quartieri periferici - le "banlieues" - diventati regno incontrastato della criminalità. Quando una gang della "banlieue 13" si impadronisce di un ordigno nucleare trasportato da un furgone blindato, le autorità assegnano all'agente speciale Damien il compito di recuperarlo prima che la delinquenza organizzata metta in pericolo l'intera città. Damien, maestro di arti marziali ed esperto nell'infiltrarsi tra le file dei criminali, sa che potrà contare soltanto sull'astuzia e sulla forza per assolvere la missione: nella zona proibita, non esistono leggi né onore e soltanto la crudeltà e la violenza possono garantire la sopravvivenza. Leito, un piccolo delinquente della zona, accetta di collaborare con il poliziotto se questi in cambio lo aiuterà a liberare la sorella Lola, prigioniera del narcotrafficante Taha.
Non tragga in inganno l'ambientazione futuribile del film: Banlieue 13 è essenzialmente un action-movie che ripropone vagamente l'intreccio di Escape From New York prendendo spunto - con scelta di dubbio gusto - dalla recente cronaca dell'emarginazione sociale nei quartieri sottoproletari di Parigi. Impostato secondo i modelli dello spettacolo hollywoodiano, è un susseguirsi di rocamboleschi inseguimenti e pirotecniche sparatorie sviluppate a ritmo di videogames, con personaggi convenzionali ed esiti prevedibili. Gli stuntmen rubano la scena ai caricaturali protagonisti e le spericolate inquadrature studiate dal regista Pierre Morel - fotografo di The Transporter e Danny the Dog - correggono in parte l'insufficiente tensione del racconto.

Pensieri


Serie Tv





Homeland Quinta Stagione




Esattamente un anno fa, l'episodio intitolato Il funerale chiudeva la quarta stagione di Homeland in maniera del tutto particolare: archiviati con una puntata d'anticipo l'azione e gli intrighi, il season finale si concentrava invece sul "ritorno a casa" di Carrie Mathison, costruendo un epilogo malinconico ed elegiaco, segnato dal lutto per la scomparsa del padre di Carrie e dal bilancio esistenziale di una donna (e madre) sul punto di prendere un'importante decisione riguardo il proprio destino.

Una struttura e un'atmosfera analoghe sono quelle che ci propone, a un anno di distanza, anche il capitolo conclusivo della quinta stagione di Homeland, A False Glimmer: un episodio in cui la suspense è concentrata in una manciata di minuti iniziali, per poi lasciare spazio a stati d'animo, attimi privati e scelte sofferte dei vari protagonisti, alle prese con le conseguenze delle proprie azioni e impegnati a riflettere su un futuro quanto mai incerto. E se invece almeno una sicurezza sul futuro di Carrie ce l'abbiamo già (Showtime ha rapidamente confermato la serie per una sesta stagione), proviamo ora ad esaminare i vari aspetti di A False Glimmer, ma pure cosa ha funzionato di più (e cosa meno) di questa quinta stagione... Homeland rimane una delle serie più intriganti e coinvolgenti della TV americana, eppure questa "trasferta berlinese" ha sollevato, di volta in volta, pure diverse perplessità a causa di passaggi non proprio impeccabili.
Fra i punti deboli della quinta stagione, bisogna annoverare la sottotrama romantica fra Carrie e Jonah: un subplot che ha perso progressivamente importanza, confinando Jonah in un angolo della narrazione e sfociando quindi in una rottura di scarso pathos. Piuttosto bizzarro anche l'ultimo dialogo fra Carrie e il suo datore di lavoro, il filantropo e uomo d'affari Otto Düring (Sebastian Koch), il quale infine dichiara i propri sentimenti per la donna, ma con un pragmatismo che rasenta la freddezza: un post scriptum fuori tempo massimo e davvero poco necessario, che non aggiunge pressoché nulla all'evoluzione di Carrie e alle sue prospettive per il futuro. La nostra eroina ha declinato l'offerta di Saul di rientrare nei ranghi della CIA ("Non sono più quel tipo di persona", la sua serafica risposta), ma risulta difficile immaginare che il suo personaggio possa prendere una direzione diversa in vista della prossima stagione. Un reintegro tra le file della CIA sembra al contrario la soluzione più lineare e adatta, nella speranza che per l'anno prossimo gli autori siano in grado di correggere i difetti di quest'ultima stagione evitando al contempo di scivolare in una stanca reiterazione di quanto visto in precedenza. Certo, dopo cinque anni e un totale di sessanta episodi non è un'impresa facile, ma da una protagonista del calibro di Carrie Mathison possiamo e dobbiamo aspettarci il meglio...

Cinema




La storia narrata nel film è molto lineare (per non dire banale): tutto scaturisce dall'arresto di una ex terrorista (che in pratica si costituisce, per rimorso, dopo 30 anni) che negli anni '60 faceva parte di una organizzazione (formata da cittadini statunitensi) contraria alla guerra in Vietnam e protagonista di alcuni attentati/rapine. L'organizzazione è ormai da decenni sciolta e parte dei membri (quelli accusati di crimini non prescritti, suppongo) sono da sempre latitanti sotto falso nome, vivendo vite normali. Dall'arresto della "pentita" nasce una indagine giornalistica ad opera di un giovane reporter, il quale smaschera (per caso) un altro membro dell'organizzazione (accusato dell'omicidio di una guardia giurata commessa durante una rapina a cui aveva partecipato anche la "pentita") e da anni latitante (interpretato da R. Redford). Ne nasce una "caccia all'uomo" da parte dell' FBI e la conseguente fuga dell' ex terrorista scoperto (che cerca di incontrare alcuni ex compagni di lotta ed in particolare la sua ex fidanzata). Le uniche note di "thrilling" del film consistono quindi solo in alcuni piccoli "colpi di scena" attinenti a paternità nascoste ed al dubbio sulla colpevolezza o meno (relativamente all'omicidio) del protagonista in fuga. Il film non è invedibile, ci recitano alcuni attori famosi, ma non sembra colpire nè per l'originalità della trama/sceneggiatura, nè per le scene di azione (che comunque non sono un obbligo). Alla fine del film mi sono alzato dalla sedia del cinema nello stesso modo in cui avrei spento la tv di casa mia, dopo aver visto un film senza infamia e senza lode.

Fotografia




La coda della Volpe 
fotografia di Davide Bortuzzo

Come narra la leggenda l'Aurora Boreale è causata dalla coda di una volpe che colpisce le montagne innevate - Foto scattata alle Isole Lofoten.