domenica 19 maggio 2013

Storia







Colle, gli 11 presidenti



“La vita al Quirinale è una spaventosa e solitaria traversata, ma per fortuna ogni giorno che passa è uno in meno da trascorrere qui dentro”. In questa frase di Oscar Luigi Scalfaro, pronunciata in uno dei tanti momenti difficili del suo settennato, c’è la chiave per spiegare la solitudine, dunque le bizze, metamorfosi e mattane di tanti presidenti persi nelle 2mila stanze di quella che Marzio Breda (La guerra del Quirinale, Garzanti) descrive come “la reggia più grande e sfarzosa d’Europa”. Il 1992 è iniziato, per i politici, sotto i peggiori auspici. Il 17 febbraio, a Milano, è finito in carcere per tangenti il craxiano Mario Chiesa ed è iniziata Mani Pulite. Il 13 marzo, a Palermo, Cosa Nostra ha aperto la guerra allo Stato assassinando l’eurodeputato andreottiano Salvo Lima, considerato traditore. Il capo della Polizia Vincenzo Parisi avverte che c’è una lista di politici destinati a morire anche loro ammazzati, da Mannino a Vizzini, da Martelli ad Andreotti.  

Il 6 aprile, dalle urne, il quadripartito che sostiene il VII governo Andreotti esce con le ossa rotte, mentre la Lega di Bossi vola al 9% (sopra il 20 in tutto il Nord). Il 25 aprile Cossiga scende dal Colle con due mesi di anticipo, lasciando i suoi poteri presidenziali al supplente: il neopresidente del Senato, Giovanni Spadolini. Il nuovo governo è affare del nuovo capo dello Stato e – prevede il Picconatore con una tetra maledizione – “saranno giorni terribili fino all’elezione del mio successore”. Mai previsione si rivelerà più azzeccata. Anzitutto perché i partiti, terrorizzati dalle indagini giudiziarie e dalle vendette mafiose, paiono un formicaio impazzito, senza bussola. Saltati tutti i giochi e le marcature.

La scheda nei catafalchi

Il 13 maggio il Parlamento si riunisce in seduta comune sotto la guida del neopresidente della Camera, Scalfaro, e comincia a votare. I sospetti incrociati fra i partiti sono tali che Pannella chiede a Scalfaro di garantire la segretezza del voto. Scalfaro, a tempo di record, fa allestire dai falegnami di palazzo due cabine di legno foderate con un drappo rosso, subito ribattezzate “catafalchi” da Rutelli. Ma questo non basta al missino Carlo Tassi, sempre in camicia nera, che urla “ladri!” a macchinetta contro i banchi della maggioranza e agita un paio di manette. Scalfaro tenta di zittirlo, quello replica che nessuna legge lo prevede, allora il presidente dell’assemblea ribatte: “Ma non c’è nessuna norma che la obblighi a ragionare! Comunque complimenti, lei deve avere un polmone di riserva”. Nei primi tre scrutini, quelli con maggioranza dei due terzi, ciascun partito opta per il suo candidato di bandiera: Giorgio De Giuseppe (Dc), Nilde Iotti (Pds), Giuliano Vassalli (Psi), Gianfranco Miglio (Lega), Alfredo Pazzaglia (Msi), Paolo Volponi (Rifondazione), Norberto Bobbio (Verdi), Antonio Cariglia (Psdi), Tina Anselmi (Rete), Salvatore Valitutti (Pli). Dalla quarta votazione, scendono in lizza i big. L’accordo del Caf Craxi-Andreotti-Forlani prevede che il primo torni a Palazzo Chigi, mentre gli altri due se la vedano fra loro per il Colle. Si parte col segretario Dc Arnaldo Forlani, che al quinto scrutinio prende 479 voti e al sesto sale a 496: manca poco al quorum dei 508. Ma dal sesto scrutinio il Coniglio Mannaro comincia a scendere, impallinato dai cecchini del suo partito e dei cosiddetti alleati. I quali, insieme, dovrebbero totalizzare 540 voti: e invece all’appello, per Forlani, ne mancano 80, di cui almeno 50 dc. Sono gli uomini di Andreotti, abilmente pilotati dal suo factotum Paolo Cirino Pomicino.

Il 17 maggio, spossato dall’altalena, Forlani annuncia il ritiro. Sembra il gran giorno del Divo Giulio, che attende da anni di aggiungere alla sua collezione di poltrone l’unica che ancora gli manca. Restano però da convincere i vedovi del-l’Arnaldo, che sono tanti e non ne vogliono sapere, preoccupati dallo strapotere andreottiano. Il Pds di Achille Occhetto s’incunea nelle divisioni scudocrociate e propone Giovanni Conso, giurista cattolico super partes, presidente emerito della Consulta. La Dc risponde picche. I socialisti provano col loro giurista, Vassalli, e i re-pubblicani con Leo Valiani. Invano. Bruciate in poche ore anche le candidature di Norberto Bobbio, Francesco De Martino e Mino Martinazzoli. Riaffiora Vassalli con l’appoggio di un pezzo di Dc, ma l’altro pezzo lo affonda definitivamente. Forlani, delegittimato una seconda volta, si dimette pure da segretario Dc. Non resta che una soluzione istituzionale: uno dei presidenti delle Camere, o Spadolini o Scalfaro. Per il secondo si spende molto Pannella, in nome di un ritorno alla Costituzione picconata da Cossiga. Ma gli andreottiani obiettano che anche Giulio è istituzionale (in quanto premier in prorogatio) e buttano la palla in tribuna.

La bomba di Capaci

Nel pomeriggio di sabato 23 maggio, mentre partiti e correnti ballano sul Titanic, a riportarli coi piedi per terra giunge una terribile notizia da Palermo: il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta sono rimasti vittime di un attentato mafioso sull’autostrada Punta Raisi-Palermo, in località Capaci. La notizia è stata anticipata tre giorni prima da una strana agenzia di stampa, “Repubblica” (vicina all’andreottiano dissidente Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”): “Manca ancora qualcosa di drammaticamente straordinario. Un bel botto esterno, come ai tempi di Moro, a giustificazione di un voto di emergenza”. Ed è esattamente ciò che accade. Messo Ko dall’uno-due Lima-Falcone, Andreotti si ritira dalla corsa. La sera dello stesso sabato il suo fedelissimo Nino Cristofori chiama concitato il braccio destro di Occhetto, Claudio Petruccioli: “La strage è un attacco a Giulio”.

Per il “voto d’emergenza” vaticinato da quella strana agenzia, non restano che Spadolini e Scalfaro. De Mita, presidente della Dc priva ormai del suo segretario e del suo ultimo candidato, preferirebbe Spadolini: un po’ in funzione anti-Craxi, un po’ perché non ha dimenticato le parole pesanti scritte da Scalfaro nella relazione finale della commissione d’inchiesta sull’Irpinia. Ma ad azzoppare il repubblicano ci sono le ultime notizie dal Palazzo di Giustizia di Milano: arrestato Giacomo Properzj del Pri, indagato un altro esponente dell’Edera, Antonio Del Pennino. A sbloccare l’impasse provvede il Pds, disposto a votare Scalfaro fin subito.

Nato a Novara nel 1918, figlio di un impiegato delle Poste di origini calabresi, magistrato, padre costituente, fedelissimo di De Gasperi e Scelba, più volte sottosegretario, ministro dell’Interno nel governo Craxi, lontano dalle correnti, mai sfiorato da scandali o sospetti, vedovo da molti anni, sempre accompagnato dalla devota e inseparabile figlia Marianna, Scalfaro è stato uno dei critici più inflessibili delle picconate cossighiane. E infatti Cossiga fa recapitare a tutti i leader dei partiti un dossier con le fotocopie di ben 48 interviste di Scalfaro contro di lui. “Se non l’avessimo votato – dirà Massimo D’Alema – gli altri prima o poi avrebbero ritirato fuori Andreotti”. E così, quel 25 maggio, la sedicesima fumata è bianca: all’ultimo momento Scalfaro ha pregato il vicepresidente Stefano Rodotà di prendere il suo posto, per non dover annunciare la propria elezione. E diventa il nono presidente della Repubblica con 672 voti su 1002, un’amplissima maggioranza di centrosinistra: Dc, Psi, Psdi, Pli, Pds, Verdi, Radicali, Rete. Il Pri insiste su Valiani (36), la Lega su Miglio (75), Rifondazione su Volponi (50). Il Msi, che in un precedente scrutinio ha votato per il giudice Borsellino, opta per Cossiga (63).

Il quale Cossiga verga una nota di benvenuto con la penna intinta nel fiele: “Scalfaro è un tipico esponente di una concezione ottocentesca e compromissoria. Pur essendo notoriamente di estrema destra, è ossessionato dalla centralità del Parlamento… Per questo l’hanno votato Pannella e i verdi. Ma pensiamo quanto può sul serio condividere Pannella del suo rigore morale, eccessivo anche per me…”. L’allusione, oltreché alla fama di integrità morale che circonda il successore, è a un vecchio episodio del 1950, quando Scalfaro apostrofò in un ristorante romano una nobildonna, Edith Mingoni Toussan, per una scollatura troppo generosa (“Non si va al ristorante in prendisole”), e c’è chi giura che le assestò addirittura un ceffone. Ma anche al nomignolo di “sottosegretario al Pudore” fin dai tempi in cui Scelba lo nominò viceministro allo Spettacolo con il compito di censurare e purgare i copioni teatrali e le sceneggiature cinematografiche.

Indro Montanelli, che lo stima e gli vuol bene, ma non risparmia corbellature al suo leggendario bigottismo, saluta così la sua elezione su Il Giornale: “Sappiamo di non scoprire la polvere dicendo che a issare Scalfaro al Quirinale non sono stati i mille grandi (si fa per dire) elettori di Montecitorio, ma i mille chili di tritolo (in realtà 200, ndr) che hanno massacrato Falcone, la moglie e il suo seguito. Sono stati gli eventi, non i partiti a portarvelo. Per la prima volta abbiamo un presidente che non è figlio della politica – come la si intende e miserevolmente si pratica in Italia – ma di qualcosa di più serio: la ragion di Stato. Se non l’uomo della provvidenza, certo l’uomo dell’emergenza: un presidente per disgrazia ricevuta”. Poi avrà modo di ammorbidirsi e di apprezzarlo tutte le volte che Scalfaro darà prova di risolutezza (e anche di sorprendente laicità) in alcuni momenti cruciali.

Il suo primo impegno sul Colle è la scelta del nuovo premier. Saltato il piano del fu Caf per Andreotti al Quirinale e Craxi a Palazzo Chigi, si impone una soluzione equilibrata: con un Dc sul Colle, il governo tocca a un socialista. Ma quale? Il 3 giugno il cronista giudiziario del Tg1 Maurizio Losa annuncia che “ora, nell’inchiesta sulle tangenti, c’è anche il nome di Bettino Craxi”. Scalfaro telefona al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli: “Craxi è sotto inchiesta?”. La risposta è no. Ma dopo le elezioni è partita la richiesta di autorizzazione a procedere per gli ex sindaci socialisti Tognoli e Pillitteri. Basta leggere i giornali per capire che per Bettino è questione di mesi. Il delfino Claudio Martelli, Guardasigilli uscente, sale al Quirinale con il collega Vincenzo Scotti, ministro dell’Interno. “Scalfaro – racconterà – mi disse che giudicava legittima la candidatura di Craxi, ma che non avrebbe potuto designarlo perché contro di lui era in corso ‘una campagna d’opinione molto forte, anche se con aspetti diabolici’”. In realtà il Presidente si è fatto l’idea che Martelli e Scotti, con quella strana visita ‘in tandem’, si stiano candidando per formare il governo in nome del ‘nuovo’ in politica e della lotta alla mafia che li ha visti impegnati fino al decreto sul 41-bis all’indomani di Capaci.

Craxi lo viene a sapere, toglie il saluto al ‘traditore’ Martelli e consegna a Scalfaro una rosa di nomi: Amato, De Michelis e Martelli (“in ordine non solo alfabetico”). Infatti Scalfaro incarica Giuliano Amato, che in autunno spremerà gli italiani con una manovra-salasso da 93 mila miliardi di lire e il prelievo forzoso del 6 per mille sui conti bancari: l’Italia di Tangentopoli è sull’orlo della bancarotta. Craxi, indagato a dicembre, si dimette da segretario del Psi nel gennaio ’93. A febbraio cade anche Martelli, rimpiazzato da Conso. A marzo Amato e Conso tentano il colpo di spugna su Tangentopoli, ma Scalfaro non firma e rimanda il decreto al mittente. Ad aprile, dopo il referendum che abolisce i fondi pubblici ai partiti, Amato si dimette, anche perché ha mezzo governo indagato.

I tanti no a Berlusconi

Il 26 aprile Scalfaro incarica un tecnico fuori dai partiti: il governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi. In estate poi licenzia il direttore delle carceri Niccolò Amato, fautore della linea dura sul 41-bis per i mafiosi detenuti, e lo rimpiazzano con un alfiere della linea morbida, Adalberto Capriotti. La Procura di Palermo, indagando sulla trattativa Stato-mafia, accuserà Scalfaro e Conso di avere ceduto alle minacce di Cosa Nostra. Che infatti, di lì a poco, torna ad attaccare con le stragi di Firenze, Milano e Roma. E in novembre ottiene da Conso la revoca del 41-bis a 343 mafiosi. Il tutto all’indomani del ricatto paragolpista dei vecchi capi del Sisde, che tirano il Presidente nello scandalo dei fondi neri. Lui insorge in tv: “A questo gioco al massacro io non ci sto: prima hanno provato con le bombe e ora con il più ignobile degli scandali”.

Insomma, nei primi due anni sul Colle Scalfaro ne vede di tutti i colori. Poi scende in campo Berlusconi che – confiderà lui – “con i suoi modi mi dava un fastidio persino fisico”. Mai un giorno di tregua. E lui, il Pertini Bianco, sempre lì, rigido e stentoreo, la erre moscia, le basette ottocentesche come la sua retorica, il naso e il mento convergenti, la lunga sciarpa bianca, il santo rosario in una mano e la Costituzione nell’altra. Dice no a Previti ministro della Giustizia del primo governo Berlusconi (“Qui quel nome non passa, per senso etico”). Dice no alle elezioni anticipate reclamate dopo la caduta per mano di Bossi. S’inventa il secondo governo tecnico, affidato a Dini e ingiustamente degradato a “ribaltone”. Per sette anni difende il Parlamento e i giudici, attaccati prima dal solo B., poi anche dal centrosinistra di D’Alema, che s’imbarca nella Bicamerale (apertamente osteggiata dal Presidente) mercanteggiando la Costituzione col Caimano e infine rovesciando il Prof (grazie a Bertinotti) per prendere il suo posto.

Quello nato nell’ottobre ’98 a guida D’Alema è il quinto e ultimo governo benedetto da Scalfaro. Con molta amarezza, perché già si intravede in lontananza il ritorno del Cavaliere. Nel 1999, quando conclude la “spaventosa e solitaria traversata” sul Colle, l’Economist lo saluta con questo titolo: “Scalfaro, la bambinaia che non serviva all’Italia”. Invece serviva eccome. Infatti non sarà né la prima né l’ultima.

Storia






Colle, gli 11 presidenti 


“Io al Quirinale? No, grazie. O forse sì. Ma non prima del 2006…”. Risponde così, Francesco Cossiga, agli amici della sinistra Dc che, allo scadere del settennato di Pertini, vanno in processione a casa sua per sondare la sua disponibilità a candidarsi. Possibilista, ma pure consapevole dell’età media dei precedenti inquilini del Quirinale: mai sotto i 60 anni. E lui, nel 1985, non ne ha ancora compiuti 57. “Largo ai vecchi”, sembra suggerire Cossiga, tanto più che nella corsa al Colle i favoriti sono Andreotti, Forlani e il solito Fanfani. E lui, l’ex ministro degli Interni dimissionario dopo il caso Moro, l’ex premier più amato da Pertini, se ne sta comodo comodo sulla poltrona di presidente del Senato. “Sette anni là dentro, in quella prigione dorata, lassù sul Colle…”, continua a ripetere a Ciriaco De Mita, suo segretario e (allora) amico. In quel giugno del 1985 una sola cosa è certa: sul Colle salirà un democristiano, per la regola dell’alternanza. Craxi non farà storie, per non perdere Palazzo Chigi. E i comunisti di Alessandro Natta, appena bastonati nel referendum sul punto unico di contingenza, hanno una gran voglia di rientrare in gioco. Il problema semmai è la Dc, dove al solito scalpitano i cavalli di razza.

De Mita, padre-padrone del partito, fa sapere che “l’elezione del capo dello Stato è cosa diversa dalla maggioranza e quindi dall’alleanza di governo”. Non gli basta vincere. Vuole stravincere. Ma possibilmente, per la prima volta nella storia repubblicana dai tempi di De Nicola, con un candidato concordato con gli altri partiti. Infatti incontra con largo anticipo Natta, e gli propone subito Andreotti. Risposta: “Non possiamo votarlo”. Nemmeno l’altro big Dc, Forlani, piace a tutti. Si decide allora che ogni partito proponga una rosa di nomi. Il Pci gradirebbe due intellettuali cattolici democratici, Giuseppe Lazzati e Leopoldo Elia. I partiti laici vorrebbero Paolo Baffi, ex governatore di Bankitalia e figura cristallina. Cossiga – racconterà De Mita a Concita De Gregorio di Repubblica – viene fuori quasi per caso, perché compare in diverse “rose”. Ha collaborato col Pci nel governo Andreotti di solidarietà nazionale, è un giurista di chiara fama, un politico di specchiata moralità, per giunta lontano dai giochi di corrente (pur facendo riferimento alla sinistra Dc). E piuttosto docile – così almeno s’illude Ciriaco – agli ordini di scuderia. “Il nostro agente al Quirinale”, dirà anni dopo Cossiga, tracciando un beffardo identikit del presidente perfetto agli occhi di De Mita.

La “benedizione” del nettapipe

Natta, che già l’ha votato alla presidenza del Senato, ci sta subito, nella speranza di fare un dispetto a Craxi e ricominciare ad amoreggiare con la sinistra Dc: lo scontro del 1980, quando i comunisti votarono la sua messa in stato di accusa per il caso Donat Cattin, è già dimenticato. E poi Cossiga è pur sempre il cugino di terzo grado di Berlinguer. Il Garofano, d’altronde, fatica a contrapporgli un suo uomo: l’unico sulla piazza è Pertini, cui non dispiacerebbe affatto la riconferma. Ma, a parte le stoccate che riserva di continuo a Via del Corso, è troppo vecchio con i suoi 88 anni per essere rieleggibile. E dopo di lui un altro socialista non passerebbe mai. Cossiga, insomma, va bene a tutti. O quasi, visto che nella Dc incontra le resistenze più forti. Ma Andreotti lo appoggia: “Fosse vivo De Gasperi, approverebbe”. E convince gli altri. Ora si tratta di convincere lui. De Mita ci riesce con una frase un po’ strana: “Se non te la senti di tirare avanti per sette anni, puoi mollare dopo quattro o cinque. Pensa che bel gesto: un precedente che potrebbe preludere alla riforma del settennato presidenziale”. Si fa anche promettere che manterrà al Quirinale il segretario generale Maccanico, irpino come lui. E che nominerà tre senatori a vita – Elia, Malagodi e Baffi – per accontentare il Pci e i laici.

Cossiga s’impegna (poi non nominerà nessuno dei tre senatori a vita) e informa in anteprima i suoi due figli: “Ci sono molte probabilità che tra qualche giorno vostro padre diventi presidente della Repubblica”. Basterà qualche ora. Quando, alle 16 del 25 giugno, l’Assemblea plenaria di Camera e Senato si riunisce per la prima votazione, i giochi sono già fatti. Compresa la benedizione di Pertini: “Cossiga è un uomo onesto – ha detto il giorno prima – e ha sofferto molte amarezze. È diventato bianco e curvo. E poi una volta mi ha regalato un nettapipe d’oro”. Il candidato unico ha già in tasca i voti di Dc, Pci, Psi e laici. Mancano all’appello solo missini, demoproletari e radicali, che tuonano all’unisono contro l’inciucio maggioranza-opposizione su uno dei simboli del compromesso storico: alla fine voteranno scheda bianca. L’elezione è una pura formalità: per la prima volta il Presidente è eletto al primo colpo, con gran sorpresa dell’amministrazione di Montecitorio che, memore dei sedici scrutini della volta precedente, hanno ammassato quintali di derrate alimentari nei depositi dei ristoranti della Camera, per sfamare per giorni i mille e più grandi elettori. Un’ora e 52 minuti appena, dura lo scrutinio. Poi, quando la presidente della Camera Nilde Jotti legge per la 566ª volta il nome di Cossiga, il quorum è raggiunto e scatta l’applauso. Totale: 752 voti su 977, con 141 schede bianche. Nessun voto per il commendatore e pensionato Pietro Melone da Casagiove, Caserta, che giorni prima ha annunciato la sua candidatura “senza illusioni, ma per sfizio”.

Il discorso d’insediamento di Cossiga non ha nulla di rivoluzionario, ma si fa ascoltare. Un po’ emozionato, con un’inflessione sarda ancor più spiccata del solito, le doppie consonanti quando non sono previste e viceversa, attacca: “Sono il primo presidente della Repubblica che non appartiene alla generazione dei padri della patria. Ne sono umilmente consapevole… Voglio essere il presidente della gente comune che lavora nelle fabbriche, che studia, che scrive, che patisce la disoccupazione… Sono uno di loro”. E mentre ancora parla, alcuni camerieri trafelati portano via 25 prosciuttoni intonsi. “È il mio capolavoro”, gongola De Mita. Se ne pentirà. I partiti che più hanno osteggiato l’ascesa di Cossiga, dal Psi al Msi, diventeranno con gli anni i suoi più accaniti tifosi; quelli che l’hanno sponsorizzato, dalla Dc al Pci, i suoi più acerrimi nemici. Per non parlare dei giornali: Repubblica di Scalfari, che ingaggerà con lui epici duelli negli anni delle esternazioni, saluta la sua elezione con squilli di tromba. L’entusiasmo è tale da indurre un malcapitato redattore a intervistare, in esclusiva mondiale, i genitori del neopresidente, festanti nella casa di Sassari. Peccato che siano morti da una decina d’anni.

Strana biografia, quella di Cossiga. Classe 1928 e famiglia della Sassari bene non proprio cattolica: il nonno Francesco Maria, fratello del nonno di Berlinguer, era un pezzo grosso della massoneria; suo padre, un seguace di Emilio Lussu, leader del Partito sardo d’azione; sua madre cattolica sì, ma finita nei guai per aver lanciato volantini che chiedevano la liberazione di alcuni anarchici durante una visita del re Vittorio Emanuele. Francesco prende molto da lei. Laureato a 20 anni, docente di Diritto costituzionale a 24, s’iscrive giovanissimo alla Fuci, è un dossettiano sfegatato e nel 1956 fa la guerra al conterraneo Antonio Segni, che poi se lo fa amico portandolo in Parlamento nel ’58. Sposato con Peppa Sigurani, che gli darà due figli e non si lascerà mai fotografare, adora l’insegnamento. Ma quando Segni si ammala e lascia anzitempo il Quirinale, Moro lo vuole con sé come sottosegretario alla Difesa (1966): tocca a lui gestire l’operazione Gladio e lardellare di omissis il rapporto parlamentare sul Piano Solo. Nel ’74 ministro della Riforma burocratica, dal ’76 al ’78 ministro dell’Interno nei governi Andreotti della solidarietà nazionale. Per l’ultrasinistra è “Kossiga” (con la K e la doppia S runica, alla nazista). Per Pannella, il responsabile morale della morte di Giorgiana Masi durante una manifestazione di piazza.

Moro, le ombre e il rimorso

I 55 giorni del caso Moro lo invecchiano di vent’anni: l’ansia per l’amico ostaggio, il dolore per le sue ingenerose lettere dalla prigione, il dovere della fermezza, il rimorso di non aver fatto abbastanza per salvarlo, le polemiche per le pessime indagini della “sua” polizia e per i piduisti nei suoi comitati di crisi. E, subito dopo, le dimissioni dal Viminale. Un anno da eremita, il dolore somatizzato in vitiligine che gli sbianca i capelli e gli chiazza la pelle à pois (“Mi svegliavo ogni notte di soprassalto, col pensiero fisso che Moro l’avevo ucciso io”). Poi il ritorno sulla scena, presidente del Consiglio dal 1979 all’80. Lo scandalo Donat Cattin (Cossiga accusato di aver agevolato la fuga del terrorista Marco, avvertendo il padre Carlo che il figlio era ricercato) e i franchi tiratori che impallinano il suo governo. Per sempre, pare. Invece, nel 1983, De Mita arriva alla segreteria e lo fa eleggere presidente del Senato. Poi, due anni dopo, presidente della Repubblica. I suoi primi quattro anni sul Colle sono di una noia mortale: parla poco, non esterna, non fa notizia. I vignettisti scherzano sul “sardomuto”. L’inserto satirico dell’Unità, “Tango”, lo ritrae come un omino un po’ stralunato che fa capolino da dietro una persiana (“Mi hanno eletto presidente e non mi hanno detto che cosa devo fare”).

Lui passa le giornate a tagliar nastri, a leggere e studiare i suoi autori preferiti (Tommaso Moro, Henry Newman, Pascal, Bernanos, Cartesio, i maestri del giallo e dello spionaggio), a praticare le sue bizzarre collezioni (soldatini, cose militari e – insinua qualcuno – dossier) e la sua passione di radioamatore (nome in codice: Andy Capp). E, a parte qualche furiosa litigata con il Csm (che secondo lui si allarga un po’ troppo), tutto fila liscio fino al ’90. Poi, un bel giorno, complice il crollo del muro di Berlino che chiude la Guerra fredda e scioglie i due blocchi contrapposti in cui è diviso il mondo da Yalta in poi, il risveglio: “Voglio togliermi alcuni sassolini dalle scarpe”. Apriti cielo. Sarà la ciclotimia, che gli fa alternare momenti di euforia e di depressione. Saranno le trame degli “amici” dc che prendono forma. Sta di fatto che Cossiga comincia a tuonare. Anzi, dice lui stesso, a “picconare”.

Il sismografo di Tangentopoli

Ancora contro il Csm, che vuole censurare i giudici massoni, e poi vuole difendere i giudici attaccati per la prima volta da Craxi (per impedirlo, l’uomo del Colle minaccia di mandare i carabinieri a Palazzo dei Marescialli). Poi contro il Tg1, che intervista un falso agente della Cia con le prime allusioni a Gladio (la rete anticomunista, nome in codice “Stay Behind”, varata in gran segreto in alcuni paesi Nato fin dagli anni 60 in vista di una temuta invasione sovietica). Quella Gladio che Andreotti ha messo in mano al giudice veneziano Felice Casson, spalancandogli gli archivi dei servizi segreti a Forte Braschi, con sospetta generosità. Sospetta almeno per Cossiga, che intravede una manovra del Divo per farlo dimettere anzitempo e prendere il suo posto. Da allora è una grandinata continua di esternazioni e interviste (soprattutto al prediletto Paolo Guzzanti) da ogni capo del mondo, ora furibonde ora beffarde, ma sempre destabilizzanti, contro tutto e contro tutti (tranne i socialisti): Andreotti, Craxi, Forlani, Pomicino, Gava, l’esercito, tutta la Dc, la Lega, Mancino, Occhetto (“zombie coi baffi”), Violante (“piccolo Wishinsky”), i “giudici ragazzini” antimafia, il pm Cordova, “la nota lobby” Repubblica-Espresso-Scalfari-De Benedetti, Luca Orlando e padre Pintacuda, Rodotà (“se lui è di sinistra, io sono un brigatista rosso”), il Vaticano, persino Vespa e Baudo.

Difende Gladio a spada tratta, esalta Edgardo Sogno, dice che nella P2 c’erano anche veri patrioti, vuole i pm subordinati al governo, è ossessionato dai complotti (quelli veri, ma anche quelli inventati) ai suoi danni. La Dc scarica il Picconatore (qualcuno invoca financo la perizia psichiatrica), il Pci e Pannella chiedono l’impeachement. Il fronte nemico s’ingrossa e gli getta tra i piedi ogni sorta di accuse, esagerate come le sue esternazioni: matto, golpista, fascista, depistatore del caso Solo e delle stragi di Bologna e di Ustica, criptopiduista e chi più ne ha più ne metta. In realtà, con i suoi sbalzi d’umore, Cossiga è diventato il sismografo impazzito di una classe politica marcia dalle fondamenta, quasi che presentisse lo tsunami che sta per travolgerla: Tangentopoli. Lupo solitario che ulula alla luna circondato da ladri e da sordi, Cossiga se ne va il 25 aprile 1992, con un discorso commosso e commovente alla Nazione. Due mesi prima della scadenza del mandato, due mesi dopo l’arresto di Mario Chiesa, un mese prima della strage di Capaci. Fra le macerie della Prima Repubblica.

Storia






Colle, gli 11 presidenti 



Dicevano che giocavamo a perdere. Invece giocavamo a vincere. E con Pertini abbiamo vinto. Oggi, per la prima volta nella storia, va al Quirinale un socialista”. Bettino Craxi tenterà di mettere il cappello sul Presidente Partigiano. Ma la verità è opposta: nel 1978, quando si è trattato di cercare il successore di Giovanni Leone, lui Pertini l’ha osteggiato finché ha potuto. E vi si è rassegnato soltanto in extremis. Pur di non aprire la strada all’ennesimo democristiano, o all’odiatissimo Ugo La Malfa. La campagna presidenziale di 35 anni fa si apre con sei mesi d’anticipo sulla tabella di marcia. Giovanni Leone se ne dovrebbe andare solo a dicembre, ma si dimette sei mesi prima, per mettere fine alla campagna politico-giornalistica delle sinistre. Il 1978 è forse l’anno più nero della Repubblica italiana: i grandi scandali, il nervosismo atlantico per l’ingresso dei comunisti nell’area di governo, il terrorismo che dilaga nelle strade, la strage di via Fani seguita dal sequestro di Aldo Moro, la spaccatura dei partiti tra il fronte della fermezza e quello della trattativa con le Br, e alla fine quella terribile Renault rossa parcheggiata in via Caetani, a metà strada fra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con il corpo del presidente della Dc crivellato di colpi e rannicchiato nel bagagliaio.

La morte di Moro, candidato numero uno al Quirinale, con le drammatiche dimissioni del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, è del 9 maggio. L’uscita di scena di Leone, del 15 giugno. I papabili per la successione sono il segretario Dc, Benigno Zaccagnini, il segretario repubblicano La Malfa, i socialisti di sinistra Francesco De Martino e Antonio Giolitti. I primi due portati dal fronte della fermezza (segreteria Dc, Pci, Pri), gli altri due da quello della trattativa, che ruota intorno al Psi. Ma nei primi tre scrutini – quelli che richiedono la maggioranza dei due terzi delle Camere – ciascun partito vota il proprio candidato di bandiera. É ormai la fine di giugno e nemmeno nelle successive votazioni l’impasse accenna a sbloccarsi: altre dodici fumate nere.

Il socialista e il compagno Berlinguer

Per ammazzare il tempo fra una tornata e l’altra, alcuni giovani deputati democristiani organizzano partitelle a calcetto in periferia e rientrano a Montecitorio con la sacca sportiva: tra questi, ci sono un tal Clemente Mastella e un certo Antonio Segni. Craxi, a questo punto, fa la voce grossa con Zaccagnini: “O un socialista (Giolitti, ndr) sale al Quirinale, o il Psi scende dal governo Andreotti”. I toni sono quelli perentori e ricattatori del miglior Ghino di Tacco. E gli altri partiti sembrano d’accordo con lui. Tranne la Dc, che tiene duro su Zac, e il Pri, tetragono su La Malfa. Il leader dell’Edera, come poi Pertini, fa finta di non ambire alla poltrona, e per affettare distacco si trasferisce per qualche giorno in Val d’Aosta annunciando: “Mi sono definitivamente allontanato dalla politica”. Salvo poi ripiombare a Roma non appena si comincia a fare sul serio. Enrico Berlinguer, che i socialisti li detesta (chiama Craxi “il gangster”), ha una sola preoccupazione: se socialista dev’essere il nuovo Presidente, che almeno sia il più lontano possibile da Craxi. Ecco così affiorare, a sorpresa, il nome di Sandro Pertini.

È dagli anni ’50, all’indomani della Resistenza, che questo anziano socialista savonese classe 1896 è considerato una vecchia gloria dallo stesso Psi: un monumento da venerare, ma purchè resti sul piedistallo e soprattutto chiuso in una teca, alla larga da incarichi partitici e governativi, al massimo da issare come una bandiera su una poltrona istituzionale di rappresentanza, come la presidenza della Camera dal 1968 al ’76. A quel punto, pare a tutti che il vegliardo possa ritirarsi in buon ordine. Pochi sospettano che la sua vera carriera politica sta appena per cominciare. Pertini piace ai comunisti per le stesse ragioni che lo rendono inviso a Bettino: predica il “ritorno ai rapporti unitari nella sinistra”, suo vecchio pallino, sferza la nuova generazione socialista, avversa la linea molle dei craxiani sul terrorismo ed è un alfiere della “questione morale” berlingueriana. Ne ha dato prova nel 1974, da presidente della Camera, prima respingendo l’aumento dell’indennità dei deputati (“Ma come, dico io, in un momento grave come questo, quando il padre di famiglia torna a casa con la paga decurtata dall’inflazione… voi date quest’esempio d’insensibilità? ‘Io deploro l’iniziativa’, ho detto. ‘Entro un’ora potete eleggere un altro presidente della Camera . Siete 630, ne trovate subito 640 che accettano di venire al mio posto. Ma io, con queste mani, non firmo’…”).

E poi schierandosi dalla parte dei tre giovani pretori della sua Liguria – Mario Almerighi, Carlo Brusco e Adriano Sansa – che avevano scoperchiato il primo scandalo dei petroli: i partiti e quasi l’intero Parlamento a libro paga dell’Unione Petrolifera in cambio di leggi fiscali di favore. Mentre politici e grande stampa attaccavano i “pretori d’assalto”, Pertini li ricevette a Montecitorio (ma nella lavanderia, perché gli uffici erano infestati di microspie, o almeno così lui pensava) e prometteva loro il suo pieno appoggio. E in effetti li difese pubblicamente, come in una memorabile intervista a Nantas Salvalaggio su “La Domenica del Corriere”: “Non accetterò mai di diventare il complice di coloro che stanno affossando la democrazia e la giustizia in una valanga di corruzione. Non c’è ragione al mondo che giustifichi la copertura di un disonesto, anche se deputato. Lo scandalo più intollerabile sarebbe quello di soffocare lo scandalo. L’opinione pubblica non lo tollererebbe. Io, neppure. Ho già detto alla mia Carla: tieni pronte le valigie, potrei piantare tutto…Io spero che i documenti dei famosi ‘pretori d’assalto’ siano vagliati con rigore. Spero che tutto sarà discusso in aula, e nessuna copertura sarà frettolosamente inventata dai padrini dell’assegno sottobanco… Mi fanno pena i magistrati e i politici che cercano di tagliare le gambe ai pretori dell’inchiesta sullo scandalo del petrolio. Dicono che sono troppo giovani: ma da quando la giovinezza è un reato? Se mai è un sintomo esaltante e meraviglioso: significa che il Paese ha una riserva di coraggio e di onestà nelle nuove generazioni. E poi, mi creda: questi giovani (beati loro!) sono stati esemplari, rapidissimi. In tredici giorni hanno vagliato quintali di documenti. Hanno perduto ciascuno tre o quattro chili, mi dicono. Ma è quel sudore, quella fatica, che possono ora lavare le macchie dei piccoli e grandi corruttori. Nel mio partito mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve ‘adeguare’. Ma adeguare a che cosa, santa Madonna? Se adeguarsi vuol dire rubare, io non mi adeguo. Meglio allora il partito non adeguato e poco moderno. Meglio il nostro vecchio partito clandestino, senza sedi al neon, senza segretarie dalle gambe lunghe e dalle unghie ultralaccate… Dobbiamo tagliarci il bubbone da soli e subito. Non basta il borotalco a guarire una piaga. Ci sono i ladri, gli imbroglioni? Bene, facciamo i nomi e affidiamoli al magistrato”.

Per questo, quattro anni dopo, non solo Craxi, ma anche la Dc storce il naso su Pertini: a parte l’età (81 anni suonati), il vecchio Sandro puzza di Fronte Popolare distante un miglio (anche se nel 1948 si era opposto all’alleanza Pci-Psi, ritenendola un tragico errore). Così il 2 luglio, nel tentativo di bruciarlo, Craxi lancia Pertini presentandolo come “il candidato di tutta la sinistra”. Il vegliardo però annusa la trappola e l’indomani è lui stesso, furibondo, a chiedere di non essere votato. Mossa geniale. Mentre tutti lo credono fuori gioco, lui – all’insaputa del suo partito – comincia a muoversi in ogni direzione per allacciare i rapporti con i vecchi amici (Alessandro Natta, Giorgio Amendola, La Malfa). Giolitti, intanto, tramonta, mentre sembra decollare La Malfa, simbolo vivente del compromesso storico dopo la scomparsa di Moro. Proprio per questo Craxi lo osteggia e, pur di sbarrargli il passo, ripesca Pertini. Anche Andreotti, per evitare che Sandro salga al Quirinale con i voti determinanti dei craxiani, convince la Dc ad appoggiarlo dopo una lunga serie di astensioni. Pertini, con l’aria di quello che non ci tiene, ostenta indifferenza. Ma non si perde un passaggio della partita a scacchi e segue ogni mossa di amici e nemici dalla sua bella casa in piazza Navona. Qui, il 7 luglio, lo raggiunge la notizia che il più è fatto. Non ha mai capito granchè di politica politicante, ma stavolta si gioca la partita da maestro. Diffidente, continua a tessere abilmente la sua tela, ma anche a fingersi rassegnato alla sconfitta. E, per rendere più credibile la sceneggiata, prepara i bagagli per le vacanze estive a Nizza che – lo sa benissimo – dovrà rimandare. Dire che l’8 luglio venga colto di sorpresa dall’annuncio dello scrutinio decisivo, sarebbe una bugia. Ma lui lo dice. Affermare che ha già pronto il discorso d’investitura sarebbe la verità. Ma lui lo nega. Mesi dopo rievocherà così quelle ore cruciali, con una dose di sfrontatezza pari soltanto alla simpatia: “Quando mi hanno offerto la presidenza della Repubblica, a 82 anni, io sono diventato pallido come un morto. Questi miei giovani compagni del Psi, invece, quando gli offrono una carica se la prendono senza batter ciglio. Comunque son sicuro che, dei miei 832 elettori, almeno la metà si sono già pentiti”.

L’elezione a sorpresa

Dunque l’8 luglio, al sedicesimo e ultimo scrutinio, Pertini raccoglie 832 voti su 995 (l’83.6%): la maggioranza più ampia mai raccolta fino a quel momento da un presidente della Repubblica italiana. Praticamente l’intero “arco costituzionale”, che taglia fuori soltanto il Msi. Il discorso d’insediamento, l’indomani, è un abile cocktail di antifascismo, resistenzialismo e “partito degli onesti”, con le nobili aggiunte di un ricordo di Moro, un onore delle armi a Leone e un fermo appello contro ogni cedimento al terrorismo. Tutti felici, contenti e plaudenti. Almeno finchè Pertini, uscendo dall’aula, non minaccia sia pure bonariamente: “Chi si illude che io duri poco, se lo levi dalla testa. Mia madre morì a 90 anni, e solo perché cadde da una sedia. Mio fratello ha felicemente raggiunto quota 94…”.

Indro Montanelli, che abita con la moglie Colette in un attico su Piazza Navona prospiciente le finestre della sua casa, gli invia un telegramma agrodolce di benvenuto sul Colle: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e che si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. Non ne farà granchè tesoro, Pertini, accompagnato da cori di giubilo ed esaltazione dei media, che fanno a gara a esaltare la sua biografia di socialista onesto nato a Stella (Savona), educato dai salesiani, eroe della Grande guerra, socialista e fin da subito antifascista tutto d’un pezzo, compagno di fuga di Filippo Turati, esule in Francia dove si guadagnò da vivere facendo il manovale (“ma il muratore lo fece un giorno solo, e quel giorno riuscì a farsi fotografare”, lo corbellava Nenni), arrestato in Italia nel 1929 e sbattuto in carcere con Gramsci e poi al confino fino al 1943, ardimentoso capo della Resistenza. Su altri particolari più controversi, come il ruolo nella fucilazione di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, o le scalmane all’indomani della Liberazione nell’attesa della rivoluzione socialista che per fortuna non venne, o ancora le lodi all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, gli agiografi sorvolano. Così come sorvoleranno sui molti strappi alla Costituzione che costelleranno la presidenza Pertini, inaugurando quel presidenzialismo strisciante a base di “esternazioni” a ruota libera, poi ampiamente sviluppato e istituzionalizzato da Cossiga, Scalfaro e – dopo la parentesi Ciampi – Napolitano.

La presidenza Pertini è un lungo terremoto durato sette anni. Nel Quirinale un po’ grave o lento lasciato da Leone & famiglia, o almeno dalla loro rappresentazione mediatica che vi ha aggiunto del suo, il vecchio Sandro porta odore di bucato: la sua onestà è unanimemente riconosciuta, la sua immagine di bonarietà rigorosa è quel che ci vuole per restituire un po’ di prestigio e di popolarità alle istituzioni. Il suo settennato non sarà mai sfiorato dall’ombra di uno scandalo e registrerà – tra i non pochi pregi – quello di aver rotto il quarantennale monopolio della Dc su Palazzo Chigi con la nomina dei due primi governi a guida laica: prima quello di Giovanni Spadolini (dopo un vano incarico a La Malfa), poi quello di Craxi (che si presenta al Quirinale in blue jeans, e lui lo rispedisce a casa a cambiarsi: “Vai, vai, ne riparliamo più tardi”). In più Pertini, diversamente da Leone, non tiene famiglia: non ha figli, e la moglie Carla Voltolina, donna schiva e bizzarra ai limiti della scontrosità, non metterà mai piede a Palazzo e non poserà mai da first lady, evitando di aggiungere altre dosi di sale e pepe a quelle che l’intemperante marito semina in giro per l’Italia e per il mondo. Perché lui, Sandro, è un gaffeur da competizione. Gaffes lungamente studiate a tavolino, le sue, come quelle di Mike Bongiorno, per apparire ancor più spontaneo, scomodo e vicino alla gente di quanto già non sia di suo. Il “nonno degli italiani”, assecondato e incoraggiato da una stampa conformista e da una classe politica che tenta di usarlo come foglia di fico (Guido Ceronetti definisce il fenomeno “papagiovannificazione”, e anche Montanelli non perde occasione per canzonare il suo voluttuoso presenzialismo mediatico), bacia migliaia di bambini, abbraccia decine di migliaia di madri e nonne, lacrima copiosamente a migliaia di funerali, intralcia i soccorsi in varie sciagure: dal pozzo di Vermicino al terremoto in Irpinia. E proprio nei giorni del disastro avellinese va in tv ad accusare, in un famoso messaggio alla Nazione, di collusione col sisma il governo da lui stesso nominato e la classe politica di cui ha sempre fatto parte.

Ma è questo anche il bello di “nonno Sandro”: avvicinare un’istituzione fino ad allora lontana e irraggiungibile, il Quirinale, alla gente comune che dei “politici” ha smesso di fidarsi da un pezzo. Anche perché Pertini, col suo pane al pane e vino al vino, dà l’impressione di credere a quel che dice. E, anche quando piange, di non farlo a comando. Piange nell’agosto 1980 in piazza Maggiore a Bologna, accanto al sindaco Renato Zangheri, per i funerali delle vittime della strage. Piange nel giugno 1984, quando si ritrova a Padova dove Berlinguer s’è appena sentito male nel famoso comizio. Arriva fra i primi in ospedale e, insieme a Tonino Tatò, si fa portare nella stanza dove il leader comunista è intubato alle macchine. Si fa allestire una stanza, ha un lieve malore ma non si muove di lì, ascolta i medici dire che non c’è più niente da fare, piange e conforta i famigliari: “Lo porto a casa io, come un fratello, un amico. Un compagno di lotta”. Si carica la bara del compagno Enrico sull’aereo presidenziale e l’accompagna ai funerali in piazza San Giovanni, il 13 giugno, con un milione di persone, ancora in lacrime.

Diplomazia a stile libero

Per converso, gl’incidenti diplomatici provocati dalle sue esternazioni pesudo-improvvisate non si contano. Confonde il Guatemala col Nicaragua. Imputa la strage di Sabra e Chatila agli israeliani anzichè ai falangisti libanesi. Tira in ballo l’Urss come mandante delle Br senza uno straccio di prova. Fraternizza con papa Wojtyla come se fosse il cappellano del Quirinale. Confida alla stampa di aver saputo da re Hussein di Giordania che il capo druso Jumblatt è un morfinomane. Annuncia il ritiro del contingente italiano dal Libano senza che il governo ne sappia nulla (“me l’ha detto coso”: che, per la cronaca, è il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini). Quando muore Berlinguer, trasforma i funerali in un mega-spot elettorale che frutta al Pci il sorpasso sulla Dc alle elezioni europee. Quando defunge il presidente sovietico Cernenko, non proprio un campione di democrazia, interrompe una visita ufficiale in Sudamerica per volare a Mosca a piangere sulla sua bara. E quando i controllori di volo Alitalia – ufficiali dell’Aeronautica – entrano in sciopero, anzichè farli arrestare come comandante delle Forze Armate per violata consegna, li riceve al Quirinale per avviare una mediazione col governo.

Egocentrico, estroverso, collerico, intollerante verso qualunque cenno di dissenso, Pertini si affaccia informale a ogni Capodanno nelle case degli italiani con la pipa e il caminetto accesi, menando fendenti a destra e a manca. Memorabile il discorso di fine 1981, l’anno della scoperta della loggia P2: “Questa P2 ha turbato, inquinato la nostra vita. Non mi interessa per ora se cada o non cada sotto il codice penale. Io guardo a un altro codice, che è il codice morale, il codice che ogni uomo, specialmente di ogni uomo politico, dovrebbe portare scritto nella sua coscienza. Ebbene, la P2 cade sotto questo codice morale. Vi è un proverbio che si usa dire: la moglie di Cesare non dev’essere sospettata, ma prima di tutto è Cesare che non dev’essere sospettato. E allora ogni sospetto devono allontanare dalla loro persona gli uomini politici: non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato in questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica. E quindi coloro che ne facevano parte dovranno risponderne prima di tutto dinanzi alla loro coscienza, ai loro partiti e soprattutto dinanzi al Parlamento. Non vi può essere in questo caso alcuna comprensione e alcuna solidarietà. Ripeto quel che ho detto altre volte: qui le solidarietà personali, le solidarietà di partiti diventano complicità”.

Altre volte i fulmini di Pertini si appuntano contro contro i “suoi” stessi governi, costringendo poi il Presidente a precisazioni imbarazzate e a contorsionismi diplomatici “riparatori” con gli esecutivi offesi dalla sua furia fanciullesca. Un giorno il povero Maccanico, spinto dalle segreterie dei partiti dopo una delle dirompenti esternazioni dell’arzillo misirizzi, gli telefona a Selva di Val Gardena dov’è in vacanza: “Forse, Presidente, se mi posso permettere, troppe interviste potrebbero danneggiarla”. E subito viene investito dalla trillante vocetta dall’altro capo del filo: “Io parlo con chi voglio, di cosa voglio, quante volte voglio!”. Epico il burrascoso licenziamento, dopo soli due anni, del suo capufficio stampa Antonio Ghirelli, grande giornalista napoletano: accade nel 1980, quando una nota del Quirinale annuncia la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno Cossiga, accusato di favoreggiamento nei confronti di Marco Donat-Cattin, figlio del leader democristiano Carlo e terrorista di Prima Linea, sfuggito all’arresto grazie a una soffiata. Ghirelli rivelerà anni dopo di aver offerto le proprie dimissioni d’accordo con Pertini, in seguito alla solita sfuriata del Presidente, per tutelare un giovane collaboratore che aveva vergato il comunicato al posto suo. L’ultima catastrofe è la grazia concessa in tutta fretta da Pertini a Flora Pirri Ardizzone, una terrorista rossa condannata per associazione sovversiva, ma molto speciale: è la figlia di Ninni, seconda moglie di Emanuele Macaluso. E molti commentano: cosa non si fa per gli amici. Ne vien fuori un putiferio e il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, è costretto ad addossarsene tutta la colpa. Nel 1985, a fine settennato, i partiti esausti respingono al mittente le perentorie avances dell’arzillo ottantottenne per essere riconfermato. E votano in massa per Francesco Cossiga. Il mite, il taciturno, il riservato, il notarile Cossiga. Insomma, l’Antipertini. O almeno così credono. Se ne accorgeranno.

Storia










Colle, gli 11 presidenti 




“Romperò i garretti ai due cavalli di razza”. È il 20 dicembre 1971 quando Ugo La Malfa tuona nei corridoi di Montecitorio, pronto a tutto pur di impallinare i candidati forti della Democrazia cristiana: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Con l’aiuto degli altri partiti laici, nonché dei soliti cecchini scudocrociati, ce la farà. Perché quello del 1971 è un Natale presidenziale ancor più tormentato di sette anni prima: stessi balletti, stesse divisioni nella Dc, stessi candidati in lizza: Fanfani, Leone, Saragat. Con l’aggiunta di Moro.

Dopo il laico Saragat, il partito cattolico rivendica il Quirinale per sé. Ma, come al solito, si frantuma in mille pezzi. Da una parte l’ala moderata doroteo-andreottiana, al centro i fanfaniani, a sinistra i filocomunisti Moro con la sua “strategia dell’attenzione” e De Mita col suo “arco costituzionale”. Arnaldo Forlani, il segretario del partito, uomo di Fanfani, non sa che pesci pigliare, ma fa onore al nomignolo che gli appiopperà Giampaolo Pansa: “Coniglio Mannaro”. Mandare sul Colle un rappresentante della sinistra, tipo Moro, significherebbe regalare un’altra vagonata di voti al Msi, trionfatore delle recenti elezioni amministrative (più 7%) a spese della Dc (meno 7%). E mandarci un uomo di destra sortirebbe un’analoga emorragia verso il Pci.

Fallito ogni tentativo di trovare un candidato comune con i partiti alleati, la Dc – in una burrascosa riunione dei gruppi parlamentari – opta per il solito Fanfani. “Il Rieccolo”, come lo chiama Indro Montanelli, passa ancora per un “progressista”, anche se ha appena condotto (e rovinosamente perduto) la battaglia contro il divorzio a braccetto col Vaticano e col leader missino Giorgio Almirante. Per quanti voti l’Amintore prevalga su Moro in quella notte dei lunghi coltelli, non si saprà mai: la votazione avviene a scrutinio segreto. Pochi, comunque: alla fine infatti le schede vengono bruciate, come nei conclavi, per distruggere le prove dell’ennesima spaccatura. Il 9 dicembre il Parlamento in seduta comune comincia a votare. Ed emerge subito chiarissimo che Fanfani non ha dietro di sé tutto il partito: prende appena 388 voti, contro i 397 del socialista Francesco De Martino, votato compattamente dai socialcomunisti. E negli scrutini successivi il divario, anziché ridursi, aumenta. I socialisti, col segretario Giacomo Mancini, non mollano su De Martino, anche se Bettino Craxi – lo scalpitante pupillo di Nenni – lavora sottobanco per Moro. Ma di Moro non vuol sentire parlare La Malfa, che chiede espressamente un laico, o al massimo un cattolico “poco colorito”. Il Pli è fermo sul suo segretario, Giovanni Malagodi, e così il Psdi, tetragono sulla rielezione di Saragat, che ci tiene tanto e ne sta facendo una malattia. I comunisti continuano a votare De Martino, pronti però a intese segrete con la Dc, nella convinzione che stavolta Piazza del Gesù non ricorrerà al soccorso nero (cioè ai voti missini). E qui si sbagliano di grosso.

Le 11 fumate nere di Fanfani

La confusione regna sovrana. In odio a Fanfani, i deputati del manifesto depositano nell’insalatiera schede con la scritta “Fanfascista” o con la rima baciata: “Maledetto nanetto, non verrai mai eletto”. All’undicesima fumata nera, Fanfani capisce l’antifona e si ritira. Per l’ennesima volta lo Scudocrociato è costretto a cambiare cavallo a metà della corsa. E, in attesa di trovare un nuovo candidato, si astiene. Lo stesso fanno, tra le proteste delle sinistre, i missini, i monarchici, i repubblicani, i socialdemocratici e i repubblicani: una vasta area di parcheggio – tutta di centrodestra – che rappresenta la maggioranza dell’aula e sembra aspettare soltanto un uomo di vasto consenso. Ma le sinistre non lo capiscono e chiedono ingenuamente alla Dc i voti per Nenni, disposte al massimo ad appoggiare Moro. Proprio quel che non vogliono il Pri e il Psdi, che propongono in alternativa Leone, Rumor o Paolo Emilio Taviani. Il secondo e il terzo declinano subito. Resta Leone.

Nato a Napoli nel 1908, figlio di uno dei fondatori del Partito popolare, insigne docente di procedura penale e principe del foro, di orientamento monarchico, iscritto in gioventù al Partito fascista e poi alla Dc fin dal 1944, deputato fin dalla Costituente (fu relatore alla commissione dei Settantacinque per il titolo “Magistratura”), vicepresidente eppoi presidente della Camera, due volte presidente del Consiglio nonché senatore a vita, Leone è un notabile che non s’è mai impegolato nelle beghe di corrente. Passa per un uomo super partes e la sua fama di conservatore basta e avanza a mettere la sordina ai dissensi, dovuti essenzialmente alla sua ostentata, quasi sfacciata napoletanità: scongiuri e “corna” ad ogni pie’ sospinto, sfrenate tarantelle e cantate di O’ Sole mio anche in cerimonie ufficiali, intemperanze non proprio protocollari allo stadio San Paolo quando gioca il Napoli, e un’inflessione dialettale quasi molesta. Ma il suo rigore di giurista sembra fatto apposta per un partito che, nel caos dell’Italia dei primi anni 70, vuole ridarsi un’immagine di law and order. E recuperare i voti regalati alla destra.

L’interessato viene informato a cose fatte: mentre gli “amici” lo designano per il Quirinale, Leone è chiuso in casa con la bronchite. È qui che Forlani, i capigruppo Giulio Andreotti e Giovanni Spagnolli e il presidente del partito Benigno Zaccagnini gli portano la notizia. Lui prende tempo: memore del “supplizio cinese” di sette anni prima, quando alla fine la spuntò Saragat, vuole prima sentire gli alleati laici. A La Malfa il suo nome va bene, al Psdi pure e anche i liberali ci stanno. I socialisti tuonano contro “l’ennesima candidatura di centrodestra”, i comunisti si accodano. Ragion per cui anche il Msi si associa a Leone. Il quale accetta e l’indomani, 23 dicembre, manca il quorum per un solo voto: 503 voti contro gli almeno 504 necessari. Ma lo ottiene alla vigilia di Natale, con appena 13 voti di scarto (518 su 996). Una maggioranza risicatissima (51.4%) e ultramoderata, la sua: Dc, laici, Msi. Lui, a 63 anni, è il più giovane presidente della Repubblica: quello eletto dopo il maggior numero di scrutini: ben ventitré. L’epilogo della votazione decisiva l’ha seguito dal suo ufficio in Senato, alla tv. Tentennerà un po’ prima di accettare. L’ora è grave e gliene dà la prova un’allusiva lettera che gli viene recapitata un minuto prima del voto. “Nella mia qualità di segretario organizzativo di una potente Istituzione riservata, mi pregio informarla che abbiamo deliberato di far convergere sul suo nome i voti di tutti i nostri Grandi Elettori”. Firmato: Licio Gelli. La potente Istituzione riservata è la loggia Propaganda 2 del Grande Oriente d’Italia, detta P2. E Gelli ne è il Maestro Venerabile.

L’elezione di Leone scatena il pandemonio a sinistra. Il manifesto lo definisce “il Segni napoletano”, per via del determinante appoggio missino. E quando si presenta alle Camere per l’insediamento, i comunisti l’accolgono con lanci di monetine. Pajetta scaraventa un sacchetto pieno di 10 lire addosso a Ugo La Malfa, antifascista ma sponsor di un presidente eletto coi voti decisivi dei fascisti. Poco importa se il primo discorso del presidente Leone, nonostante il linguaggio ottocentesco, è un capolavoro di equilibrio giuridico e di osservanza costituzionale: “Non spetta a me formulare programmi o indicare soluzioni. Solo vigilare sul rispetto della Costituzione”. Purtroppo alle parole non sempre seguiranno i fatti. Leone darà spesso l’impressione di accodarsi agli ordini del suo partito, soprattutto dell’uomo forte Giulio Andreotti. Con l’elezione di Leone, il centrosinistra è in frantumi. La Dc spinge per le elezioni anticipate e Leone si adegua, senza scaldarsi troppo per salvare la legislatura. Prima di sciogliere le Camere (è la prima volta, nella storia repubblicana), incarica il divo Giulio per un bicolore di minoranza Dc-Pli, destinato a sicura bocciatura, ma che consente allo Scudocrociato di gestire le elezioni con un governo tutto suo.

Gli anni che seguono sono tra i più burrascosi della storia della Repubblica. L’Italia fuori dal serpente monetario europeo (1973), il ritorno di Fanfani alla segreteria Dc e l’ultimo rantolo del centrosinistra (governo Rumor), il referendum sul divorzio e le stragi di Brescia e dell’Italicus (1974), il crollo del governo Moro-La Malfa (1975). Il Presidente scioglie di nuovo le Camere per espresso desiderio della Dc, che gestisce le elezioni con un altro monocolore di minoranza. Poi l’inizio della lunga stagione del compromesso storico, mentre l’Italia affonda nel fango degli scandali e nel sangue del terrorismo. Nel caso Lockheed viene coinvolto pure l’uomo del Colle, tirato per i capelli come il possibile regista (“Antelope Cobbler”) dell’operazione tangentizia italo-americana. E poco importa se, anni dopo, ne verrà totalmente scagionato. La campagna scandalistica bipartisan, delle sinistre (soprattutto l’Espresso e la giornalista Camilla Cederna) e dell’agenzia OP di Mino Pecorelli, prende di mira il Quirinale per la vita disinvolta della famiglia Leone: voci di assegni a donna Vittoria (la bella e ingombrante first lady) e insinuazioni sulla di lei vita privata (tratte da un vecchio dossier del generale De Lorenzo); pettegolezzi sull’allegra figliolanza (i “tre monelli” Mauro, Roberto e Paolo); accuse di nepotismi di corte; chiacchierate amicizie con i fratelli Lefebvre d’Ovidio (protagonisti dell’affaire Lockheed), il finanziere Rovelli, financo con lo Scià di Persia. Il resto lo fa “don” Giovanni, con le sue continue esibizioni di corna: davanti agli studenti che lo contestano all’Università di Pisa e davanti ai malati di colera negli ospedali di Napoli, sempre sotto i flash e le telecamere. Ad aggiungere discredito sulle istituzioni contribuiscono, nel 1978, il sequestro Moro e il referendum radicale contro il finanziamento pubblico dei partiti (che lo osteggiano in blocco, mentre il 43% degli italiani vota Sì).

Le accuse e l’isolamento

Ci vuole un capro espiatorio: e chi meglio di Leone? Nel 1975 il Presidente s’è inimicato definitivamente le sinistre, con un duro messaggio alle Camere in cui le invitava ad applicare la Costituzione regolamentando il diritto di sciopero. E ora è messo al tappeto dal feroce pamphlet della Cederna, Giovanni Leone - Carriera di un Presidente (in seguito denunciata dai figli di Leone e condannata a per diffamazione, anche se non tutte le sue accuse, soprattutto all’entourage leonino, erano campate per aria) e dalla martellante campagna dei radicali capitanati da Marco Pannella (che anni dopo, insieme a Emma Bonino, gli chiederà pubblicamente scusa). Lui vorrebbe querelare, ma il ministro della Giustizia del governo Andreotti, il democristiano Francesco Paolo Bonifacio, nega più volte l’autorizzazione a procedere per oltraggio. Il Pci di Enrico Berlinguer chiede le sue dimissioni. E lo stesso fa Ugo La Malfa, che pure aveva patrocinato la sua elezione. A quel punto la Dc, sempre più succube del Pci, non si accontenta di non difenderlo, e platealmente lo scarica. Andreotti e Zaccagnini vanno a trovarlo al Quirinale il 15 giugno per invitarlo dolcemente a sloggiare anzitempo. Leone vorrebbe ricordare ad Andreotti che fu proprio lui a convincerlo a non rispondere alle accuse, a non querelare i suoi diffamatori: lo stesso Andreotti che ora, in base a quelle accuse, gli dà il benservito. Ma non lo fa e se ne va, sei mesi e due settimane prima della scadenza naturale del mandato. Ha già pronto il discorso di commiato. E congeda sarcastico e frettoloso i due “amici”, ospiti più che mai sgraditi: “Grazie, guagliò, così ora potrò guardarmi i Mondiali di calcio in santa pace”.

Storia





Quirinale, gli 11 presidenti


Era un supplizio cinese, un gioco complicato di schede bianche, o a volte dirottate su candidature di comodo perché si perdessero le tracce dei franchi tiratori”. Così Giovanni Leone, candidato della Democrazia cristiana poi battuto da Giuseppe Saragat, rievocherà il tradimento dei suoi amici che nel 1964 l’hanno mandato allo sbaraglio nella corsa al Quirinale. Anche stavolta, come sempre tranne che nel 1962 con Segni, la Dc è costretta a cambiare cavallo a metà corsa. Ma andiamo con ordine.

Dopo la lunga infermità, Antonio Segni ha avuto finalmente il permesso di dimettersi. E l’ha fatto il 6 dicembre. Candidato ufficiale dello Scudocrociato è, appunto, il presidente della Camera Giovanni Leone, che la spunta sul solito Fanfani, su Scelba e su Giulio Pastore. Psi, Pri e Psdi ripropongono, come due anni prima, il fondatore del Partito socialdemocratico Giuseppe Saragat. Torinese, 67 anni, figlio di immigrati sardi, socialista riformista turatiano fin dal 1922, esiliato in Svizzera, Austria e Francia durante il fascismo, rientrato e arrestato dai nazisti nel 1943, presidente della Costituente nel 1946, ha avuto il coraggio di opporsi al fronte socialcomunista e a promuovere nel 1947 la scissione del Psi a Palazzo Barberini, appoggiando l’adesione dell’Italia alla Nato e al Piano Marshall, diventando la bestia nera dei comunisti che lo trattano da traditore al soldo degli americani.

Ora però, siamo alla fine del 1964, da quello strappo dilaniante sono trascorsi quasi vent’anni: tant’è che anche l’ala destra del Pci – che fa capo a Giorgio Amendola – è disposta a votare per Saragat al Quirinale, mentre la sinistra di Mario Alicata e Pietro Ingrao preferirebbe Fanfani, fautore di un’interpretazione “progressista” del centrosinistra. Il Pli si isola attorno al suo candidato di bandiera, Gaetano Martino, già ministro degli Esteri di De Gasperi. Questi gli schieramenti ai blocchi di partenza quando, il 16 dicembre, le Camere cominciano a votare.

Il supplizio cinese di Leone

Nei primi quindici scrutini Leone sale, scende, recupera, ridiscende. È il suo “supplizio cinese”, orchestrato da dietro le quinte a suon di franchi tiratori da Carlo Donat Cattin, da Ciriaco De Mita e dal solito Fanfani. Per convincere l’Amintore a sbloccare lo stallo, deve scendere in campo papa Paolo VI, con una lettera del direttore dell’Osservatore Romano Raimondo Manzini: “Quassù – gli scrive Manzini – si desidera vivamente una rinuncia per il bene maggiore”. Nella successiva votazione, per tutta risposta, tre anonimi fanfaniani scrivono provocatoriamente sulla scheda il nome di Ludovico Montini, fratello del Papa e senatore Dc. Gli altri votano scheda bianca. E Leone, esasperato, si ritira. È il 24 dicembre. Per la prima volta nella sua storia centenaria, il Parlamento italiano apre i battenti anche il giorno di Natale. E in piazza Montecitorio la folla rumoreggia: corre voce che là dentro la tirino tanto alle lunghe perché è previsto un gettone di presenza di 50 mila lire al giorno. Non è vero, ma fa lo stesso.

In attesa di trovare l’intesa su un nuovo candidato, i democristiani si accordano per astenersi: sfilano in 368 davanti all’insalatiera di vimini verde-oro pronunciando la parola “astenuto”, mentre dall’emiciclo piovono i “vergognatevi!” delle sinistre. Nella notte, all’ennesima riunione di partito, volano parole grosse: da una parte i fanfaniani e forzanovisti di Donat-Cattin, che puntano a un’intesa con le sinistre; dall’altra i centristi di Scelba e la destra di Andreotti, che si oppongono a ogni cedimento verso i comunisti. La battaglia si chiude con un fumoso documento che pare orientato verso Saragat, ma non lo nomina mai, e men che meno indica la maggioranza che lo dovrà sostenere. Ormai siamo alla pochade: infatti, l’indomani, è l’ennesima fumata nera. E anche il fronte saragattiano sembra sfarinarsi, con un numero sempre maggiore di socialisti che si uniscono al Pci nel votare Pietro Nenni. Saragat si ritira, ma per ripresentarsi l’indomani.

Disperato, il segretario del Psdi Mario Tanassi va a chiedere i voti di Botteghe Oscure. Luigi Longo dice di sì, ma pretende un appello pubblico ed esplicito: “I voti ve li diamo se ce li chiedete ufficialmente”. Sembra fatta, anche perché Saragat ha già in tasca i voti del Psi, dopo un incontro strappalacrime con Nenni. Ma deve stare attento a non indispettire la Dc moderata. Così s’inventa una dichiarazione che è un capolavoro di dico-non dico: “Ho posto per la seconda volta la mia candidatura a presidente della Repubblica e mi auguro che sul mio nome vi sia la confluenza dei voti di tutti i partiti democratici e antifascisti”. In pratica del nascente “arco costituzionale”. In quel “democratici” sono compresi o no i comunisti? Per la Dc esclusi, per il Pci compresi. Ma a Rumor, segretario Dc, e a Longo va bene così. Così il 28 dicembre, al ventunesimo scrutinio, Saragat viene finalmente eletto quinto presidente della Repubblica Italiana, con 464 voti su 927: quelli di tutti i partiti, eccetto Pli, Msi e un manipolo di cecchini. Lapidario il commento del Time di Londra: “Hanno scelto l’uomo migliore nel peggiore dei modi”.

Saragat il giorno fatidico lo trascorre barricato in casa fin dal mattino con la figlia Ernestina, unica compagna della sua vita dopo la morte della moglie Giuseppina. E, dopo l’annuncio ufficiale, si mette subito a scrivere il discorso d’insediamento. Un discorso dignitoso: “So che gli unici titoli che mi hanno raccomandato ai vostri suffragi sono le convinzioni democratiche e un passato di militante per la libertà. Cercherò di esser degno del vostro voto”. Poco dopo, però, tesse le lodi del centrosinistra: un’intromissione bella e buona nella politica attiva. Ma i partiti maggiori non trovano nulla da ridire. E nessuno, escluse le destre, protesta.

Il fatto di averlo votato non impedirà però ai comunisti di risfoderare le loro vecchie ruggini contro l’uomo di Palazzo Barberini, il socialista filoamericano, sprezzantemente dipinto come “socialfascista”, “socialtraditore”, “rinnegato”. Il tutto condito con pesanti battute sul suo trasporto per gli alcolici (Pinot Barbera, lo chiama qualcuno nel suo Piemonte). In un’unica occasione il Pci starà dalla sua parte: quando il presidente concederà la grazia a un criminale della guerra partigiana, Francesco Moranino, tra le violente polemiche del centrodestra. Qualcuno arriverà a insinuare che quello fosse il prezzo pagato per l’appoggio comunista alla sua scalata al Colle. In politica estera, Saragat si conferma un leale alleato del fronte atlantico, anche se una sua strigliata al presidente Usa Lyndon Johnson su “questa guerra del Vietnam che dura troppo a lungo e che dovete chiudere” viene accolta con fastidio alla Casa Bianca.

Sul fronte interno, sono anni terribili: il Sessantotto, le violenze di piazza, le prime bombe, la strategia della tensione che qualche dietrologo vorrebbe far risalire addirittura a lui. Intanto, il centrosinistra sta tramontando per colpa dei socialisti, che alzano continuamente la posta invocando “equilibri più avanzati” (verso il Pci) e della sinistra Dc ora capitanata da Moro, mollemente rassegnato all’abbraccio più o meno lontano con i comunisti. In questi giochi di palazzo Saragat mette spesso lo zampino, patrocinando dal Colle – con interventi ai limiti della Costituzione – la riunificazione socialista. Che però durerà l’espace d’un matin. Per non finire stritolati nell’abbraccio mortale Psi-Pci, i socialdemocratici faranno ben presto marcia indietro. Si dirà che, nei giorni burrascosi della contestazione e degli scontri di piazza , Saragat accarezzasse addirittura il proposito di improvvisarsi come “il De Gaulle italiano” con un pronunciamento per la Repubblica presidenziale, sul modello appena adottato in Francia dal generale suo idolo. Ma che i consiglieri l’avessero convinto a soprassedere.

Disse: Moro è come le monache

Caparbio e testardo, ma schietto e sincero, pane al pane e vino al vino (soprattutto vino, direbbero i maligni), Saragat detesta il linguaggio alla vaselina tanto caro ai democristiani. Quando Moro, per non urtare i comunisti, evita accuratamente di nominare in pubblico l’Alleanza atlantica (limitandosi a parlare della “nostra collocazione internazionale”), monta su tutte le furie: “Moro mi ricorda le monache di un tempo, che per non nominare certe parti del corpo le chiamavano pudende”. Si deve a lui se il messaggio di Capodanno diventa, da un rituale e burocratico augurio agli italiani, una sorta di “discorso della corona” o “del caminetto”, con il bilancio dell’attività politica dell’anno passato e gli incoraggiamenti e i suggerimenti presidenziali per i mesi a venire. Particolarmente significativo quello pronunciato da Saragat il 31 dicembre 1970, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato. Qualche giorno prima, Ugo La Malfa ha invitato il presidente a dimettersi in anticipo, per non incrociare il semestre bianco con le elezioni politiche e non paralizzare per un anno la vita politica sulla scadenza quirinalizia. L’idea a Saragat – che tra l’altro spera di essere rieletto – non piace per nulla. E lo dice in tv: “Italiani, questo è l’ultimo discorso di fine anno che io rivolgo a voi nel corso del mio settennato, che avrà termine il 29 dicembre 1971…”. E non un giorno di meno. La Malfa, tiè.

sabato 18 maggio 2013

Storia





Quirinale, gli 11 presidenti


“La Dc sostiene la candidatura di Antonio Segni non in contrapposizione, ma in parallelo con quella di Giuseppe Saragat“. Per la quarta battaglia all’ombra del Quirinale, a fine aprile del 1962, il segretario democristiano Aldo Moro partorisce una delle sue formule più fumose – la candidatura parallela ma non contrapposta – che fa il paio con le “convergenze parallele” di due anni prima. Quello, d’altronde, è tempo di equilibrismi, politici e verbali. Il 2 marzo è nato il quarto governo Fanfani, formato da Dc, Psdi e Pri con l’appoggio esterno del Psi: l’anticamera del tanto discusso centrosinistra. La destra democristiana, cioè quella vasta palude che i giornali chiamano “dorotea”, è in preda alle convulsioni. Ma in quel partito nessun ostacolo è insormontabile. Basta pagare. E i dorotei, al congresso di gennaio, in cambio del loro assenso alla svolta a sinistra invocata da Fanfani, hanno preteso e ottenuto la candidatura ufficiale al Quirinale del loro leader indiscusso: Antonio Segni.

Classe 1891, sassarese, Segni è il tipico gentiluomo di campagna: nobile di nascita – la famiglia ha lombi di sangue ligure –, ma popolare per vocazione, è entrato giovanissimo nell’Azione cattolica e nel Ppi di don Luigi Sturzo, segnalandosi per la linea dura contro il fascismo. Docente di diritto a Perugia, Sassari e Roma, è tra i fondatori della nuova Dc, poi nel 1946 padre costituente e in seguito ministro dell’Agricoltura chiamato da De Gasperi a realizzare la storica riforma agraria. Conservatore, certo, ma con una vena di riformista. È stato due volte presidente del Consiglio e ora – nel governo Fanfani IV – è ministro degli Esteri. Dopo l’accordo congressuale tra destra e sinistra Dc, nessuno sembra potergli insidiare la successione a Giovanni Gronchi. Ma i patti, soprattutto in piazza del Gesù, sono fatti per essere infranti. E quando, il 30 aprile, alla vigilia del voto a Camere riunite, i gruppi parlamentari scudocrociati si contano, ecco riemergere le solite spaccature e imboscate. Con Segni si schierano i dorotei e le altre correntine moderate. La sinistra interna sfodera addirittura tre soluzioni alternative: Gronchi-bis (sponsorizzato dal presidente dell’Eni, Mattei), Attilio Piccioni e il sindacalista Giulio Pastore, mentre qualche fanfaniano propone addirittura il socialdemocratico Giuseppe Saragat pur di silurare il candidato ufficiale e tirare la volata all’Amintore.

In testa ma senza voti

Alla fine Segni la spunta, ma per un pelo. E quando le Camere cominciano a votare, il 2 maggio, gli effetti della lacerazione sono subito evidenti. I socialcomunisti si riversano come un sol uomo su Saragat, mentre la Dc si frastaglia in ordine sparso. Nei primi sette scrutini Segni è, sì, il primo della graduatoria, ma non raggiunge mai la maggioranza assoluta. E dire che sul suo nome sono confluiti anche i liberali e, dopo la sesta tornata, anche monarchici e missini (che peraltro avevano appoggiato il suo secondo governo, procurandogli l’odio eterno della sinistra Dc). Lo stallo minaccia di durare in eterno. A quel punto, il 6 maggio, Saragat propone di congelare la propria candidatura e quella di Segni a vantaggio di un terzo uomo, candidato “di pacificazione”: il presidente della Camera Giovanni Leone. Moro ci starebbe pure, ma i dorotei e la destra del partito (Scelba e Andreotti) no: minacciano addirittura la guerra al governo Fanfani. Il quale, terrorizzato dall’idea di perdere la poltrona, capitola e ripiega sull’odiato Segni: come sette anni prima, quando aveva dovuto abbandonare Merzagora per Gronchi.

La svolta “unitaria” o quasi è propiziata anche da una telefonata del cardinal Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI, buon amico e grande estimatore dello statista sassarese. E così fa capolino nella corsa al Quirinale un’altra pessima abitudine della politica italiana: l’ingerenza del Vaticano. È anche grazie a queste pressioni che, per la prima e ultima volta nella storia repubblicana, la Dc riesce a mandare al Quirinale il suo candidato ufficiale. Tocca ad Arnaldo Forlani, giovane delfino del presidente del Consiglio, il compito di portare la notizia rassicurante a Segni nella sua casa di via Sallustiana: finalmente la Dc voterà compatta per lui. Il leader sardo, però, non si fida: vuole sentirselo dire dalla viva voce di Fanfani. L’incontro fra i due carissimi nemici si chiude con un abbraccio. La sera stessa di quella domenica 6 maggio, all’ottavo scrutinio, Segni manca il quorum per appena quattro voti. Ormai è chiaro che sarà lui a farcela e si passa subito alla nona votazione. Così in fretta che i commessi non fanno neppure in tempo a distribuire tutte le schede.

Un deputato Dc, ancora sprovvisto della sua, si fa passare quella del vicino di banco, già compilata col nome di Segni. Nulla di grave, ma Sandro Pertini – imbufalito per l’ormai imminente sconfitta delle sinistre – fa cenno ai socialisti di abbandonare l’aula e grida al broglio: “Camorra, camorra!”. Putiferio nell’emiciclo, sospensione di due ore. Profittando della pausa, Palmiro Togliatti incontra a quattr’occhi Leone per offrirgli tutti i voti della sinistra, lasciandogli intendere che Moro è pronto a portargli quelli di metà della Dc. Ma Leone rifiuta l’inciucio e riconvoca l’assemblea per lo scrutinio numero 9-bis. Segni finalmente è eletto, sia pure con una maggioranza risicatissima e con l’apporto determinante di monarchici e missini: 51.8%, ovvero 443 voti su 842, contro i 334 di Saragat (più 51 schede bianche). I due concorrenti, vicinissimi nell’ordine alfabetico, si incrociano al momento del voto. E, dopo vent’anni di amicizia, voltano lo sguardo dall’altra parte per non doversi salutare. Per la prima volta gli italiani possono assistere allo spoglio in diretta televisiva: a molti deve apparire interminabile il rituale del presidente Leone che, con smaccata inflessione napoletana, legge “bianga”, “bianga”, “Segggni”, “Saragatte”…

I parenti del nuovo presidente racconteranno che Antonio, dalla notte della sua elezione, ha perduto per sempre il sonno e l’appetito. Ma lo choc più forte lo subisce, al momento della proclamazione ufficiale, il suo giovane aiutante di campo, sassarese come lui, che ha temuto fino all’ultimo il cecchinaggio dei franchi tiratori: quando scatta l’applauso per l’elezione del nuovo Presidente, sviene in corridoio come una pera matura. Il suo nome è Francesco Cossiga. Il messaggio d’insediamento di Segni è l’esatta antitesi di quello gronchiano di sette anni prima. “Non tocca a me – avverte l’11 maggio – determinare gli indirizzi politici nella vita dello Stato, prerogativa questa che spetta al governo e al Parlamento”. A queste parole l’aula si lancia in una corale ovazione, che suona come un addio polemico al settennato di Gronchi, costellato di forzature e deragliamenti costituzionali che avevano trasformato il Quirinale in una sorta di Superpresidenza del Consiglio. “A me quale capo dello Stato – prosegue Segni – incombe il dovere di tutelare l’osservanza della Costituzione e di operare affinché sia garantita nella forma e nello spirito dell’attività dello Stato l’unità morale e civile della Nazione…”. E pare che parli a nuora perché suocera intenda.

La sua missione è chiara: traghettare l’Italia verso il centrosinistra (che Segni ritiene ormai ineluttabile) nel modo più indolore e vellutato possibile. Ma, lungi dalle invasioni di campo, il suo stile presidenziale sarà improntato al più sobrio rigore, lontano mille miglia dallo sfarzo invadente ed esibizionista del predecessore. Anche la first lady, donna Laura Carta, se ne starà al suo posto senza ostentazioni né vistosità. Il quarto presidente della Repubblica italiana è un uomo solo, e lo diventa ancor di più quando varca il portone del Quirinale. Lo tocca con mano quando il Parlamento accoglie nella più assoluta indifferenza il suo splendido messaggio che invita a riformare la Costituzione per escludere la possibilità del doppio mandato quirinalesco.

Forse, se fosse stato meno solo, si sarebbe pure capito qualcosa di quel che accadde tra lui e il generale De Lorenzo nella nebulosa vicenda del presunto golpe tentato dall’ufficiale, nel 1964, curiosamente ribattezzato “Piano Solo”. A rivelarla, cinque anni più tardi, saranno Lino Jannuzzi ed Eugenio Scalfari in un celebre scoop sull’Espresso. Vero o falso? Quel che è certo è che il 26 giugno 1964 il primo governo di centrosinistra organico, capitanato da Moro, è costretto a dimettersi. La crisi ristagna per un mese e più, senz’alcuno spiraglio di sbocco verso un’alleanza alternativa. Terrorizzato dall’idea di dover rimandare alle Camere un governo senza maggioranza precostituita, col rischio che le destre vi si insinuino per mandare a monte il rapporto tra Dc e Psi, come già era avvenuto nella drammatica rivolta popolare contro il governo Tambroni (Dc-Msi), Segni manda a chiamare il colonnello Giovanni De Lorenzo. Già capo dei servizi segreti, poi comandante dell’Arma dei Carabinieri, da poco capo di Stato maggiore dell’Esercito, molto influente anche su Gronchi, il “generale col monocolo” è convocato alle prime avvisaglie della crisi (inizio maggio), per rispondere a una domanda precisa: le Forze Armate sarebbero in grado di scongiurare una nuova e più ampia rivolta di piazza scatenata dal Pci? Quel che ne segue – la risposta dell’alto ufficiale, le eventuali intese col Presidente, le successive mosse di ambienti militari più o meno all’insaputa del Quirinale – resterà avvolto nel buio. Probabile che, profittando delle eccessive apprensioni di Segni e spendendo (o millantando) il suo nome, De Lorenzo abbia ampiamente travalicato dal suo mandato. Sta di fatto che, in gran segreto, nei giorni successivi predispone un piano (detto in codice “Solo”, perché scritto solo da lui o perché prevede l’intervento dei soli Carabinieri) che, se non è un golpe, molto gli somiglia: militari provvisoriamente al potere, deportazione di 731 politici e sindacalisti di sinistra (gli “enucleandi”) nella base Nato sarda di Capo Marrargiu, occupazione della Rai e dei giornali di sinistra. Il 10 maggio, quando lo presenta al Presidente, questi ne rimane profondamente turbato. Storici e giornalisti, come Giorgio Galli e Indro Montanelli, si diranno convinti che Segni non avesse alcuna intenzione golpista, ma accarezzasse l’idea di usare il colpo di Stato come spauracchio per indurre i partiti a uscire dall’impasse e retrocedere dal centrosinistra.

L’epilogo drammatico

Di sicuro c’è che, dopo quelle settimane drammatiche, Segni non è più lo stesso. Assillato dai problemi dell’ordine pubblico e dalla crisi economica, facilmente impressionabile a ogni stormir di fronda, si commuove come un bambino al solo assistere a una sfilata di carabinieri e si circonda di consiglieri quantomeno discutibili. Ad alimentare la leggenda del presidente golpista contribuirà la percezione a una famosa cena in casa del moroteo Tommaso Morlino: vi partecipano De Lorenzo, il comandante Cossetto (uomo di fiducia del presidente), il capo della polizia Vicari, il segretario Dc Rumor e il premier dimissionario Moro. Si discute dell’ordine pubblico e si conclude che la situazione è tranquillizzante.

Ma a Pietro Nenni – così almeno dirà il leader socialista alla commissione d’inchiesta sui fatti dell’estate ‘64 – viene comunicata una versione allarmantissima, per forzare la mano ai socialisti affinché – vista l’emergenza – abbassino le pretese e tornino al governo rinunciando alle pregiudiziali per le quali l’avevano rovesciato. Nenni dirà di aver avvertito in quei giorni “un tintinnar di sciabole”: in pratica, aria di golpe. A ciò si aggiunge quel che accade nella tragica sera del 7 agosto: mentre colloquia burrascosamente al Quirinale con Moro e Saragat, Segni viene colto da un gravissimo malore. Fuori dalla porta, qualche testimone dirà di aver sentito i tre urlare e Saragat minacciare il presidente di trascinarlo davanti all’Alta Corte di Giustizia. Saragat smentirà, ma quella sera qualcosa di tragico forse accade. Sta di fatto che i commessi, quando si aprono le porte, vedono Segni quasi esanime tra le braccia di Moro e di Saragat. La diagnosi dei medici è: “Malessere dipendente da disturbi circolatori e cerebrali”. Una trombosi che lo immobilizzerà per il resto della sua vita, lasciandolo in uno stato di parziale incoscienza fino alla morte, avvenuta nel 1972. Il momento è così delicato che il vertice Dc, fatta siglare la dichiarazione del suo stato di inabilità temporanea dai presidenti del Consiglio e delle Camere (quello del Senato, Merzagora, assume l’interim sino a fine anno), decide di attendere quattro mesi prima di avviare le procedure per eleggere il nuovo presidente. Segni resta congelato, quasi imbalsamato dal suo stesso partito fino al 6 dicembre, quando finalmente gli vengono fatte firmare le dimissioni. Si chiude così, dopo due anni e mezzo, l’avventura del quarto presidente. Il più solo e sfortunato della storia della Repubblica.

Storia





Quirinale, gli 11 presidenti 



Da Einaudi a Gronchi: ovvero come rimpiazzare un gentiluomo con un magliaro. Nella primavera del 1955, quando si tratta di eleggere il terzo presidente della Repubblica, solo i liberali spingono per la riconferma del presidente uscente. E l’interessato – ansioso di tornare tra i filari langaroli della sua Dogliani – non è tra questi: “Sono troppo vecchio”. Sulle prime, in pole position nella corsa al Colle c’è una personalità di tutto rispetto: il presidente del Senato Cesare Merzagora, 57 anni, ministro del Commercio estero con De Gasperi, senatore senza tessera eletto come indipendente nella Dc, economista di tendenze liberali. È a lui che, nella primavera del 1955, pensano Amintore Fanfani, da un anno segretario dello Scudocrociato, e Mario Scelba, presidente del Consiglio. E la cosa pare fatta. Senonché, nel ventre molle della Balena Bianca, covano rancori mai sopiti dall’ultimo congresso-terremoto di Napoli (giugno 1954), dove l’Amintore s’è impossessato del partito stracciando la destra interna, riunita intorno a Giulio Andreotti e Guido Gonella. E non c’è più nemmeno il prestigio di De Gasperi, morto il 19 agosto 1954, a tenere insieme quel ballatoio di comari.
Così, il 28 aprile, quando il presidente della Camera Giovanni Gronchi convoca la seduta plenaria del Parlamento per eleggere il successore di Einaudi, ecco subito il colpo di scena: il favoritissimo Merzagora non va oltre i 228 suffragi, benché i democristiani presenti e votanti siano 380. Prende più voti (308) il vecchio Ferruccio Parri, sostenuto dai socialcomunisti. Einaudi ne raccoglie 120, Gronchi 30. Merzagora vorrebbe ritirarsi, ma Fanfani lo prega di non farlo, sicuro che poi anche il Psi e il Pci confluiranno su di lui. Invece gli antifanfaniani puntano in gran segreto su Gronchi, pisano di Pontedera, classe 1887, uno dei fondatori del Partito popolare, già sottosegretario del primo governo Mussolini, ora dichiaratamente ostile al centrismo degasperiano e alla Nato, nonché fautore dell’apertura ai socialisti. Paradosso dei paradossi: la destra Dc sta dalla parte di un sinistro, mentre a volere Merzagora – conservatore, filoamericano, amatissimo dagli industriali – è la sinistra del partito.

Merzagora, lo sconfitto

Nel pomeriggio, secondo scrutinio: Merzagora, anziché salire, scende ancora (a 225). Einaudi scivola a 80. E Gronchi balza a 127. Ma il dato più eclatante sono le 332 schede bianche: socialisti, comunisti, missini, monarchici e democristiani antifanfaniani. L’Amintore capisce l’antifona: le opposizioni interne si sono alleate con quelle esterne di ogni colore per Gronchi e contro di lui. Infatti in serata, al terzo scrutinio, Gronchi passa in testa con 281 voti contro i 245 di Merzagora. Le schede bianche, 195, sono pronte a saltare sul carro del vincitore alla quarta tornata (quando è sufficiente la maggioranza semplice). Quella che segue è una notte dei lunghi coltelli. Il vertice della Dc, capitanato da Scelba, va a trovare Gronchi pregandolo di ritirarsi: “La tua candidatura – gli dice Scelba – rischia di apparire come il preludio a una svolta antiamericana e antiatlantica della nostra politica estera”. Gronchi monta su tutte le furie: “Ma come, mi avete eletto presidente della Camera, e ora scoprite che non vado bene come presidente della Repubblica?”. Finisce a male parole. Poco dopo il vicesegretario Dc Mariano Rumor telefona a Merzagora per informarlo che il partito ha cambiato cavallo. Fanfani tenta ancora le carte Piccioni e Segni, ma nessuno gli dà retta. Ormai non gli resta che far buon viso a cattivo gioco, presentando Gronchi come il candidato di tutto il partito, per rendere superflui i voti dei comunisti.

L’indomani Gronchi, sempre affiancato dal presidente del Senato Merzagora, comincia a estrarre le schede dall’urna e a leggere infinite volte il proprio nome. Al 422° “Gronchi”, scoppia l’applauso dell’aula: il quorum è raggiunto. Gronchi viene eletto presidente con 658 suffragi (mezza Dc, Psi, Pci, Msi, monarchici ), contro i 70 di Einaudi; 92 le schede bianche, 2 le nulle, 11 i voti dispersi. L’ambasciatrice americana Claire Booth Luce, ferocemente anticomunista, abbandona stizzita la tribuna: “He is a bloody neutralist”, è un fottuto neutralista. Giancarlo Pajetta vede Scelba che si contorce per la rabbia e, unico nel-l’emiciclo, non batte le mani al vincitore: beffardo, gli fa portare da un commesso un bicchiere di Cynar, l’aperitivo al carciofo contro il logorio della vita moderna. “Io non l’ho ordinato”, replica a muso duro il premier, “se ne vada”. In aula si ride di gusto.

La cerimonia d’insediamento di Gronchi è quanto di più pomposo si possa immaginare: nulla a che vedere con la frugalità dei due predecessori. La bionda e maestosa first lady, donna Carla Bissatini, sua seconda moglie, di 25 anni più giovane di lui, troneggia al centro della tribuna d’onore. Quello di Gronchi è un vero “discorso della corona”, tutto politico. Una bomba. Invita la maggioranza a “far entrare nell’edificio dello Stato le masse lavoratrici” (cioè il Pci e il Psi). Tuona contro “la dittatura dei partiti” e “l’oligarchia burocratica” che “minacciano la libertà del Parlamento”.

Gran fautore dell’invadenza dello Stato nel-l’economia, come il suo amico Enrico Mattei (presidente dell’Eni e foraggiatore occulto dell’ala antiamericana e filosocialista della Dc), Gronchi invita a “contrastare il dominio delle multinazionali in Italia”, ad “attuare una vera politica di programmazione democratica ed eliminare i dislivelli sociali persistenti nel Paese”. Mezz’ora di messaggi tutt’altro che cifrati ad amici e nemici, come a dire: adesso comando io. Ventinove interruzioni di applausi scroscianti dai banchi delle sinistre, che alla fine intonano l’Inno di Mameli. Saragat, furibondo, sbotta: “Abbiamo finalmente anche noi il nostro Peròn italiano. Il Peròn di Pontedera…”. Si rivelerà buon profeta.

Tanto aperto con le critiche era stato Einaudi, tanto è intollerante Gronchi. Ne fanno le spese Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, che una sera, nel programma Rai Un due tre, accennano a una parodia di un incidente occorso al presidente qualche giorno prima nel palco d’onore della Scala di Milano, e rigorosamente censurato dai principali giornali e dai tg: presenziando a un concerto accanto al generale Charles de Gaulle, a causa di un commesso distratto che non gli ha avvicinato la poltrona alle terga, Gronchi è precipitato a terra fra i risolini degli spettatori nei palchi circostanti. Tognazzi e Vianello mimano la caduta, senza far nomi né dire una parola. Ma tanto basta a scatenare le ire del Quirinale e indurre la Rai a chiudere il programma.

“Con Gronchi – scrive il giornalista Enrico Mattei, solo omonimo del boss dell’Eni – il Quirinale diventa Palazzo”. Un palazzo di intrighi, complotti e malversazioni. Uno dei suoi “consigliori” più ascoltati è padre Antonio Messineo, gesuita della Civiltà cattolica, vero artefice della congiura del 28-29 aprile. Ottenuto il suo scopo, il gesuita intrigante passa alla cassa e persuade Gronchi a rovesciare il governo Scelba. Così, quando Scelba va al Quirinale per “portarti il mio saluto augurale e le mie dimissioni formali”, il presidente lo gela: “Perché formali?”. “Perché il mio governo gode ancora della fiducia delle Camere”, è la risposta.

Scelba capisce che è un preavviso di sfratto. Un mese dopo Gronchi chiede le dimissioni del governo con la scusa che il Pri ha ritirato l’appoggio esterno. Scelba rifiuta: “I repubblicani non sono determinanti, abbiamo ancora la maggioranza”. Ma la segreteria Dc, per evitare lo scontro, manda il capo dei deputati Aldo Moro a invitarlo alla resa. Gronchi, per sommo sfregio, dà l’incarico a due “destri” come Giuseppe Pella e Adone Zoli. Poi, dopo le elezioni del 1958, tocca a Fanfani. Il suo governo Dc-Psdi promette bene, ma viene regolarmente impallinato da una pattuglia di franchi tiratori pilotati dal presidente. Il quale smania di rispedire il Paese alle urne, per poi patrocinare il tanto sospirato centrosinistra col Psi di Pietro Nenni. Fanfani cade, scaricato da alcuni socialdemocratici passati al Psi per ordine di Gronchi. Ma stavolta la Dc tiene duro e designa Segni, della destra del partito. Il presidente, pur di non capitolare, tenta addirittura di rinviare Fanfani alle Camere. Ma l’Amintore si rende irreperibile e alle chiamate del Quirinale fa rispondere la moglie, Bianca Rosa: “Mio marito non c’è e comunque non intende parlare col presidente”.

Tangentopoli ante litteram

Nel 1960 un altro memorabile pasticcio: la nomina a premier del suo fedelissimo Fernando Tambroni, della sinistra Dc, per un “governo del presidente” che apra a sinistra. Risultato: Tambroni ottiene la fiducia solo con l’appoggio del Msi, scatenando scontri di piazza da Genova a Licata a Reggio Emilia (qui la polizia spara sui manifestanti e ne ammazza cinque). Ed è costretto a dimettersi, richiamando in servizio Fanfani. Fine degli intrighi presidenziali, almeno in politica interna. Perché ogni viaggio di Gronchi all’estero si trasforma in incidente diplomatico: una volta caldeggia con gli Usa la riunificazione delle Germanie in un unico Stato neutrale, senza nemmeno avvertire il governo. Un’altra si reca, primo capo di governo occidentale, in visita a Mosca, ospite della dacia di Krusciov; ma le sue critiche al Cremlino provocano imbarazzi nel governo.

Le sue amanti, a Roma e a Pontedera, le conosce anche il popolino. I suoi scandali – manovre finanziarie poco chiare, rapporti occulti con l’Eni, uso disinvolto del denaro pubblico – sono sulla bocca di tutti, e su molti giornali. Indro Montanelli, sul Corriere della Sera, smaschera i più indecenti in una serie di memorabili inchieste che fanno tremare il Colle e il ras dell’Eni Mattei, “l’incorruttibile corruttore”. Tipico il caso di un giovane deputato toscano – secondo le malelingue, suo figlio naturale – che rischia la bancarotta: Gronchi mobilita tutti gli amici ricchi e potenti che, però, di fronte alla cifra stratosferica del “buco”, si tirano indietro. Alla fine il consulente costituzionale del Quirinale, Francesco Cosentino, mette le cose a posto intimando a una banca del Sud di accettare una cambiale del giovanotto che alla regolare scadenza veniva continuamente rinnovata. È il 1960. Nasce ufficialmente, all’ombra del Quirinale, Tangentopoli.