giovedì 15 settembre 2016

Serie Tv









Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio
: così suona la battuta fondamentale di un film che a distanza di anni non ha ancora esaurito la sua carica eversiva ed euristica, e si dà il caso funzioni da metafora perfetta di quanto accade nell’attesa seconda stagione di Narcos. Perché lo show di Netflix che ci ha mostrato l’ascesa di Pablo Escobar – il narcotrafficante più famoso del mondo – stavolta, come era inevitabile, ci porta per mano attraverso le indigeribili fasi della sua decadenza. È nel momento della caduta che ci siamo separati da Escobar l’anno scorso, al termine della prima stagione della serie tv. Il re della cocaina era riuscito a fuggire dall’assalto alla sua stessa fortezza, La Catedral (una gabbia dorata concepita per assomigliare molto più a un palazzo reale che a un carcere) ma lo ritroviamo perduto in un bosco con un maglione ridicolo e un piccolo manipolo di uomini al seguito.
Per la prima volta, e non senza un briciolo di controversa tristezza, ci troviamo costretti a osservare che le parole plata o plomo simbolo della potenza escobariana sono scivolate da un arsenale linguistico che, via via, finirà per svuotarsi di minacce e riempirsi di compromessi.
In Narcos 2, infatti, lo show Netflix fa il salto: non è più il personaggio Escobar al centro della scena e dell’azione, è la persona Escobar al cui accartocciamento lento e inesorabile saremo disposti a osservare per dieci ore mentre, va detto, gustiamo una delle performance più memorabili degli ultimi anni.

 Tanto alla bravura di Wagner Moura nei panni del signore della droga quanto agli scrittori della serie, infatti va dato un grande credito: Escobar è uscito da tempo dalle pagine dei libri per diventare una leggenda, una figura vicina alla mitologia la cui vicenda ha fatto da canovaccio per innumerevoli narrative; ma se è vero che è impossibile decifrare quanto il mito sia stato influente nella costruzione di una varietà di ritratti di finzione più e meno affini da Michael Corleone fino a Tony Montana, è anche vero che Narcos 2 (assai più di Narcos 1) sembra ricordare allo spettatore che questo non è l’esemplare. È l’esempio. È la forma nella quale infinite altre forme si sono insinuate.
(Per fare un paragone concreto: se state pensando alla parabola simile dell’amatissimo Walter White, sappiate che guardando la nuova stagione della serie vi verrà in mente innumerevoli volte; ma è probabilmente il protagonista di Breaking Bad a essere escobariano, non il contrario, ecco il punto). 
Il senso profondo di Narcos 2 è che Pablo Escobar è realmente esistito. La sua trasformazione restituisce all’umanità una creatura che dall’umanità sembrava essersi slegata per sempre. Come dire che è stato semplice vedere Pablo volare, molto più complesso è vederlo capitolare da un’altezza cui la maggior parte di noi fa fatica persino a pensare. Per renderci partecipi della portata dell’avvenimento, lo show si serve di una scissione in qualche modo innaturale: nel corso degli episodi scopriamo, infatti, che il mostro assassino è un marito, un padre e un figlio eccezionale, un pater familias la cui integrità può essere solo frutto di una specie di schizofrenia, o quanto meno di una mente dotata di compartimenti stagni perfetti, privi di perdite; ma è proprio grazie a questa tensione voluta, grazie a questo artificio paradossalmente e più che mai autentico, che non riusciamo mai a condannare Escobar fino in fondo.
Di apologia del male si è parlato tanto, anche a sproposito. Narcos 2, però, si muove in direzione opposta: di puntata in puntata, l’intonaco del buon male si stacca e si sgretola fino a che non resta, più o meno letteralmente, una casa nuda di mattoni che non ha niente, davvero niente di affascinante. E si finisce per provare solo pena per la dissoluzione – torniamo all’inizio – di una persona che ha cessato del tutto di essere un personaggio. Una persona al cui atterraggio terribile assistiamo attorcigliandoci le dita come davanti a un incidente da cui non si riescono a staccare gli occhi. Ben coscienti del potere positivo, umanizzante, e trasformativo della caduta dell’antieroe.




Marina Pierri

Poesie










Tu forte notte



Tu forte notte. Non giunge al tuo volto
vampa di labbra o di nuvole l’ombra.
Nei bui gironi del sonno t’ascolto
e risplendi come aurora che sorga.
Sei la notte. Giacendo nel tuo letto
seppi la sorte e il male futuro.
Scansato dal volgo, la fama a lato
e la musica come vetro schiacciato.
Forti i nemici e angusta la terra
e tu, o amata, fedele a lei rimani.
Ramoscello di sambuco sull’acqua,
spinto dal vento da ignoti pantani.
Saggezza immensa, bontà non di donna
nelle tue fragili mani, o Mortale.
In fronte il chiarore del sapere:
plenilunio nascosto, non sbocciato.

Vilna, 1934




CZESLAW MILOSZ

Cinema









Nell'Olanda della seconda metà del XVII secolo, la giovane Griet (Scarlett Johansson) si trova a prestare servizio nella casa del maestro Johannes Vermeer (Colin Firth). Le loro differenze culturali e sociali non impediscono che il pittore scopra nella ragazza una particolare predisposizione all'arte: di lei farà la sua musa ispiratrice nonché modella per un ritratto che rimarrà icona della pittura fiamminga. Sguardi complici e silenzi carichi di emozioni riempiono le atmosfere barocche di cui il film del britannico Peter Webber è abile testimone.

Canzoni


Pensieri


Serie Tv







Noah Solloway e Alison Lockhart instaurano una relazione extraconiugale dopo essersi incontrati nella località turistica di Montauk a Long Island. Noah è un insegnante di New York che ha pubblicato un romanzo, e sta cercando di scrivere un secondo libro. È felicemente sposato con quattro figli, ma risente del carisma del ricco suocero, scrittore di successo. Alison è una giovane cameriera nativa di Montauk che sta cercando di tenere in piedi la sua vita e il suo matrimonio dopo la tragica morte del figlio. I risvolti e le conseguenze psicologiche della storia tra Noah e Alison vengono raccontati da due punti di vista differenti, quello maschile e quello femminile, durante un interrogatorio per scoprire l'autore di un omicidio avvenuto proprio negli anni del loro amore.

Cinema







Paul Shepherdson, un agente CIA in pensione, viene richiamato in servizio in seguito all'uccisione di un senatore che aveva rapporti con la Russia. Le modalità dell'omicidio fanno pensare al ritorno sulla scena di un killer sovietico da tempo inattivo il cui nome in codice era Cassio. 'Era' perché Shepherdson, che gli aveva dato la caccia per anni, a un certo punto aveva comunicato di averlo ucciso. Chi non è convinto che Cassio sia morto è il giovane agente FBI Ben Geary che ha dedicato i suoi studi proprio alla figura dell'assassino. Per quanto riluttante Shepherdson gli si deve affiancare in una nuova ricerca di cui è certo di conoscere l'esito.
Il problema di The Double è che allo spettatore viene comunicato l'esito di cui sopra (cioè l'identità di Cassio) trenta minuti dopo l'inizio del film. Una scelta del genere se la poteva permettere Alfred Hitchcock non certo Michael Brandt, qui al suo esordio come regista. Brandt, che scrive la sceneggiatura in coppia con Derek Haas, ha steso, sempre con Haas nel recente passato, le apprezzabili sceneggiature di Quel treno per Yuma, Fast & Furious e Wanted - Scegli il tuo destino.
Questa volta però il gioco non riesce. Perché da quel momento la storia si trasforma in un susseguirsi di colpi di scena per tenere desta un'attenzione che risulta priva di sostegno. Anche perché se Gere ha l'understatement (che ormai gli conosciamo da tempo quasi immemorabile) che è utile al personaggio, Topher Grace non possiede sufficiente appeal per tenergli testa e quindi anche il gioco di coppia si squilibra. Le spy story post guerra fredda come questa debbono essere sufficientemente intricate per stimolare chi guarda a cercare di decodificarne l'intreccio ma debbono anche autogiustificarsi. Qui tutto viene semplificato ritenendo forse che sia sufficiente alzare il volume della colonna sonora musicale per ottenere l'effetto desiderato.
Oltre all'interessante prima mezzora c'è anche un elemento che trasforma il film in una specie di sensore. Hollywood torna a guardare all'Est come a un non solo potenziale pericolo. Richard Gere, che già nel 1997 con L'angolo rosso - Colpevole fino a prova contraria aveva segnalato la non democraticità della nuova Cina, risponde ancora una volta all'appello.



Giancarlo Zappoli

domenica 11 settembre 2016

Pensieri








Volenti o nolenti l’abbandono ci introduce, dal primo momento in cui lo subiamo, in una terra desolata che non conoscevamo, ci fa ascoltare un timbro inedito della disperazione e della fatica dell’esistere e del desiderare.





(Emanuele Trevi)

Fotografia









Trombe marine a Scilla
fotografia di Emilio Francesco Giunta

Serie Tv










A Las Vegas, Alex Kane, ex militare divenuto esperto di sicurezza, viene reclutato da una segreta organizzazione per diventare il suo player, il "giocatore". L'organizzazione, composta da persone facoltose, è dedita a un particolare gioco d'azzardo: scommettere se il giocatore sia in grado o meno di fermare i gravi crimini che la "casa" determina di volta in volta come eventi che abbiano un'alta probabilità di verificarsi.

Cinema









James Cleveland "Jesse" Owens parte per l'università, lasciando una figlia piccola, una ragazza ancora da sposare e una famiglia d'origine in precarie condizioni economiche. Sembra già una conquista, ma qualche mese dopo, grazie al coach dell'Ohio University, Larry Snyder, Jesse ottiene la convocazione per le Olimpiadi di Berlino. È il 1936 e la politica di epurazione razziale di Hitler divide il Comitato Olimpico Americano: partecipare o boicottare? La comunità afroamericana si pone lo stesso problema. Jesse sa una cosa: se andrà, non potrà permettersi di non vincere.
Il regista Stephen Hopkins non è nuovo alla biografia: quella di Peter Sellers aveva fatto infuriare chi la trovava esageratamente critica tanto quanto chi la giudicava non abbastanza mostruosa. Con Race, titolo dal doppio significato, sembra evitare il rischio in partenza, rinunciando alle sfumature e optando risolutamente per un ritratto eroico di Owens, dall'inizio alla fine, nello sport e nella vita.
D'altronde - sembra dire Hopkins - i conflitti esterni al personaggio sono tali e tanti che lo mantengono comunque e perennemente sotto pressione. E così è: la scelta di raccontare i giochi olimpici più controversi della storia porta con sé una quantità di materiale narrativo ingente, e il regista lo gestisce aspirando ad un modello di racconto classico, che in qualche momento gli riesce bene e in altri meno. La volontà di mantenersi politicamente corretto (per esempio conducendo il film sul binario parallelo del riscatto del coach bianco insieme al campione nero) riduce, però, il tasso di tensione, così come l'impressione che il battere ogni record non costi a Owens fatica alcuna, e l'immagine del suo reiterato primato, nello stadio bianco che doveva magnificare agli occhi del mondo il Terzo Reich, resta la sola a tentare di ristabilire un equilibrio.
La regia, più che altro, vive di rendita della forza della Storia, limitandosi a non fare danni quando si tratta di mettere in campo le interpretazioni di Goebbels e di Leni Reifensthal, qui sdoganata come artista super partes, ben voluta e finanziata dal Fuhrer ma interessata ad un altro fine assoluto, la riuscita del suo film. Del suo uso potenzialmente strumentale dell'atleta di Cleveland, così come della censura che gli Stati Uniti del Sud operarono sulla notizia dei miracoli berlinesi di Jesse Owens, il film non fa menzione. Race corre alla meta ma, dal punto di vista filmico, è una vittoria poco sudata: senza le sfumature, la foto-ricordo è piatta.



Marianna Cappi

Canzoni


Pensieri


Libri









A cinquant’anni di distanza rivive il mito dei Beatles a Genova.
Era il 1965. Nel corso della loro unica tournée italiana che toccò anche Milano e Roma, i leggendari Beatles tennero due memorabili concerti al Palasport di Genova, nello stesso giorno, sabato 26 giugno. Fu Paul McCartney a convincere il loro produttore a scegliere il capoluogo ligure “molto più simile a Liverpool di altre città italiane”. Più di 5000 spettatori al pomeriggio e oltre 15 mila la sera giunsero alla Fiera del mare per assistere allo storico evento. Il gruppo, destinato a diventare un fenomeno, non solo musicale, di dimensioni mondiali, era già famoso in Italia dove si era affermato con la vendita dei 45 giri, soprattutto con successi come Twist and Shout, She's A Woman e Baby's In Black. L’esibizione dei Beatles durò 35 minuti ma bastarono per lasciare un ricordo indelebile della loro prima e unica tournée italiana.

Cinema









Nick segue il fratello nel sogno di vivere in Colombia, sulla spiaggia, in un vero e proprio paradiso terrestre. Lì conosce Maria, di cui s'innamora perdutamente. Ci sono però alcuni problemi con due fratelli del posto, che non amano l'idea che dei canadesi vivano nel loro bosco. Nick ne parla una sera con l'amatissimo zio di Maria, un uomo dal carisma insuperabile, che riesce nella magia di occuparsi generosamente del suo paese come della sua famiglia. Il giorno dopo, i focali fratelli piantagrane vengono trovati appesi a testa in giù, carbonizzati. Perché lo zio di Maria è Pablo Escobar, e nessuno sfugge a Pablo Escobar. Per Nick, il sogno d'amore e libertà cede progressivamente il posto al peggiore degli incubi.
È sempre bello assistere alla nascita di qualcosa. Con Escobar: Paradise lost nasce un regista. Andre Di Stefano, attore italiano dalla carriera internazionale, dimostra con il primo film di possedere tutte le qualità del buon regista, compresa l'ambizione, quando è ben riposta come in questo caso. Si confronta con una materia complessa, potentemente schizofrenica, e con un altro regista, uno dei più grandi e dei più folli. Escobar, dio della povera gente e demonio incarnato, si curava moltissimo dell'immagine di sé che voleva restituire, sapeva confondere, illudere, e non sono poche le sequenze in cui Di Stefano lo mette dietro un obiettivo fotografico, a dirigere un matrimonio o una folla ("porta via Maria da qui" arriverà ad ordinare ad un certo punto a un suo scagnozzo, in un attimo di delirio, in un campo di calcio gremito di gente accalcata).
Benicio Del Toro, già Che Guevara, indossa un'altra icona latinoamericana, di segno diametralmente opposto. La forza della sua interpretazione è la stessa del suo personaggio e ha a che vedere con le sfumature profonde e insondabili dell'autoinganno. Quell'uomo che parlava con Dio prima di ordinare i più atroci massacri, che cantava struggenti canzoni d'amore alla moglie, leggeva le fiabe ai figli, ma non si fidava nemmeno dei collaboratori più stretti, s'ingannava lui stesso rispetto alle proprie azioni ("tutto quello che facciamo lo facciamo per la nostra famiglia") o covava un'anima più nera del nero? Senza che in alcun modo questo dubbio passi mai per una sfumatura di giustificazione, Del Toro ne fa la pasta della propria performance, ipnotizzante. Non regge il confronto, specie nei primi piani, Josh Hutcherson nei panni di Nick, ma tutto sommato non è un difetto che offende, tale è l'abisso tra i due personaggi prima ancora che tra gli attori.
La tragedia, che si fa strada per spire avvolgenti, sempre più soffocanti, ha i connotati concitati del thriller ma anche la vena ancestrale del rapporto di complicità e tradimento tra padre e figlio, perché Nick non è certo senza colpa, e la sua scusa, è la stessa del mostro: l'amore, la famiglia.




Marianna Cappi 

Serie Tv










A palazzo Esperanza, la giovane Estelle scopre che suo nonno è ancora sulle tracce di una profezia di cui le raccontava quando era piccola. Tale profezia, opera del papa Giovanni XXII, svelerebbe il futuro del mondo fino all'anno 4400. Estelle, ormai adulta, non crede più all'esistenza della profezia, la cui scoperta dovrebbe avvenire, secondo la leggenda, ad opera di un membro della famiglia Esperanza nell'arco di un ciclo lunare, caratterizzato dalla manifestazione di alcuni segni. Ma un primo segno sembra manifestarsi quando, durante degli scavi archeologici ad Avignone, viene ritrovato un rosone luminoso nascosto da un muro. Estelle viene allontanata dal sito archeologico ma vi fa ritorno di notte, assieme a suo nonno e a David, un dipendente che disponendo dell'accesso li aiuta a entrare. Estelle e il nonno trovano il tesoro nascosto di papa Giovanni XXII con gli indizi per scoprire la profezia, ma il vecchio archeologo ha un malore per l'emozione. Viene portato in ospedale e, dopo essersi svegliato da un sonno profondo, subisce l'aggressione di un uomo proprio nel momento in cui Estelle, rimasta a vegliarlo durante la notte, si era allontanata. La ragazza, sentendo le urla, corre dal nonno, che fa appena in tempo a metterla in guardia da un'associazione segreta chiamata Fratelli di Giuda, e a confessarle che è lei la prescelta per scoprire la profezia e combattere la setta segreta. Altra vittima dei Fratelli di Giuda è un'amica di Estelle, uccisa perché scambiata per lei.

giovedì 1 settembre 2016

Canzoni


Pensieri


Serie Tv










Elliot Alderson è un giovane programmatore che di giorno lavora come ingegnere informato per la Allsafe Security e di notte vigila la rete come hacker. Affetto da un disturbo antisociale di personalità che gli impedisce di condurre una vita normale, Elliot si ritrova a un bivio quando il misterioso leader della Fsociety, un gruppo clandestino di hacker, lo recluta chiedendogli di distruggere dall'interno l'azienda che ha garantito di tutelare. Anche se trattenuto dalle sue convinzioni, Elliot fatica a resistere all'occasione di far crollare gli amministratori delegati delle multinazionali che crede stiano controllando (e rovinando) il mondo.

Cinema









All We are saying is Give Peace a Chance". Il mantra di John Lennon è stato uno degli inni rivoluzionari pacifisti con la più alta capacità di penetrazione nel mondo anglosassone e non. Il più 'politico' dei Beatles (che avrebbe scritto e musicato quell'evergreen che è Imagine) era all'epoca già entrato nella "fase Yoko Ono" che avrebbe poi portato alla dissoluzione del gruppo scatenando le ire dei fan e dando il via alle accuse nei confronti della compagna orientale del musicista. 
Questo documentario, che vede l'attiva collaborazione della vedova e che pertanto non può metterla in cattiva luce, ha comunque il pregio di mostrare, attraverso molti documenti inediti e interviste a chi all'epoca era entrato in contatto con il musicista, un'altra faccia della medaglia. È quella di una pop star all'apice del successo che, grazie forse anche a un'infanzia e adolescenza travagliate, sente il bisogno di fare qualcosa per un mondo che sia più in pace con se stesso. Sono gli anni della guerra nel Vietnam e Lennon è pronto a manifestare il suo dissenso in tutte le forme possibili. A partire dal "bed in" ad Amsterdam in favore della pace con la stampa ammessa periodicamente attorno al talamo nuziale fino all'attivo sostegno delle campagne anti Nixon negli States. Ed è qui che ebbe inizio il tentativo da parte dell'FBI di Edgar Hoover (che riferiva direttamente alla Casa Bianca) di espellere l'artista dal territorio americano. Perché giustappunto l'artista stava diventando sempre più 'politico' e riusciva, con il concerto di una sola serata, a far rivedere una sentenza che condannava pesantemente per l'uso di marijuana un'attivista pacifista. Questo Lennon era stato presentato all'epoca in Europa più come uno stravagante performer che come un impegnato militante. Le testimonianze di Walter Cronkite, di Angela Davis, di Ron Kovic (ricordate Nato il 4 luglio?), di George McGovern e di numerosi altri illuminano ora questo aspetto sinora mai abbastanza messo in luce della sua personalità. I Beatles all'epoca apparivano come il gruppo 'perbene' da contrapporre ai dissacranti Rolling Stones. Ma chi può ricordare un altrettanto partecipe attivismo politico da parte di Mick Jagger? Documentari come questo, che provvedono a far rivedere criticamente certi giudizi aprioristici, sono i benvenuti.



Giancarlo Zappoli