Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio
: così suona la battuta fondamentale di un film che a distanza di anni non ha ancora esaurito la sua carica eversiva ed euristica, e si dà il caso funzioni da metafora perfetta di quanto accade nell’attesa seconda stagione di Narcos. Perché lo show di Netflix che ci ha mostrato l’ascesa di Pablo Escobar – il narcotrafficante più famoso del mondo – stavolta, come era inevitabile, ci porta per mano attraverso le indigeribili fasi della sua decadenza. È nel momento della caduta che ci siamo separati da Escobar l’anno scorso, al termine della prima stagione della serie tv. Il re della cocaina era riuscito a fuggire dall’assalto alla sua stessa fortezza, La Catedral (una gabbia dorata concepita per assomigliare molto più a un palazzo reale che a un carcere) ma lo ritroviamo perduto in un bosco con un maglione ridicolo e un piccolo manipolo di uomini al seguito.
Per la prima volta, e non senza un briciolo di controversa tristezza, ci troviamo costretti a osservare che le parole plata o plomo simbolo della potenza escobariana sono scivolate da un arsenale linguistico che, via via, finirà per svuotarsi di minacce e riempirsi di compromessi.
In Narcos 2, infatti, lo show Netflix fa il salto: non è più il personaggio Escobar al centro della scena e dell’azione, è la persona Escobar al cui accartocciamento lento e inesorabile saremo disposti a osservare per dieci ore mentre, va detto, gustiamo una delle performance più memorabili degli ultimi anni.
(Per fare un paragone concreto: se state pensando alla parabola simile dell’amatissimo Walter White, sappiate che guardando la nuova stagione della serie vi verrà in mente innumerevoli volte; ma è probabilmente il protagonista di Breaking Bad a essere escobariano, non il contrario, ecco il punto).
Il senso profondo di Narcos 2 è che Pablo Escobar è realmente esistito. La sua trasformazione restituisce all’umanità una creatura che dall’umanità sembrava essersi slegata per sempre. Come dire che è stato semplice vedere Pablo volare, molto più complesso è vederlo capitolare da un’altezza cui la maggior parte di noi fa fatica persino a pensare. Per renderci partecipi della portata dell’avvenimento, lo show si serve di una scissione in qualche modo innaturale: nel corso degli episodi scopriamo, infatti, che il mostro assassino è un marito, un padre e un figlio eccezionale, un pater familias la cui integrità può essere solo frutto di una specie di schizofrenia, o quanto meno di una mente dotata di compartimenti stagni perfetti, privi di perdite; ma è proprio grazie a questa tensione voluta, grazie a questo artificio paradossalmente e più che mai autentico, che non riusciamo mai a condannare Escobar fino in fondo.
Di apologia del male si è parlato tanto, anche a sproposito. Narcos 2, però, si muove in direzione opposta: di puntata in puntata, l’intonaco del buon male si stacca e si sgretola fino a che non resta, più o meno letteralmente, una casa nuda di mattoni che non ha niente, davvero niente di affascinante. E si finisce per provare solo pena per la dissoluzione – torniamo all’inizio – di una persona che ha cessato del tutto di essere un personaggio. Una persona al cui atterraggio terribile assistiamo attorcigliandoci le dita come davanti a un incidente da cui non si riescono a staccare gli occhi. Ben coscienti del potere positivo, umanizzante, e trasformativo della caduta dell’antieroe.
Marina Pierri
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