domenica 29 luglio 2012

Cinema






Per la strade di Los Angeles, gli amanti di motori e velocità competono in gare clandestine, sfrecciando su automobili dalle carene fiammanti e dai carburanti pompati a protossido di azoto. Incaricato di indagare su un clan di rapinatori che trafugano camion in corsa, il giovane agente Brian O’Conner si addentra sotto copertura nel mondo delle corse illegali entrando in contatto con il nerboruto Dominic Toretto, un esperto meccanico ed eccezionale pilota. Dopo aver perso una corsa contro di lui, Brian riesce a metterlo in salvo dalla polizia e da quel momento si aprono per lui le porte del garage e della famiglia di Toretto, dove non proprio tutti sono bendisposti ad accoglierlo.
Point Break, dieci anni dopo. I giovani californiani ribelli danno espressione alla loro volontà di potenza non più sulle tavole da surf e tramite rapine a mano armata, ma a bordo di macchine da corsa truccate con cui disputano gare illegali e compiono saccheggi lanciati a tutta velocità. Per il resto, poco è cambiato, o meglio tutto. La storia del giovane poliziotto infiltrato che subisce il fascino del carismatico fuorilegge libertario, mostra come anche quando la partitura resta la stessa possa cambiare la musica. Sullo stesso scheletro narrativo di Point Break, Fast & Furious mostra nuova pelle e nuovi muscoli, molto più abbronzati e anabolizzati per assecondare le tendenze estetiche e i bioritmi adrenalinici dell'action negli anni Duemila. Rispetto al film della Bigelow, l’involuzione è evidente: svanisce completamente l'istinto di vita audace e temerario del personaggio di Patrick Swayze, così come la profondità del rapporto di fascinazione che lo lega a Keanu Reeves, a tutto vantaggio delle pulsioni ormonali, del desiderio primario di frenesia e concitazione delle sequenze d'azione. Al suo film-modello, Fast & Furious riserva lo stesso trattamento di restauro e modernizzazione che applica alle auto esibite: esemplari di macchine sportive più o meno recenti sottoposti al fulgore delle vernici metallizzate che tutto riflettono e alimentate da esplosioni di Nos che coprono ogni altro suono possibile. All'interno di questo regime del riciclo, quel che va perduto in attrazione superomistica dei surfisti-filosofi, viene compensato da qualche nozione di meccanica, un gergo di strada e continui movimenti di macchina che scivolano agili fra automobili in corsa e pugni sferrati. Così, più veloce che furioso, ed emanando più odore di gas che di gomma bruciata, il film scorre rapido e spedito senza prendere né rischi né curve troppo strette, come pilotato da un abile stuntman quale dimostra di essere il regista Rob Cohen, esperto in B-movie di riciclaggio estremo (Dragonheart; Daylight).
Con Fast & Furious ha la prontezza di cogliere un momento in cui la personalizzazione di motori e carenature diviene una pratica di esibizione di forza, al pari di muscoli e tatuaggi, e di saperne valorizzare l’aspetto spettacolare, adrenalinico, fracassone. Ci sono dentro tutti gli elementi di una cultura hip hop, che per quanto esteticamente rozza ed eticamente discutibile, possiede un suo ritmo e un certo spirito gaudente. 

Poesie







Io sono verticale

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
cosi' da poter brillare di foglie a ogni marzo,
ne' sono la belta' di un'aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovro' perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero e' immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma piu' clamorosa:
dell'uno la lunga vita, dell'altra mi manca l'audacia.

Stasera, all'infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu' perfetto -
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata e' per me piu' naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e saro' utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.




Sylvia Plath

Cinema






All'età di sette anni, Peter Parker viene affidato alle cure di zia May e zio Ben dai genitori che non rivedrà mai più. Un decennio dopo, è un liceale solitario con una cotta per la compagna di classe Gwen Stacy, figlia del capitano della polizia. La scoperta, in soffitta, di una valigetta di suo padre contenente dei documenti secretati porta Peter a fare la conoscenza del dottor Curt Connors, vecchio amico di famiglia e collega del padre presso la Oscorp. È nel suo laboratorio, dove si studia la possibilità di innesti tra cellule umane e animali, che Peter viene morso da un ragno e si ritrova dotato di nuovi e straordinari poteri. 
A Marc Webb l'arduo compito del reboot di un prodotto cinematografico del quale eravamo già pienamente soddisfatti, grazie alla recente trilogia di Raimi: inutile mettersi a farne un calco, difficile evitare le sovrapposizioni, dato il comune testo di partenza. Che fare? Forse la risposta va cercata nel poster di Einstein che campeggia in casa di Peter Parker e reca la famosa frase secondo la quale “l'immaginazione è più importante della conoscenza”. Poco importa, sembra dire Webb, se la storia è nota, si può ancora reinventare ogni cosa. Verso la fine il film tornerà su questo concetto, durante una lezione scolastica, quando si premurerà di ricordare che c'è chi sostiene che al mondo esistano solo dieci storie ma forse ce n'è addirittura una soltanto, che coincide con la domanda identitaria: chi sono io. Webb e sceneggiatori immaginano dunque un Peter diverso, non più un emarginato ma un ribelle, quasi uno snob in erba, che non viene morso per caso ma va di sua iniziativa là dove l'impossibile può accadere, quasi sperandolo, e non teme la propria trasformazione ma ne è immediatamente soddisfatto e consapevole. Non sono sfumature: proprio perché ridefiniscono l'identità del protagonista di fatto ridisegnano completamente il quadro. 
Al romanticismo, all'aspetto ludico e all'immaginario cartaceo dei film di Raimi (nel senso della carta dei fumetti ma anche di quella fotografica e di giornale) si sostituisce una visione attualizzata, meno tormentata ma più realistica, il cui immaginario di riferimento è esclusivamente cinematografico e nemmeno rétro. Sfortunatamente, le idee visive scarseggiano, se si eccettua il passaggio forse volontariamente ridicolo dalle squame del branzino alla pelle di Lizard, il gigante distruttore, o la scena dell'infilata di gru, che vorrebbe dare un senso al 3D, ma occorre accantonare ogni confronto col pregresso o non si uscirà dalla spirale ingannevole della falsariga (e qualcosa c'è, di obbligato, come il “non è una scelta, è una responsabilità” a rimpiazzo di “grandi poteri, grandi responsabilità”).
Amazing è una parola grossa, che non calza bene al film in questione, ma Spider-Man ha avuto tante vite e il suo giro dentro il costume rosso e blu, in fondo, se lo è meritato anche Andrew Garfield.

Canzoni

venerdì 27 luglio 2012

Canzoni

Poesie






Che allegria, vivere
e sentirsi vissuto.
Arrendersi
alla grande certezza, oscuramente,
che un altro essere, fuori di me, molto lontano
mi sta vivendo.
Che quando gli specchi, le spie,
mercurio, anime brevi, confermano
che sono qui, io, immobile,
serrati gli occhi e le labbra,
chiuso all'amore
della luce, del fiore e dei nomi,
la verità transvisibile è che cammino
senza i miei passi, con altri,
là lontano, e lì
sto baciando fiori, luci, parlo.
Che esiste un altro essere con cui io guardo il mondo
perchè sta amandomi con i suoi occhi.
Che esiste un'altra voce con cui io dico cose
non sospettate dal mio gran silenzio;
ed è che anche mi ama con la sua voce.
La via - che slancio ora! -, ignoranza
degli atti miei, che lei compie,
in cui lei vive, duplice, sua e mia.
E quando lei mi parlerà
di un cielo scuro, di un paesaggio bianco,
ricorderò
stelle che non ho visto, che lei guardava,
e neve che nevicava nel suo cielo.
Con la strana delizia di ricordare
di aver toccato ciò che non toccai
se non con quelle mani
che non raggiungo con le mie, tanto distanti.
E spogliato di sé potrà il mio corpo
riposare, tranquillo, morto ormai. Morire
nell'alta certezza
che questo viver mio non era solo
il mio vivere: era il nostro. E che mi vive
un altro essere di là della non morte.

Pedro Salinas

Cinema





Alle volte capita cercando a caso,per pura fortuna,di setacciare da un cumulo di sabbia una venuzza d'oro rilucente.E' accaduto a me con questo film,attirato solo dal regista,da me altamente stimato e dal battage pubblicitario su questa pellicola,abbastanza inusuale per un regista schivo e solitario come Weir.Vedendolo ho capito il perchè del passaparola.Come in moltissimi,anzi in quasi tutti i suoi film Weir è affascinato dalla lotta dell'uomo con la natura,basti pensare a Picnic ad hanging rock,a Master & Commander,ma più che dalla lotta con gli elementi,il regista è affascinato dal cosa e dal perchè spinge un essere umano ad andare "al di là"di quello che sarebbe un comportamento razionale.Ed è questo secondo me l'aspetto più affascinante del suo cinema,che a mio modesto avviso combacia spesso con il cinema di un altro folle solitario come Herzog,ma quest'ultimo esalta più l'aspetto "animalesco"dell'essere umano mostrandoci impietosamente da chi discendiamo e che apparteniamo alla stessa realtà,l'artista australiano invece non è tanto interessato a discorsi "evoluzionistici"ma proprio all'interiorità dei suoi personaggi,al loro modo di superare i propri conflitti interiori e riuscire dove altri esseri si erano già arresi.Qui tutto parte da un gruppo di disperati finiti per diverse storie nei terrificanti gulag russi in Siberia.Sanno che se non scappano al più presto la loro sorte è già scritta e quindi decidono di sfidare tutto ma morire da liberi.Approfittano della notte per fuggire dal capo e con l'aiuto di una tremenda tempesta di neve riescono a far perdere le loro tracce agli inseguitori inferociti per quella disobbedienza.Il loro unico piano è raggiungere il lago Baikal e da li arrivare,attraversando il confine,in Cina,dove loro credono di essere al ripario dallo spietato regime staliniano.Attraverseranno difficoltà inenarrabili,alcuni di loro moriranno lungo il cammino e sulla loro strada incrocerann anche quello di una ragazza giovanissima,anche lei scappata alle persecuzioni comuniste.La solidarietà tra queste "anime"e il loro obiettivo comune li porteranno ad attraversare 4000 km a piedi in una impresa che sembra impossibile ma che pare sia stata effettivamente compiuta da uno dei partecipanti.Arriveranno a superare il confine cinese,entrare in Tibet e attraverso l'Himalaya raggiungere l'India.I paesaggi immortalati dalla stupenda fotografia rendono ferocemente l'idea della piccolezza dell'Uomo rispetto alla Natura,la battaglia mortale per la sopravvivenza è una mossa continua tra questi due elementi,e quando uno sembra dare Scacco ecco che appare quell'evento che rimette tutto in gioco.Degli otto partiti più la ragazza arriveranno solo in quattro e solo uno riuscirà,attraverso il tempo,a coronare il suo sogno,vale a dire riabbracciare in Polonia la moglie torturata dai russi.Il film ci mostra come la determinazione porti l'essere umano a superare l'insuperabile,freddo,fatica,fame,sete,dolore,malattia,tutto diventa passeggero avendo dentro quell'incrollabile  "energia" che non è la mera sopravvivenza per sè,ma il desiderio incancellabile di ricongiungersi all'amata.Cosi come è stato per Primo Levi il desiderio di riabbracciare i suoi cari e rivedere la sua amata stanza,quella è la luce che nessuna violenza brutale,nessun regime,nessun male,potranno mai spegnere.Straordinaria l'interpretazione di Ed Harris e Jim Sturgess davvero encomiabile nel rappresentare quella "luce".

mercoledì 25 luglio 2012

Canzoni

Accadimenti






Se siamo abituati a chiedere un “caffè” o un “cappuccino”, ricordiamo di aggiornare il file dei sinonimi in caso di gita a Trieste. La prima cosa che notiamo entrando in un bar del capoluogo giuliano, infatti, è l'assenza di queste due parole, a favore di un pullulare di “nero”, “capo” e “capo in b” pronunciate con la peculiare inflessione triestina.
Provate ad ordinare un cappuccino da queste parti, il più delle volte vi chiederanno "tazza grande o tazza piccola?", in ogni caso non vi arriverà quello che vi aspettae ma un caffè macchiato, rispettivamente in tazza grande o piccola, a seconda della richiesta.  

Per evitare sorprese, basta imparare i nomi dei caffè triestini. Se il “nero” è l'equivalente esatto dell'espresso, il “capo” assomiglia più al caffè macchiato che non al tradizionale “cappuccino” di cui contrae evidentemente il nome (da cui l'equivoco dell'ordinazione al bar). Se chiediamo il “capo in b” infine dobbiamo aspettarci un caffè macchiato in bicchiere di vetro. E se volessimo il cappuccino come lo intendono nel resto d'Italia? Pare che si debba dire "cappuccino all'italiana".(Caffèlatte a dire il vero).

Appresi questi fondamentali, sappiamo tutto quello che serve per goderci una delle più sentite consuetudini cittadine: il caffè. Non solo a Trieste sono nati due consolidati marchi italiani come Illy e Hausbrandt, ma il porto cittadino è anche stato messo dalla Borsa di Wall Street fra i cinque massimi punti di riferimento europei per determinare le quotazioni internazionali del caffè. La tradizione commerciale relativa alla materia prima è direttamente legata al sorgere di una delle più celebri tradizioni culturali cittadine: il caffè letterario. Tradizionale crocevia di poeti e intellettuali, i caffè di Trieste sono da sempre anche un punto di ritrovo per fare cultura.

E per gustarsi il tipico caffè triestino non c'è che l'imbarazzo della scelta. Su Piazza dell'Unità, pulsante cuore cittadino con esclusivo affaccio sul mare, ha la sua sede lo storico Caffè degli Specchi. Chiuso lo scorso autunno per problemi finanziari, ha riaperto questa primavera riportando alla città uno dei suoi luoghi simbolo, inaugurato la prima volta nel 1839 e ha avuto fra i suoi ospiti anche Franz Kafka, James Joyce e Italo Svevo, tra gli altri. 

Tradizione dotta anche per il Caffè San Marco di via Battisti, aperto nel 1914: l'anno fu cruciale per l'Impero Austro-ungarico e per il mondo intero e il locale, nato come luogo di ritrovo per lettori di quotidiani, finì per nascondere il lavoro dei falsari che preparavano i passaporti per i patrioti che volevano scappare in Italia. Il tempo sembra essersi fermato negli arredi ma non nel fermento culturale, con intellettuali come Claudio Magris che ancora qui si incontrano. 

Ancora in stile Belle Époque sono gli arredi del Caffè Stella Polare, nell'elegante via Dante, punto di incontro e rifugio di tanti intellettuali compreso il poeta Umberto Saba, che trascorreva volentieri il suo tempo anche al Caffè Tergesteo, in piazza della Borsa, “purtroppo” ristrutturato negli interni ma ancora celebre per le storie della città narrate sui vetri colorati. 

A completare il percorso base di questo percorso letterario triestino c'è il Caffè Tommaseo, che sorge nell'omonima piazza, meta prediletta di Svevo e suo punto di ritrovo con Joyce. Non solo “nero” e letteratura, però: il Tommaseo è famoso anche per essere stato uno dei primi locali in assoluto a servire la rivoluzione del Novecento: il gelato.

Cinema





1980 Danny Brice e il suo referente e modello Hunter sono due killer al massimo livello che operano nell'ambito dello spionaggio. Nel corso di un'azione Danny scopre di aver rischiato di uccidere un bambino e va in crisi ritirandosi dal servizio attivo. Dovrà però tornare ad uccidere quando uno sceicco, che vuole vendicare la morte di tre suoi figli uccisi nel corso del conflitto in Oman, prende in ostaggio Hunter. L'uomo sarà liberato solo se Danny ucciderà i tre killer facendo sembrare che si tratti di morti accidentali e non prima di avere ottenuto da loro una piena confessione in merito agli omicidi. 
Gary McKendry è al suo esordio nel lungometraggio dopo aver diretto diversi spot pubblicitari e un cortometraggio che ha ricevuto la nomination per l'Oscar. Per questa sua opera prima si rifà a un libro scritto da Ranulph Fiennes che si basa su vicende che l'autore (citato anche nel film) dichiara come realmente accadute quando lavorava per l'esercito britannico e per il SAS (Special Air Service). Il libro, edito nel 1991, creò molteplici polemiche in Gran Bretagna. 
In questi casi il riferimento vero o presunto al reale è però secondario così come accadde per Confessioni di una mente pericolosa che attrasse un George Clooney anch'egli all'esordio dietro la macchina da presa proprio per il labile confine che sussisteva tra riferimento a fatti reali e invenzione pura nella biografia di riferimento. McKendry rispetta i canoni classici sin dall'inizio con quel bambino dal volto insanguinato che ricorda da vicino il ragazzino ucciso per sbaglio dal killer interpretato da Colin Farrell in In Bruges.
La presenza di De Niro e i numerosi inseguimenti in auto fanno poi tornare alla mente Ronin di John Frankenheimer. In questa occasione però la star hollywoodiana si ritaglia un ruolo di contorno che emerge nell'ultima parte della narrazione e gli permette di lavorare su quell'understatement che è ancora uno dei suoi punti di forza.
Il film impernia il plot sull'azione da compiere che implica il confronto tra due gruppi specializzati in azioni rischiose e complesse. Jason Statham e Clive Owen sono decisamente funzionali ai rispettivi ruoli con la differenza che al primo viene narrativamente offerto un background psicologico maggiore. Ciò che poi crea attenzione nello spettatore appassionato al genere è il fatto che attorno al settantacinquesimo minuto l'intera missione sembra essersi conclusa ma restano ancora 40 minuti di film. È a questo punto che la sceneggiatura compie lo scatto in più passando a un livello inatteso che implica un mutamento sostanziale della vicenda ampliandone la dinamica.

Psicologia






Al fine di un buon equilibrio psico-affettivo è importante che la persona possa poter esprimere le proprie potenzialità, che porti a compimento il proprio disegno, il proprio progetto di vita. Personalmente sono molto legato ad una frase e spero che essa possa realmente essere un incitamento all' "essere": "Il primo dovere che una persona ha è nei confronti di sé stesso". Ritenendo che  vi sia una tendenza che indirizzi l'uomo su questa direzione, mi chiedo cos'è allora che lo spinge ad alienarsi da se stesso. Cos'è quel processo di individuazione di cui parla Jung?  Molte persone impiegano una vita intera nell'intento di trovare la propria strada e molte altre ancora la evitano, perché? Spesso dietro quest'evitamento si nasconde la paura del farsi carico della propria responsabilità, della propria vita. Nell' istante in cui io agisco, mi prodigo affinché io possa essere, affinché diventi artefice del mio destino, diventi il creatore di me stesso. Ma si sà che ogni tesoro non è accessibile facilmente e che per  raggiungerlo dovrò attraversare strade impervie, dovrò avere il coraggio di intraprendere percorsi nuovi ed ignoti. Avventurarsi su strade imbattute non è cosa facile in quanto non avrò più punti di riferimento, tutto ciò che era il mio bagaglio culturale conoscitivo, ora non ha più senso, e ciò che prima erano i miei punti di riferimento ora non hanno più valore e io posso solo confidare sulle mie forze. Solo colui che riuscirà nell'impresa eroica, alla fine troverà il tesoro.Come disse Marcel Proust: "Due strade incontrai nel bosco ed io scelsi quella meno battuta, ecco perché sono diverso". Questo ci spiega perché nelle narrazioni la figura dell'eroe è sempre accompagnata da un senso di solitudine. Questo aiuta a spiegare anche  perché noi siamo più inclini al rimpianto che al rimorso. Il rimpianto ci permette di illuderci che in realtà non abbiamo potuto scegliere e che se non ci fossimo trovati in questa o in quell'altra situazione avremmo scelto diversamente,  quando poi manca un appiglio reale, allora ci rivolgiamo alla sfortuna. In altre parole potremmo dire che il rimpianto permette con maggiore facilità di ricorrere a quel meccanismo chiamato proiezione. Tale meccanismo di difesa permette di vedere il male al di fuori di noi dandoci l'illusione di una possibile deresponsabilizzazione. Inoltre, nelle relazioni psicoterapeutiche, noto come l'insorgere del senso di colpa  sia spesso uno degli elementi che blocca il processo di individuazione. Sembra appunto che il senso di colpa nasca come freno per l'agito, come vero e proprio ostacolo all'azione. Spesso siamo chiamati a prendere delle decisioni cruciali per la nostra vita e ci accorgiamo che se intraprendessimo quella strada che per noi è ignota, buia, ma che nonostante ciò ha un fortissimo richiamo sulla nostra anima, dovremmo inevitabilmente prendere le distanze da tutto ciò che fino a quel momento erano le nostre credenze. Ciò implica non solo una ristrutturazione del nostro apparato cognitivo, ma ci fa temere anche di poter perdere l'amore delle persone a noi care. Come disse Sabina Spielrein: " La morte come principio del divenire " ed è in realtà solo dopo una vera e propria morte psichica che potremmo rinascere veramente. Il processo di individuazione è come una complessa conquista di strutture dinamiche cui è sempre implicito il rischio di una destrutturazione. La dignità dell'uomo consiste tra l'altro, nell'assunzione di questo rischio. Un aspetto essenziale nel processo di individuazione risulta essere inoltre il concetto Junghiano di Ombra. 
L'Ombra può essere definita in questo caso come l'insieme delle funzioni e degli atteggiamenti non sviluppati della personalità. Dico in questo caso perché quando si parla di Ombra ci si può riferire a tre significati:
1) Ombra come parte della personalità.
2) Ombra come archetipo*.
3) Ombra come immagine archetipica.
n psicanalisi l'archetipo può essere definito come una forma universale del pensiero dotato di contenuto affettivo.
 
Essendo questo però, un tema vasto e complesso, richiede di essere trattato in un apposito articolo, qui cercherò solo di accennarlo. La dottrina Junghiana del simbolo s'impernia sull'attività dialettica che sintetizza gli opposti. Per Jung, la configurazione della psiche si offre alla nostra osservazione come compresenza di aspetti polarmente opposti Io e non Io, conscio e inconscio, positivo e negativo ecc.. ecc.. L'Ombra quindi come parte inferiore della personalità è una parte della totalità della psiche. Si deve tener conto che l'Ombra è negativa in quanto c'è una positività con la quale si confronta. Le profonde antipatie ingiustificate, per esempio, sono quasi sempre il frutto della proiezione della propria Ombra. Il riconoscimento di tale proiezione costituisce la via regia per la ricognizione della propria Ombra. Spesso in terapia si nota come il soggetto rifiutando la propria Ombra si condanna a vivere una vita parziale. Come osserva Jung, l'Ombra abbandonata al negativo  è costretta, per così dire, ad avere una vita autonoma senza alcuna relazione con il resto della personalità. Così facendo ogni autentica maturazione dell'individuo è impedita, dal momento che l'individuazione comincia appunto con la ricognizione e integrazione dell'Ombra. Una pagina di Jung contenuta in un saggio è illuminante a tal proposito.
Un uomo posseduto dalla propria Ombra inciampa costantemente nei suoi errori. Ogniqualvolta è possibile, egli preferirà fare un impressione sfavorevole agli altri. A lungo andare la buona sorte è sempre contro di lui, poiché vive al di sotto del proprio livello e, nel migliore dei casi, raggiunge solo quello  che non gli compete e non gli concerne. Se non c'è alcun ostacolo in cui inciampare, egli se ne costruirà uno apposta e poi crederà fermamente di aver fatto qualcosa di utile.
Nell'Energetica psichica Jung fornisce un immagine della psiche come di una molteplice corrente energetica che intanto può sussistere in quanto esistono i poli o le differenze di potenziale entro cui l'energia stessa si stabilisce. Solo in tal modo l'energia che prima andava dispersa nell'Ombra non riconosciuta o rifiutata diviene disponibile all'Io. L'Ombra è quel che di noi non può essere risolto in valore collettivo, essa si oppone ad a ogni valore universale. Va da sé che la vera individualità, la singolarità irripetibile, i cui profeti moderni sono Kierkegaard e Dostoevskij, risiede nell'Ombra. Nell'istante in cui l'uomo accetta nella propria dinamica psichica l'Ombra egli accetta di individualizzarsi. Dal punto di vista di una morale collettiva, l'integrazione dell'Ombra permette la fondazione di un'etica individuale in cui i valori universali  vengono perseguiti in quanto vengono continuamente rapportati al singolo, o meglio all'elemento individuale della personalità.



Dott. Maurizio Capezzuto

martedì 24 luglio 2012

Libri







Avendo conosciuto l'autore è sempre un po' difficile recensire un libro,tanto più quando questo è stato donato con dedica,ma le cose che scriverò sarebbero esattamente le stesse che direi a voce a questo promettente e giovane autore italiano.Innanzitutto è difficilissimo imbattersi in un autore italiano che scrive un libro di azione pura,molto di più di una spy story,di un thriller,o di un romanzo di fantascienza moderno,perchè noi italiani siamo poco avvezzi alla tecnologia,poco avvezzi a saper descrivere le scene d'azione e soprattutto poco inclini alla descrizione di scenari di guerra a livello mondiale.E questa è solo la prima sorpresa del volume,la storia.La seconda, e forse più importante,è lo stile di scrittura,davvero per uno come me che ha letto migliaia di libri di Follett,Ludlum,Le Carrè,Smith ecc.,dove l'azione e l'avventura diventano un mix intrigante ed esplosivo che attanaglia il lettore fino all'ultima pagina,bene,qui siamo a quei livelli di scrittura,una scrittura fluida,sciolta,che scorre montando come un fiume in piena man mano che la storia decolla e i personaggi gettano la maschera.E' sorprendente la maturità di scrittura di Davide,soprattutto se rapportata al suo primo libro,che era un libro fondamentalmente comico e più un divertissement che un esempio di scrittura applicata alla comicità.Qui invece la scrittura solca le pagine come le due corazzate tedesche,nelle varie scene d'azione sembra di essere li e partecipare,è un libro molto visivo e sarebbe perfetto per un film.L'unico appunto che potrei fare,proprio per essere un pignolo rompiscatole,è in alcuni dialoghi,nella parte iniziale del libro,che ho trovato forse già letti,ma si sa che i dialoghi sono la cosa più difficile di un romanzo perchè devono aiutare il cammino del lettore senza però anticiparlo,devono dare ritmo alla storia e allo stesso tempo decidono le pause e i silenzi necessari alla riflessione,sono un po' le note di uno spartito.Quando il plot prende quota ecco che tutto suona meravigliosamente bene e si arriva alla fine con quel "Forse" che,da lettore che ha apprezzato molto,spero significhi un seguito della storia anche perchè il finale aperto lascia troppi spazi che devono essere coperti per esempio proseguendo con il delineare il famoso "Direttore",che potrebbe configurarsi un po' come il Moriarty di Conan Doyle.E' una figura troppo ben delineata per poterla abbandonare cosi.Mi hai davvero sorpreso positivamente Davide con questo libro,non immaginavo fossi cosi bravo e avessi cosi talento,complimenti davvero!

Cinema





Il 22 ottobre 2009 Stefano Cucchi muore a 31 anni, in circostanze tuttora da accertare, nel Reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma 6 giorni dopo il suo arresto. Negli ultimi sei giorni della sua breve vita gli sono stati negati tutti i diritti. Il documentario è un tentativo di fare della vicenda Cucchi un atto di denuncia ampliando, alla luce dello sviluppo delle indagini e del tempo, una nuova e rivelatrice riflessione umana. La denuncia prende forma nel racconto, attraverso la forma legalista della richiesta di verità e giustizia, dichiarata dalle numerose e diverse testimonianze che nel documentario si susseguono. Soprattutto quelle della famiglia Cucchi. Stefano Cucchi è morto “di carcere”. Nel mese di ottobre 2009, quando i fatti sono avvenuti, nei penitenziari italiani erano già morte 147 persone. Stefano Cucchi è stata la 148ª persona A dicembre diventeranno 177. La maggior parte sono giovani. Un’incidenza impressionante per un paese democratico e civile a cui oggi non pare esserci soluzione.

Canzoni

lunedì 23 luglio 2012

Cinema









Justine arriva con il neomarito alla festa delle nozze che il cognato e la sorella Claire le hanno organizzato con un ritmato protocollo. Justine sorride molto ma dentro di sé prova un disagio profondo che la spingerà ad allontanarsi in più occasioni dai festeggiamenti provocando lo sconcerto di molti, marito compreso. Non si tratta però solo di un malessere esistenziale privato. Una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, benché il mondo scientifico inviti all'ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico. Tempo dopo, con Melancholia sempre più vicino, sarà Claire a invitare a casa sua la sorella.
Dopo il harakiri a tutto schermo di Antichrist Lars Von Trier decide di rinunciare ai colpi bassi nei confronti dello spettatore offrendogli, in versione apocalittica, la sua visione delle sorti dell'umanità su questa Terra. Lo fa con un prologo wagneriano (“Tristano e Isotta”) di alta e simbolica qualità estetica a cui fa seguire una bipartizione che vede protagoniste le due sorelle (prima Justine e poi Claire). Due sorelle, due donne che il ‘misogino' per definizione del cinema europeo prende questa volta, in particolare Justine, come rappresentanti di se stesso. Di Justine condivide la sensazione viscontiana di fine di un mondo che merita di dissolversi e, al contempo, il dissacrante e sofferente distacco da tutte le convenzioni. In Claire vede il bisogno (registico) di ‘mettere ordine', di trovare un senso, di controllare anche l'ineluttabile. Le circonda di una folla vinterberghiana (Festen) ritrovando parte degli stilemi del Dogma, nella prima parte, per poi, progressivamente, lasciarle sole con il figlio bambino della seconda e con la Natura. Una Natura che in Von Trier è sempre ‘avanti' rispetto all'essere umano sia che avverta i segni di una catastrofe sia che ne anticipi la dissoluzione. Sulla complessità di un mondo che vorrebbe poter amare non riuscendoci, il regista danese fa intervenire il suo amore per l'Arte che si è data il compito di ‘leggere' per noi la realtà nel profondo. Nel farlo getta un ponte (più o meno conscio non sappiamo) con un Maestro del Cinema come Andrej Tarkovskij. Come non pensare a Lo specchio dinanzi alla doppia proposizione de “Il ritorno dei cacciatori” di Pieter Brueghel il Vecchio? Ma, soprattutto, come non ricordare Sacrificio, l'ultimo film del regista russo che affrontava una tematica analoga partendo da premesse differenti ma con la stessa volontà di messa in gioco di uno sguardo e una ricerca ‘alti'? Uno sguardo e una ricerca che Von Trier vuole condividere con lo spettatore, convinto com'è che “può darsi che non ci sia nessuna verità per cui provare un ardente desiderio ma che il desiderio di per sé stesso è già vero”.Eccellenti gli interpreti a cominciare dalla coppia Dunst-Gainsbourg.

Comicità







Lo confesso. Ho ceduto alla tentazione di comprare la nuova rivista maschile "For men magazine". 
Del resto, come potevo resistere agli affascinanti argomenti annunciati dalla copertina (che, tra parentesi, ritrae un tizio con una faccia da pirla e un asciugamano di spugna bianca che fa tanto "figo da spogliatoio")? Almeno quattro i titoli memorabili: "Falle dire basta stanotte!" , "Ricco entro Pasqua: 15 idee geniali" , "Trucchi: mangi il doppio diventi la metà" e "Smetti di fumare e voli ai Caraibi" .



Non vorrei deludere il geniale direttore Andrea Biavardi , ma a far dire "BASTA" a una donna siete già tutti bravissimi da soli poichè di solito ne abbiamo abbastanza dopo i primi tre minuti. La vostra difficoltà sta nel farle dire "ANCORA!" , al limite. Ci pensi su, per il prossimo numero.
Riguardo allo slogan "Ricco entro Pasqua", beh, signor Biavardi, se vuole fare le cose fatte bene, nel prossimo numero alleghi anche due simpatici gadgets: passamontagna e chiave inglese.
Alla promessa "Mangi il doppio e diventi la metà", invece, tenderei anche a credere. Bisogna vedere la metà di cosa. Io se mangio il doppio, signor Biavardi, divento l'esatta metà del Partenone, in effetti.
Infine, sempre in copertina, campeggia la scritta "Smetti di fumare e voli ai Caraibi". Guardi signor direttore, io non ho mai conosciuto uno che abbia smesso di fumare e che sia andato in un'isola tropicale a festeggiare. In compenso ho sentito un sacco di gente che ha cominciato a fumare sostanze illecite e s'è fatta certi viaggi senza neanche uscire di casa che lei neanche si immagina.

Ma questo è solo l'inizio. Una si illude che il peggio sia già tutto in copertina e invece no, il meglio è all'interno! A pagina cinquantadue c'è un avvincente e istruttivo servizio con tanto di foto redazionali su "come slacciarle il reggiseno" che tiene conto dei vari modelli (classico, seduttivo, sportivo...). A parte l'intelligenza del servizio in sè, vorrei soffermarmi sul consiglio per slacciare rapidamente il modello sportivo, che è : "se lei è spiritosa dacci un taglio con le forbici!". 
Biavardi, io le garantisco che sono una donna alquanto spiritosa, ma se un uomo che magari conosco da poco, in un momento di intimità mi tira fuori dal taschino un paio di forbici, io come minimo penso che sia il mostro di Milwaukee e nella migliore delle ipotesi gli assesto un calcio nelle palle che il mese dopo il soggetto in questione passa dal suo For men magazine a Donna moderna .

A pagina cinquanta poi, si tocca l'apice grazie ad un servizio che affronta la spinosa questione: "Se l'iguana domestico ci prova con tua moglie" . Nell'articolo si sostiene infatti che ci sono diversi casi di molestie sessuali da parte di iguana nei confronti di donne con il ciclo. Senta signor Biavardi, lei l'ha mai vista una donna col ciclo? Mi segua signor direttore, non parlo di una donna in sella al mororino. Parlo della donna in quei giorni lì. Ecco guardi, io in quei giorni ho la cera del cugino Itt e l'affabilità di Godzilla, non mi si avvicinerebbe a meno di cento metri un velociraptor si figuri un iguana.

E infine, l'apoteosi vera e propria: il test "sei uno stallone o una schiappa?" . Le domande sono tra le cose più esilaranti che io abbia mai letto in vita mia. In pratica sei ritenuto uno stallone se rispondi sì a domande come questa: "Ti è mai capitato di farlo con una donna e poco dopo, con la sua compagna di stanza?" Un sacco di volte! Alla casa di riposo "Domus Mariae". O "Di essere chiamato da una donna che ti chiede se può venire da te alle nove del mattino?" Sì certo, da una rappresentante della Folletto.

Mi fermo qui. Donne, consoliamoci: noi una volta al mese avremo pure le nostre cose, ma loro una volta al mese hanno For men magazine in edicola. Mica lo so chi sta peggio.



Selvaggia Lucarelli

Canzoni

Accadimenti






L’intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

Caro Paolo,

oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e a barattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. 

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

 Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. 

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti.

Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. 

 

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.

 

domenica 22 luglio 2012

Pensieri









L'onore è la coscienza esterna, e la coscienza l'onore interno.



Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, 1851
 

Cinema






Siamo nel 1921, e l'Inghilterra è appena uscita schiacciata dal peso della Prima Guerra Mondiale. Nel Paese prolifera la tendenza all'evocazione degli spiriti dei caduti durante il conflitto, e la scrittrice Florence Cathcart si prodiga per smascherare i numerosi truffatori che tentano di lucrare sul dolore dei famigliari degli scomparsi. A casa della donna si presenta però un certo Robert Mallory, che la convince a visitare un vecchio collegio di campagna dove pare aleggiare il fantasma di un bambino. Dopo pochi giorni di indagini nella tenuta, Florence sembra aver risolto il mistero, proprio nel momento in cui fatti realmente inspiegabili cominciano ad ossessionare lei e tutti i piccoli studenti del collegio. Il confronto e soprattutto l'accettazione dell'esistenza del paranormale a questo punto appaiono inevitabili…
La sempre più bella Rebecca Hall torna in patria per girare la più classica delle ghost-story, diretta dall'esordiente al lungometraggio Nick Murphy. La cosa più importante che deve funzionare in un film di questo genere è l'ambientazione, e 1921- Il Mistero di Rookford dimostra fin dalle primissime inquadrature di aver centrato il bersaglio: un periodo storico come la Gran Bretagna degli anni '20 con i suoi costumi, la sua architettura e i suoi paesaggi sono uno sfondo perfetto per una storia di fantasmi. Il regista infatti sceglie con lucidità di lavorare sugli schemi specifici e collaudati dell'horror vecchio stile, sfruttando i giochi di luce, le camere scure, la luce incerta delle candele, i rumori delle vecchie porte cigolanti: insomma, tutto quel repertorio ancora così efficace ma che il cinema di oggi sembra aver purtroppo dimenticato. Il film rimanda direttamente alle storie gotiche, alla letteratura di Henry James o, per quanto riguarda i riferimenti cinematografici, a un film bellissimo come The Others di Alejandro Amenabar. L'atmosfera è decadente e misteriosa, la tensione aleggia, la paura arriva al momento giusto. Anche se abbiamo già visto tanti e tanti film del genere e quindi non si ha mai l'impressione che la storia di 1921- Il Mistero di Rookford rappresenti una novità, rimane però il fatto che l'operazione ha una sua coerenza interna innegabile e a livello puramente filmico funziona bene. Tornando alla Hall, l'attrice dimostra di saper tenere sulle spalle un film come vera protagonista. L'affiancano il solido Dominic West e la sempre grande Imelda Staunton. 
In mezzo a tanto cinema dell'orrore che ultimamente propone soltanto sangue a catinelle ed effettacci gore totalmente gratuiti, una storia di fantasmi realizzata nel vecchio stile è un evento molto ben accetto. Quando poi il prodotto, seppur piccolo e senza troppe pretese, è confezionato con la giusta cura – da sottolineare anche l'efficacia di fotografia e musiche – allora la soddisfazione nel saltare sulla poltrona spaventati come si faceva una volta è anche maggiore.

Danza

Cinema





Le Hawaii non sono esattamente il paradiso in terra che tutti crediamo: almeno non lo sono più per uno dei suoi abitanti, Matt King. Sua moglie Elizabeth ha appena avuto un incidente che l'ha gettata in coma, e non si riprenderà più. Non resta che staccare le macchine che la tengono ancora in vita. Da anni troppo concentrato sul suo lavoro, l'uomo si ritrova con due figlie che ormai non conosce più, la più grande delle quali, Alexandra, è sulla via della ribellione più spinta. Il dolore di Matt per la tragedia subita si trasforma in frustrazione quando scopre che sua moglie aveva una relazione extraconiugale, e stava per chiedere il divorzio. Il marito tradito e disperato si lancia allora alla ricerca dell'amante della sua sfortunata consorte…
Prima di Sideways consideravamo Alexander Payne un regista interessante ma tutto sommato sopravvalutato: Election e A proposito di Schmidt avevano svelato un cineasta dotato di notevole gusto acido per la commedia ma troppo propenso a dipingere personaggi sopra le righe e con i quali era difficile empatizzare. Poi è arrivato il capolavoro con protagonista Paul Giamatti, straordinario esempio di compostezza estetica e volontà di scavare in profondità dentro la psicologia e i sentimenti di uomini comuni. Adesso a sette anni di distanza viene presentato Paradiso amaro al Toronto Film Festival, opera che si pone come ulteriore e prezioso tassello nella filmografia di Payne in quanto capace di equilibrare le due facce del suo cinema che sopra abbiamo evidenziato. 
Spesso l'ironia, il sarcasmo e le situazioni più assurde arrivano proprio nei momenti in cui l'animo umano è maggiormente esposto al dolore. Questo ci mostra con perizia e sensibilità il suo nuovo lungometraggio, costruito su persone assolutamente comuni che nella difficoltà perdono le loro certezze ma si sforzano di ritrovare un nuovo equilibrio, simile nella sostanza ma costruito su basi molto più solide di quello trovato in passato. George Clooney si dimostra, fin dalle primissime scene, perfetto nelle vesti comode ma sottilmente complicate di un uomo confuso come potrebbe essere chiunque in tali circostanze. Una prova d'attore tanto matura la sua quanto convincente proprio perché lavora in sottrazione, e non sfrutta l'appeal e il carisma ormai consolidati che la star di solito propone sul grande schermo. Accanto a lui appaiono in varie scene un gruppo di caratteristi di finissima bravura, tra i quali spiccano Robert Forster e la troppo sottovalutata Judy Greer. Merita poi una segnalazione la giovane Shailene Woodley, bravissima nella parte della primogenita scombinata che nel momento del bisogno ritrova se stessa e si dimostra spesso più matura di suo padre.
Alexander Payne costruisce Paradiso amaro secondo il suo stile di regia lineare, mai ostentato, che inquadra volti e ambienti lasciando che siano loro e i dialoghi di una sceneggiatura umanissima a creare la sostanza del film. Il risultato è una commedia molto toccante, vagamente stonata, abile nello scavare dentro figure che si differenziano pochissimo da noi. L'acquisita forza del cinema di Alexander Payne come Paradiso amaro conferma pienamente sta proprio in questo, nel rendere interessante e coinvolgente la vita interiore di personaggi con cui ci si può identificare nel loro essere ordinari, o meglio esseri umani.

Canzoni

Cinema






Edimburgo. Emma e Dexter si laureano il 15 luglio 1988 e trascorrono la notte nello stesso letto. Da allora seguiremo la loro vita fino al 2006 fotografandone l'evoluzione sempre lo stesso giorno di ogni anno. Emma è un'idealista entusiasta ma al contempo riflessiva, capace di lavorare come cameriera in un ristorante messicano se questo diventa necessario. Dexter è ricco di famiglia, seducente e con la voglia di sfondare nel mondo della comunicazione. Riuscirà a condurre un programma televisivo anche se questo non servirà a placare le tensioni che ha dentro. I due continueranno a cercarsi, anno dopo anno, sia che si trovino nello stesso luogo sia che siano lontani l'uno dall'altra.
L'annosa questione (destinata a non risolversi) del rapporto cinema/letteratura si complica ulteriormente quando lo sceneggiatore è l'autore del romanzo a cui il film si rifà. Perché David Nicholls, che ha scritto il fortunato best seller pubblicato nel 2009, è anche colui che ha steso lo script di questo film diretto da Lone Scherfig la quale, anche quando aveva come suo punto di riferimento il Dogma di Von Trier (Italiano per principianti), sapeva come mostrare la propria originalità. In questa occasione il rapporto diretto con l'autore/sceneggiatore avrebbe potuto frenarla. Anche perché, e qui torniamo al tema di cui sopra, il pubblico a cui riferirsi era chiaramente (sin dall'inizio del progetto) da dividere in due blocchi. Chi ha letto ed apprezzato il libro non può fare a meno di notare che le prime 90 pagine vengono condensate in 16 minuti di film con inevitabili decurtamenti di senso e di atmosfere. Chi invece non lo conosce o lo ha ancora intonso sullo scaffale della libreria di casa potrà finalmente apprezzare una commedia romantico/drammatica credibile e non piegata forzatamente agli stereotipi imposti da Hollywood. Hathaway e Sturgess sono credibili nei loro andirivieni nei labirinti di un sentimento che vorrebbe essere di amicizia e di amore al contempo. Amicizia per poter continuare a vivere anche se lontani. Amore per il desiderio/bisogno di una contiguità, di una vicinanza pur nella profonda diversità di scelte e di stili di vita. 
La scelta di percorrere le loro vicende non è in nulla debitrice al Bernard Slade di "Tra un anno alla stessa ora" (là i protagonisti si rivedevano all'appuntamento prefissato, qui siamo noi a coglierli mentre esercitano il mestiere di vivere ovunque e con chiunque si trovino). Semmai è a Dickens che bisogna rifarsi come Nicholls nel libro quando cita questo passo da "Grandi speranze": "Per me fu un giorno memorabile, perché mi cambiò molto: Ma in ogni vita succede lo stesso. Immaginiamo un giorno a scelta isolato dal contesto e pensiamo a come sarebbe stato differente il corso della vita. Fermati, lettore, e rifletti a lungo sulla lunga catena di vil metallo o oro, spine o fiori, che non ti avrebbe mai legato, se non fosse stato per la formazione di quel primo anello in quel giorno memorabile." Anche perché è bene sapere che il 15 luglio nel mondo anglosassone si festeggia San Swithin e la tradizione popolare vuole che le condizioni del tempo di quella particolare giornata si protrarranno per quaranta giorni a venire. Quanti di noi vorrebbero (o avrebbero voluto) che accadesse lo stesso nella loro vita sentimentale? Che è invece quanto di più imprevedibile ci possa accadere. Questo film sa come ricordarcelo.

Numerologia





Tredici è il numero Quattro in una ottava maggiore ed è uno in più di Dodici, l'antico numero della completezza. Tredici è associato il significato della fine di un ciclo, dal fatto che ci sono tredici mesi lunari in un anno e tredici sono i segni nell'astrologia celtica e dei nativi americani. Mentre Tredici predice nuovi inizi, significa anche che i vecchi sistemi devono terminare per favorire le trasformazioni richieste. Visto come 12+1 è il numero dell'iniziato, in quanto una ottava musicale cromatica è composta da 13 suoni differenti (anche se il primo e l'ultimo sono la stessa nota ma in ottave diverse). Nella geometria sacra Tredici simboleggia l'eterna distruzione e creazione della vita. Tredici ha anche un significato astrologico in quanto la somma dei primi 13 numeri dà come risultato 91 che è il numero di giorni di una stagione.
Tredici come il numero degli anni in cui ho lavorato nell'editoria;
Tredici come il numero dei componenti la squadra del mio lavoro per una banca;
Tredici come gli anni di durata del mio matrimonio;
Tredici come il numero di alunni della mia classe l'ultimo anno alle superiori;
Tredici come il numero degli invitati al mio matrimonio;
Tredici come gli anni che sono stato nel commercio;
Tredici come gli anni che ho praticato arti marziali;
Tredici come il numero datomi nella colonia nella mia prima vacanza da solo;
Tredici sono i progetti portati a termine nel campo dell'editoria;
Tredici sono i viaggi fatti per lavoro in Francia;
E potrei continuare all'infinito.Indubbiamente è il numero che indica nella mia vita la fine e l'inizio di pezzi di nuova vita,di cambiamenti fondamentali e decisivi,di morti e rinascite continue.

Cinema






Implicati loro malgrado in un gravissimo attentato terroristico al Cremlino l'agente Ethan Hunt e i suoi collaboratori sono messi al bando dal governo americano. Il Presidente lancia l'operazione "Protocollo Fantasma". Hunt e i suoi ufficialmente non agiscono più per conto degli Usa ma tocca a loro, senza alcuna copertura, cercare di fermare chi sta cercando di scatenare una guerra nucleare contando sulla mai sopita diffidenza tra russi e yankee.
Le serie televisive, come si sa, sono concepite in modo tale da poter passare di mano in mano (leggi: di regista in regista) senza che i non addetti ai lavori si accorgano di nulla. La standardizzazione è la regola di base a cui tutti si debbono attenere. Sul grande schermo fortunatamente le cose procedono diversamente. Siamo ormai alla quarta Mission Impossible e ogni volta abbiamo assistito a una conferma della continuità unita però a un'incessante variazione di stile. Brian De Palma, che aveva curato l'esordio, non aveva rinunciato al suo gusto per la ricerca stilistica e la citazione raffinata mentre John Woo aveva dato sfogo alla passione per l'esasperazione di ogni singolo dettaglio. J.J. Abrams aveva raccolto l'eredità cercando di portare alla storia il suo spiccato interesse per una costruzione narrativa in cui l'amato (e ampiamente sperimentato in Lost) flashback entrasse in gioco per strutturare un'emozione che non scaturisse solo dall'azione.È ora il turno di Brad Bird che, lasciati i supereroi in cerca di tranquillità de Gli Incredibili e i fornelli di Ratatouille, affronta attori in carne ed ossa che agiscono però in una dimensione in cui gli spettatori debbono essere disponibili a sospendere la famosa incredulità o disporsi a fare altre scelte. Perché Ethan Hunt sopravvive ancora a qualsiasi percossa e caduta (con un po' di dolore a una gamba e nulla più) come da contratto ma, pur aderendo a questa dimensione, Bird non rinuncia a percorrere la strada esplorata da Abrams.
Cerca cioè di umanizzare l'"incredibile" agente offrendogli delle occasioni per far emergere emozioni che vadano al di là della pura action in escalation (che ovviamente non manca). Se allo 007 di Daniel Craig si concedeva un 'passato' ora quello di Ethan Hunt viene letto sotto una nuova luce. Ma, al suo fianco, c'è un gruppo che consente di diversificare anche i diversi livelli dell'azione aggiungendo qualche punta di ironia in più grazie al personaggio interpretato da Simon Pegg. I cattivi? Non mancano e sono proprio cattivi e, come spiega Hunt offrendoci in due battute una lezione di sceneggiatura di genere: "Quando sparano non pensano. Tirano su tutto quello si muove."

giovedì 19 luglio 2012

Fotografia


Pensieri






Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare.




Jorge Luis Borges, Luna di fronte, 1925
 

Canzoni

Poesie





Non trattenerti mai
Quando vorrai cercarmi.
Se vedi mura di acqua,
ampi fossati d’aria,
siepi di pietra o tempo,
guardie di voci, passa.
Ti aspetto con un essere
che non aspetta gli altri:
solo per te c’è spazio
là dove ti aspetto.
Nessuno può incontrarsi
lì con me eccetto il corpo
che ti conduce, come
un miracolo, in bilico.
Intatto, inalienabile,
un grande spazio bianco,
azzurro, in me, non vuole
nient’altro che i tuoi voli,
i passi dei tuoi piedi;
non si vedranno mai
in esso altre orme.
E se a volte mi guardi
come ad un prigioniero,
tra cose astruse,
o dietro delle porte,
pensa alle alte torri,
alle tremule cime
dell’albero, ben saldo.
Le anime delle pietre
che sotto sono all’opera
è sulla punta estrema
della torre che aspettano.
E loro, uccelli, nuvole,
non si sbagliano: lasciano
che passino al di sotto
gli uomini ed i giorni,
e vanno in alto,
sulla cime dell’albero,
l’apice della torre,
sicuri che lassù,
sulle frontiere estreme
del loro esser eterni,
è dove si consuma
ogni amore gioioso,
solitari ritrovi
della carne e le ali.
 
Pedro Salinas

Accadimenti




E dopo 57 giorni, Borsellino. Tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992. I giorni che legano la strage di Capaci a quella di via Mariano D’Amelio. E stringono nell’eternità Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, palermitani della Kalsa, magistrati, eroi loro malgrado. Falcone & Borsellino, come una premiata ditta. Giovanni e Paolo, come in quella foto, l’uno accanto all’altro, divertiti e divertenti, simbolo di un’amicizia, della lotta alla mafia, di una sfida a viso aperto fino all’estremo sacrificio, di cui erano consapevoli. Perché, diceva il commissario Ninni Cassarà, trucidato prima di loro, «siamo cadaveri che camminano». Perché, ripeteva Paolo, «chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola», frase che è il titolo di un libro di Giuseppe Ayala, il collega pm del pool palermitano.
E perché, aggiungeva Giovanni, «la mia vita vale meno del bottone di questa giacca». Prima Falcone e poi Borsellino, un ordine naturale, dalla nascita alla morte, l’uno scudo dell’altro. 
Tutti e due, l’uno dopo l’altro, sbriciolati dal tritolo mafioso. Giovanni a 53 anni, Paolo a 52, come il nonno e come il padre. Ci vorrebbe una biblioteca per raccontarli e far capire cosa accadde dopo di loro: quel processo truffa per via D’Amelio, quel «colossale depistaggio» allestito dai servizi attorno alla modesta figura di Vincenzo Scarantino e durato vent’anni, verosimilmente per coprire quella trattativa Stato- mafia, quel patto scellerato, quel terribile imbroglio che serviva ai boss a non perdere i patrimoni frutto dei traffici di droga e delle estorsioni e sepolti nelle galere col rigore del 41/bis e agli uomini dello Stato e della politica di evitare di saltare in aria.
Ora parliamo di Borsellino, perché l’ipotesi dei magistrati palermitani è che fu ucciso perché aveva capito quella trattativa e si opponeva, ovviamente. E perché l’anniversario, il ventesimo, è suo: 57 giorni dopo. Ventennale anche della tragedia di cinque agenti di scorta saltati in aria nello stesso istante, le 16,58 di quella domenica pomeriggio. Eroi di uno Stato che non li meritava: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Ed Emanuela Loi, prima donna poliziotto vittima di mafia, prossima alle nozze. Si salvò Antonio Vullo, che era andato a parcheggiare l’auto del giudice.
VENT’ANNI dopo si dovrebbe raccontare l’uomo Borsellino, marito di Agnese Piraino Leto e padre di Lucia, Manfredi e Fiammetta; e il magistrato Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, già procuratore a Marsala e, ancora prima, giudice di quel pool di Antonino Caponnetto che, con Falcone, costruì il maxiprocesso alla mafia (500 imputati), con la condanna in Cassazione di boss e gregari e l’affermazione del cosiddetto “teorema Buscetta”. La ragione, per vendetta, di tutte queste morti, degli intrighi passati e presenti. 
Si dovrebbero ricostruire quei 57 giorni spesi nella ricerca dei mandanti della strage Falcone, nel tentativo vano di farsi ascoltare dal procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra («Sono un testimone di quella strage», urlò pubblicamente). Con i ripetuti avvisi dei servizi segreti («E’ arrivato il tritolo per l’attentato»), mai avvertito dal suo capo, il procuratore Giammanco, che dopo la sua morte fu costretto alle dimissioni. E la terribile scoperta, sussurrata alla moglie Agnese la sera prima dell’attentato sulla spiaggia di Villagrazia, che il capo del Ros, il generale dei carabinieri Antonio Subranni, l’uomo che lo doveva proteggere, era “punciuto”, cioè mafioso. In un rapporto, il generale aveva segnalato l’imminenza di un attentato sulla base di informazioni provenienti da «fonti mafiose e non mafiose». Chi erano le fonti? Quella sera, piangendo, disse ad Agnese di «avere visto la mafia in faccia», scrive Enrico Deaglio ne “Il vile agguato”.
UN ALTRO episodio inquietante di quei 57 giorni fu l’interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo in una struttura segreta a Roma. Gli aveva appena sussurato all’orecchio che Bruno Contrada, numero tre del Sisde, già capo della mobile di Palermo, faceva il doppio gioco, quando arrivò una telefonata: il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato dopo le dimissioni dal governo Amato di Enzo Scotti, lo voleva vedere al Viminale. Andò, ma al Viminale incontrò il capo della polizia, Vincenzo Parisi, e, appunto, Bruno Contrada. Che gli chiese di Mutolo. Contrada fu arrestato alla vigilia di Natale dello stesso anno, il 1992, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Si dovrebbe raccontare un processo, a Caltanissetta e con tanto di bollo della Cassazione, che condannò 32 persone, a cominciare da Vincenzo Scarantino, picciotto del quartiere della Guadagna, piccolo spacciatore, finto mafioso, padre di tre figli, che confessò di essere mente e braccio della strage. Una pista costruita a tavolino dal Sisde, confezionata già il 13 agosto ’92, a tempo di record, e affidata dal capo della polizia, sempre Parisi, al vicequestore Arnaldo La Barbera, che aveva fama di poliziotto determinato. Divenne questore, prima a Palermo, poi a Napoli e Roma, quindi prefetto a capo dell’Ucigos, travolto dai fatti della scuola Diaz a Genova nel 2001, morto per tumore al cervello nel 2002. Dopo si scoprì che lavorava per il Sisde. Un «colossale depistaggio» fu definita l’inchiesta Scarantino dal nuovo procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, per la quale decine di persone hanno patito fino a 18 anni di carcere duro.
HANNO preso in giro l’Italia intera, che ha bevuto la storia che un piccolo delinquente di periferia avesse potuto confezionare una strage così imponente. Tutti meno Ilda Boccassini, all’epoca applicata a Caltanissetta: capì che la storia non funzionava e prese le distanze. Attenderemo il 2008 e Gaspare Spatuzza, killer di padre Puglisi, per ribaltare questa messinscena: si autoaccusò della strage, eseguita per conto dei fratelli Graviano, imprenditori e boss del quartiere Brancaccio. Dette i riscontri. Poi cominciò a emergere il capitolo più inquietante: la trattativa tra uomini dello Stato e capi mafiosi, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Vito Ciancimino. E’ un’altra storia, ma è la storia vera, che ha sepolto la Prima Repubblica e impedito alla Seconda di decollare. E fu il si salvi chi può.



 Pierluigi Visci

lunedì 16 luglio 2012

Viaggi

Cinema





Ti va di ballare? La danza vista come strumento educativo per recuperare dalla strada ragazzi difficili e insegnargli ad avere fiducia nel prossimo: il primo film che vede la debuttante regia della "newyorkese" Liz Friedlander è un divertente e appassionante viaggio nel mondo scolastico giovanile americano, dove la danza diventa uno strumento di recupero e di liberazione da situazioni piuttosto difficili come droga e prostituzione. Girato con toni a metà strada tra la commedia e il serial televisivo in stile "Dawson Creek", "Ti va di ballare?" narra le gesta di Pierre Dulaine educatore di ballo da sala che decide, in maniera a dire il vero piuttosto fortuita, di insegnare ad alcuni giovani studenti con problemi di integrazione proprio la disciplina di cui lui è maestro. In questo modo Dulaine intende aiutare i ragazzi a uscire dai propri problemi a passo di Rumba, Tango, e Valzer... La trama riprende, in maniera piuttosto "romanzata" e "favolistica", la vera storia della vita di Pierre Dulaine, i cui corsi di danza sono attualmente seguiti da più di 1200 scuole in America e coinvolgono centinaia di insegnanti e studenti: un uomo che ha saputo trasmettere la propria passione al Mondo e che ha saputo con essa recuperare tanti ragazzi dalla strada. La regia di Liz Friedlander va a tempo con la musica di sottofondo in un curioso mix tra musica da sala e musica da strada: si assiste quindi a una sorta di lungo videoclip sicuramente dinamico, ma che purtroppo poco ha a che fare con una vera e propria regia cinematografica. A questo aspetto poco convincente si aggiunge una sceneggiatura non esattamente all'altezza delle aspettative, caratterizzata da una gara di frasi a effetto e dialoghi che sembrano incompiuti: la sensazione per quanto riguarda la trama è che molte delle situazioni che emergono dalla storia, non trovano giusta conclusione alla fine del film. Malgrado questi aspetti discutibili "Ti va di ballare?" si lascia comunque vedere nelle sue due ore di girato, e finisce per appassionare e divertire anche lo spettatore più scettico. Godibile. Per il ruolo di Pierre Dulaine Antonio Banderas è perfetto. Il suo charme e la sua caratterizzazione un po' sorniona di questo insegnante con un passato misterioso alle spalle risulta abbastanza convincente, considerando anche i limiti già menzionati della sceneggiatura e della regia. Al suo fianco un cast di giovani attori e ballerini che curiosamente impersonano un gusto retrò un po' anni Ottanta. Diventeranno famosi. Insomma "Ti va di ballare?" è un film leggero e disimpegnato che somiglia più a un lungo videoclip che non a un lungometraggio. Però se si sorvola sugli aspetti un po' inverosimili della trama (come ragazzi che imparano a ballare nel giro di poche settimane, partecipano ad una gara regionale e la vincono…), rimane un film che al di là della veridicità della storia intende soprattutto omaggiare la danza: vista non solo come disciplina artistica, ma come identità, come rivalsa, come naturalezza dell'esistere, come seduzione, complicità e armonia col Mondo, in una parola: come Vita. Riuscito.

Fotografia






Le foto astronomiche
Fotografia di Harry Katzjaeger

Canzoni

Cinema






Non è una continuazione del primo, inimitabile capitolo. Ci sono alcuni dettagli che danno continuità ma siamo di fronte ad un film di tutt'altro genere, spessore e qualità. Ci sono sempre (e anche di più!!) belle macchine, tantissime belle fanciulle, c'è Walker che è attore dalla bella faccia, sicuramente a suo agio nel ruolo. Ma la storia non convince, non fila via liscia, è piuttosto ordinaria ed ha il solito sapore del deja vu e del sequel a tutti i costi. Il problema grosso è che manca Vin Diesel, che ha legato il suo volto alla saga e lascia un vuoto che nessuno, Tyrese compreso, può colmare. Poco credibile pure il cattivo. Anche l'intreccio corse clandestine e agenti sotto copertura è molto mal orchestrato. Questo titolo meriterebbe ben altra qualità. C'è solo una cosa che lo salva dalla disfatta: è sempre a manetta, sempre vivo e attivo, sempre su di giri, il che distrae l'occhio dai tanti limiti, se fosse stato una pubblicità piuttosto che un film avrebbe spopolato! Regia di alto livello, da vedere senza impegno.

domenica 15 luglio 2012

Canzoni

Cinema






Chester Square, oggi. L’ottantenne Margaret Thatcher, ex Primo Ministro britannico, affetta da una crescente demenza senile, parla con il marito Denis, morto da anni, mentre resiste alla necessità di liberarsi del guardaroba dell’uomo e insieme combatte strenuamente la perdita del suo immenso potere e l’inesorabile passare del tempo. Nota per la sua politica ultraconservatrice e per le scelte controverse in campo nazionale e internazionale, la Thatcher – racconta il film - è stata una donna che all’ambizione politica ha immolato se stessa e la sua vita privata.
Se si può solo restare ammirati da un talento che non scema e anzi probabilmente cresce, come quello di Meryl Streep, qui nella performance che ne farà un’icona elevata alla seconda, il resto del film controbilancia tanto entusiasmo e si dispiega su un binario pianamente biografico: pianeggianti sono, infatti, la regia di Phyllida Loyd e la scrittura di Abi Morgan, forse più felice in sede televisiva che cinematografica. 
Le idee di fondo sono due: da un lato, l’adozione di una focalizzazione interna, vale a dire del punto di vista della protagonista, in modo da sospendere (o quasi) ogni giudizio esterno sul suo operato politico; dall’altro l’idea di raccontare la Thatcher anziana, preda di una malattia progressiva e allucinogena che le fa mescolare il presente ai ricordi del passato, kronos e kairos, e in questo modo la costringe a ripercorrere una vita e a fare un bilancio (solo) in parte doloroso di se stessa. 
Non c’è dubbio che lo sguardo sul personaggio esca da un lavaggio con dosi massicce di ammorbidente, ma parlare di agiografia non è onesto, perché man mano che il film procede la determinazione della giovane Margaret Roberts lascia sempre più chiaramente il posto alla cecità di una donna che obbedisce ad una convinzione monomaniacale (no al compromesso, in nessun caso), mandando per questo a morire la sua gente e mettendo in ginocchio una nazione. È un passaggio silenzioso ma presente. E tra le righe bisognerebbe leggere almeno un altro dato che il film non commenta: la sua rielezione da parte dei cittadini brittanici per ben tre mandati, nonostante fosse la donna più odiata del mondo. 
Al di là di trucco e parrucco, The Iron Lady ha dunque una sua ragione d’interesse non solo in Jim Broadbent, che si conferma un efficacissimo salvagente, ma soprattutto fuori dallo schermo, oggi che l’Inghilterra non è meno Broken England di allora e di certo non è la sola. La confusione tra passato e presente potrebbe non essere solo un espediente di scrittura, ma affondare qualche volontaria radice nella realtà.