E dopo 57 giorni, Borsellino. Tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992. I giorni che legano la strage di Capaci a quella di via Mariano D’Amelio. E stringono nell’eternità Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, palermitani della Kalsa, magistrati, eroi loro malgrado. Falcone & Borsellino, come una premiata ditta. Giovanni e Paolo, come in quella foto, l’uno accanto all’altro, divertiti e divertenti, simbolo di un’amicizia, della lotta alla mafia, di una sfida a viso aperto fino all’estremo sacrificio, di cui erano consapevoli. Perché, diceva il commissario Ninni Cassarà, trucidato prima di loro, «siamo cadaveri che camminano». Perché, ripeteva Paolo, «chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola», frase che è il titolo di un libro di Giuseppe Ayala, il collega pm del pool palermitano.
E perché, aggiungeva Giovanni, «la mia vita vale meno del bottone di questa giacca». Prima Falcone e poi Borsellino, un ordine naturale, dalla nascita alla morte, l’uno scudo dell’altro.
Tutti e due, l’uno dopo l’altro, sbriciolati dal tritolo mafioso. Giovanni a 53 anni, Paolo a 52, come il nonno e come il padre. Ci vorrebbe una biblioteca per raccontarli e far capire cosa accadde dopo di loro: quel processo truffa per via D’Amelio, quel «colossale depistaggio» allestito dai servizi attorno alla modesta figura di Vincenzo Scarantino e durato vent’anni, verosimilmente per coprire quella trattativa Stato- mafia, quel patto scellerato, quel terribile imbroglio che serviva ai boss a non perdere i patrimoni frutto dei traffici di droga e delle estorsioni e sepolti nelle galere col rigore del 41/bis e agli uomini dello Stato e della politica di evitare di saltare in aria.
Ora parliamo di Borsellino, perché l’ipotesi dei magistrati palermitani è che fu ucciso perché aveva capito quella trattativa e si opponeva, ovviamente. E perché l’anniversario, il ventesimo, è suo: 57 giorni dopo. Ventennale anche della tragedia di cinque agenti di scorta saltati in aria nello stesso istante, le 16,58 di quella domenica pomeriggio. Eroi di uno Stato che non li meritava: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina. Ed Emanuela Loi, prima donna poliziotto vittima di mafia, prossima alle nozze. Si salvò Antonio Vullo, che era andato a parcheggiare l’auto del giudice.
VENT’ANNI dopo si dovrebbe raccontare l’uomo Borsellino, marito di Agnese Piraino Leto e padre di Lucia, Manfredi e Fiammetta; e il magistrato Borsellino, procuratore aggiunto a Palermo, già procuratore a Marsala e, ancora prima, giudice di quel pool di Antonino Caponnetto che, con Falcone, costruì il maxiprocesso alla mafia (500 imputati), con la condanna in Cassazione di boss e gregari e l’affermazione del cosiddetto “teorema Buscetta”. La ragione, per vendetta, di tutte queste morti, degli intrighi passati e presenti.
Si dovrebbero ricostruire quei 57 giorni spesi nella ricerca dei mandanti della strage Falcone, nel tentativo vano di farsi ascoltare dal procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra («Sono un testimone di quella strage», urlò pubblicamente). Con i ripetuti avvisi dei servizi segreti («E’ arrivato il tritolo per l’attentato»), mai avvertito dal suo capo, il procuratore Giammanco, che dopo la sua morte fu costretto alle dimissioni. E la terribile scoperta, sussurrata alla moglie Agnese la sera prima dell’attentato sulla spiaggia di Villagrazia, che il capo del Ros, il generale dei carabinieri Antonio Subranni, l’uomo che lo doveva proteggere, era “punciuto”, cioè mafioso. In un rapporto, il generale aveva segnalato l’imminenza di un attentato sulla base di informazioni provenienti da «fonti mafiose e non mafiose». Chi erano le fonti? Quella sera, piangendo, disse ad Agnese di «avere visto la mafia in faccia», scrive Enrico Deaglio ne “Il vile agguato”.
UN ALTRO episodio inquietante di quei 57 giorni fu l’interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo in una struttura segreta a Roma. Gli aveva appena sussurato all’orecchio che Bruno Contrada, numero tre del Sisde, già capo della mobile di Palermo, faceva il doppio gioco, quando arrivò una telefonata: il nuovo ministro dell’Interno, Nicola Mancino, appena insediato dopo le dimissioni dal governo Amato di Enzo Scotti, lo voleva vedere al Viminale. Andò, ma al Viminale incontrò il capo della polizia, Vincenzo Parisi, e, appunto, Bruno Contrada. Che gli chiese di Mutolo. Contrada fu arrestato alla vigilia di Natale dello stesso anno, il 1992, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.
Si dovrebbe raccontare un processo, a Caltanissetta e con tanto di bollo della Cassazione, che condannò 32 persone, a cominciare da Vincenzo Scarantino, picciotto del quartiere della Guadagna, piccolo spacciatore, finto mafioso, padre di tre figli, che confessò di essere mente e braccio della strage. Una pista costruita a tavolino dal Sisde, confezionata già il 13 agosto ’92, a tempo di record, e affidata dal capo della polizia, sempre Parisi, al vicequestore Arnaldo La Barbera, che aveva fama di poliziotto determinato. Divenne questore, prima a Palermo, poi a Napoli e Roma, quindi prefetto a capo dell’Ucigos, travolto dai fatti della scuola Diaz a Genova nel 2001, morto per tumore al cervello nel 2002. Dopo si scoprì che lavorava per il Sisde. Un «colossale depistaggio» fu definita l’inchiesta Scarantino dal nuovo procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, per la quale decine di persone hanno patito fino a 18 anni di carcere duro.
HANNO preso in giro l’Italia intera, che ha bevuto la storia che un piccolo delinquente di periferia avesse potuto confezionare una strage così imponente. Tutti meno Ilda Boccassini, all’epoca applicata a Caltanissetta: capì che la storia non funzionava e prese le distanze. Attenderemo il 2008 e Gaspare Spatuzza, killer di padre Puglisi, per ribaltare questa messinscena: si autoaccusò della strage, eseguita per conto dei fratelli Graviano, imprenditori e boss del quartiere Brancaccio. Dette i riscontri. Poi cominciò a emergere il capitolo più inquietante: la trattativa tra uomini dello Stato e capi mafiosi, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Vito Ciancimino. E’ un’altra storia, ma è la storia vera, che ha sepolto la Prima Repubblica e impedito alla Seconda di decollare. E fu il si salvi chi può.
Pierluigi Visci
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