domenica 25 luglio 2010
Pensieri
La specie umana appare ai Greci come segnata da impotenza congenita: qualche gioia effimera può, ma solo temporaneamente, consolarli della loro condizione. I loro Dei però sono felici.
E continuamente i poeti, da Esiodo ad Omero e via via, paragonano questa felicità olimpica al vano affanno umano sulla terra.
Da questa parte del mondo gli uomini soffrono, invecchiano e muoiono, mentre là, sull’Olimpo avvolto da nubi, gli dei, dopo le lotte terribili e cruente che li hanno opposti, figli ai padri, fratelli a fratelli, conducono un’esistenza pacificata.
Il loro tempo è ormai tutto presente ed è un tempo di gioia scandito dalla musica.
La dolcezza del vivere sull’Olimpo è fatta di un lungo banchetto rallegrato dalla voce delle Muse. La vita degli dei si svolge dentro un orizzonte di beatitudine:
l’Olimpo è il luogo” dove si dice che gli dei lontani da ogni scossa abbiano la loro sede eterna; i venti non lo battono, né l’inondano le piogge,non c’è mai neve lassù, ma in ogni tempo l’etere disteso, senza nubi, avvolge la cima in un chiaro bagliore; lassù gli dei trascorrono nella felicità e nella gioia tutti i loro giorni”.
Sono immortali –athenatoi- e nati per sempre –aeigennetoi-. Non hanno sangue che si corrompa ma l’ichor divino, non mangiano pane né bevono vino e perciò i loro corpi sono esenti da corruttibilità. Si nutrono di ambrosia e nettare e del fumo dei sacrifici che offrono loro gli uomini. Infatti gli dei sono carnivori ma si accontentano del solo odore della carne che gli uomini arrostiscono per loro nei templi.
I lunghi simposi nell’etere sereno vedono gli dei trascorrere le loro giornate nella più perfetta felicità.
Così piace immaginarli agli uomini greci. Eppure non è propriamente così.
Questo lungo banchettare allietato dalla musica è solo un intervallo dagli affari che continuamente occupano gli dei. E se le Muse sono sempre presenti al convivio è perché le figlie di Mnemosine e di Zeus, possano recare oblio delle sventure e tregua alle preoccupazioni.
Hanno dunque sventure e preoccupazioni gli dei greci? Il loro attributo non è come Omero fa dire ad Achille, di essere akedees, estranei agli affanni?
Ebbene no: gli dei hanno corpi, corpi che si stancano e cercano il riposo e il sonno, corpi che sudano, corpi che possono essere feriti, lacerati; sull’Olimpo un "terapeuta" è sempre pronto per recare sollievo alle ferite e ritemprare i corpi stanchi; corpi che conoscono gli spasimi del desiderio e le fitte della gelosia. Come gli uomini gli Dei greci hanno infatti i loro umori: desiderio, dolore, gioia, collera; non sono impassibili come gli Dei del taoismo, che coltivano l’indifferenza e l’inerzia più assoluta.
Il presente-per-sempre degli Dei greci conosce affanni simili a quelli degli uomini.
Anche per loro kedos e hedos, preoccupazione e dolcezza, sono inseparabili.
Luciano, l’irriverente, arguto scrittore greco-siriano del II secolo, in uno dei suoi dialoghi filosofici-Zeus tragedo- mette in scena una vivace arringa del Padre di tutti gli Dei.
È Zeus in persona che parla:
“Accidenti a tutti i filosofi che pretendono che la felicità risieda tra gli dei!
Tutta colpa di Omero... quel cieco, bugiardo, ciarlatano che ci chiama beati!”
Prendete il Sole: tutto il giorno fa il giro del cielo, come la Luna che non dorme mai; e Apollo assillato continuamente da gente che vuole i suoi oracoli e corre da un santuario all’altro, da Delfi a Dodona, da Delo a Colofone. E Asclepio, assordato dai malati e Sonno e Sogno che passano le loro notti insieme volando sopra il mondo e gli uomini.
“Peggio di tutti sto io, io il re e padre dell’Universo! Quanti dispiaceri e affanni devo sopportare! Debbo badare alle necesità degli altri dei... affinche facciano i loro compiti correttamente... e poi devo badare ai miei mille affari. ..e oltre a distribuire le piogge, le grandini, i venti e i fulmini, allo stesso tempo ”debbo guardare da tutte le parti..se è stato un malato o un navigante a chiamarmi...ma la cosa più stancante è trovarsi allo stesso tempo a Olimpia per prendere parte ad un’ecatombe, a Babilonia per sorvegliare i belligeranti, presso i Geti per grandinare e presso gli Etiopi per assistere ad un banchetto.”
“Mi piacerebbe chiedere a questi filosofi... quand’è che pensano che noi abbiamo l’agio di assaporare il nettare e l’ambrosia, con tutte le migliaia di affari che abbiamo tra le mani!”
Sembra quasi una rivendicazione sindacale! Non ingiustificata per chi pensa che siano stati gli uomini a creare gli Dei e non viceversa. Questo fa degli uomini, in un certo senso, il datore di lavoro degli Dei. E un datore di lavoro esigente e pretenzioso. Infatti non c'è umano che non si aspetti un intervento specifico e personale, sovraccaricando le giornate lavorative delle povere divinità.
Questo vale in modo particolare per gli Dei greci. Essi infatti partecipano assiduamente alle vicende degli umani, intervengono attivamente nelle loro vite, in pace, in guerra, nei letti...
Quando, dunque, sono felici gli Dei greci?
Forse è nel week-end che gli Dei greci si riposano. Si distendono sui loro talami, intorno alla tavola imbandita,e la loro coppiera versa il nettare e l’ambrosia; e finalmente si nutrono, mentre le Muse suonano e cantano e danzano per loro. Forse si raccontano le loro faticose giornate e si lamentano di questa o quella difficoltà. Piano piano si rilassano, si distendono, e tornano a quello stato di beatitudine da cui le faccende degli uomini li hanno strappati. E si ricordano che sì, in fondo, loro sono Dei. Per quanto i loro corpi siano stati colpiti o stancati nel disbrigo delle quotidiane faccende, sono sempre corpi divini! Ritrovano vigore e bellezza, il loro tempo non avrà fine e se un desiderio balenerà nelle loro teste sovrane, potranno realizzarlo. Quanto agli uomini, questi padroni esosi, che ingoino la loro invidia!
-Sono Zeus, infine! Sono il Re dell’Universo!- E, per festeggiare, il Padre di tutti gli Dei lancia un fulmine ammonitore sulla testa degli uomini.
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Meravigliosa la sezione "pensieri mitologici" :)
RispondiEliminaAnzi, quasi quasi approfitto, perchè tu mi offri lo spunto per citare gli ultimi versi (e solo gli lutimi perchè in realtà il testo è molto più lungo) di un capolavoro leopardiano intitolato "Alla primavera, o della favole antiche", in pratica il VII dei suoi rinomatissimi canti.
"Son le stanze d'Olimpo, e cieco il tuono
Per l'atre nubi e le montagne errando,
Gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro
In freddo orror dissolve; e poi ch'estrano
Il suol nativo, e di sua prole ignaro
Le meste anime educa;
Tu le cure infelici e i fati indegni
Tu de' mortali ascolta,
Vaga natura, e la favilla antica
Rendi allo spirto mio; se tu pur vivi,
E se de' nostri affanni
Cosa veruna in ciel, se nell'aprica
Terra s'alberga o nell'equoreo seno,
Pietosa no, ma spettatrice almeno."
e il naufragar m'è dolce in questo mare...