domenica 19 settembre 2010
Racconti
IL LATTE DELLA MORTE
Marguerite Yourcenar
La lunga fila grigia e marrone dei turisti si allungava nella strada maggiore di Ragusa. I berretti spighettati, le opulente vesti ricamate ondeggiavano al vento sulla soglia delle botteghe e accendevano l'occhio dei viaggiatori in caccia di regali a buon mercato o di travestimenti per i balli in costume sulla nave. Faceva caldo come fa caldo soltanto all'inferno. Le montagne rase dell'Erzegovina tenevano Ragusa sotto fuochi di specchi ustori. Philip Mild entrò in una rosticceria tedesca dove in una semioscurità soffocante ronzava qualche grossa mosca. La terrazza del ristorante si affacciava paradossalmente sull'Adriatico, rispuntato fuori in piena città, proprio dove meno lo si sarebbe immaginato, senza che quell'improvvisa irruzione azzurra servisse ad altro che ad aggiungere un colore all'arlecchinante piazza del Mercato. Un fetore saliva da un mucchio di resti di pesce di cui certi gabbiani bianchi in modo quasi insopportabile stavano facendo piazza pulita. Nemmeno un alito veniva dal largo. Il compagno di cabina di Philip, l'ingegnere Jules Boutrin, stava bevendo, seduto a un tavolino di zinco, all'ombra di un ombrellone color fuoco che di lontano sembrava una grossa arancia ondeggiante sul mare.
– Raccontatemi un'altra storia, mio vecchio amico, disse Philip lasciandosi cadere pesantemente su una sedia. Davanti a questo mare ho bisogno di un whisky e di una storia... la storia più bella e meno vera che sia possibile, capace di farmi dimenticare le menzogne patriottiche e contraddittorie di quei giornali che poco fa ho comprato sulla banchina. Gli Italiani insultano gli Slavi, gli Slavi i Greci, i Tedeschi i Russi, i Francesi la Germania e quasi altrettanto l'Inghilterra. Tutti hanno ragione, penso. Parliamo d'altro... che cosa avete fatto ieri a Scutari dove eravate tanto impaziente di andare a vedere con i vostri stessi occhi non so quali turbine?
– Niente, disse l'ingegnere. A parte un'occhiata a certi vaghi lavori di una diga, ho dedicato il meglio del mio tempo a cercare una torre. Ho sentito tante vecchie serve raccontare la storia della Torre di Scutari che avevo proprio bisogno di ritrovarne i mattoni sbrecciati e di esaminare se per caso non conservino, come si dice, una striscia bianca... ma il tempo, le guerre e i contadini dei dintorni preoccupati di consolidare i muri delle loro fattorie l'hanno demolita pietra dopo pietra, e soltanto nei racconti il suo ricordo resiste... A proposito, Philip, siete tanto fortunato da possedere quella che si dice una buona madre?
– Che domanda, fece negligentemente il giovane Inglese. Mia madre è bella, slanciata, ben truccata, dura come il vetro di una vetrina. Che volete che vi dica di più? Quando usciamo insieme mi prendono per suo fratello maggiore.
– Appunto. Siete come tutti noi. Quando penso che certi idioti assicurano che la nostra epoca manca di poesia, come se non avesse i suoi surrealisti, i suoi profeti, le sue stelle del cinema e i suoi dittatori! Credete a me, Philip, quello che ci manca è qualche realtà. La seta è artificiale, quel cibo detestabilmente sintetico assomiglia a quelle imitazioni alimentari di cui si riempiono le mummie, e le donne sterilizzate contro il dolore e la vecchiaia sono scomparse ovunque. Soltanto nelle leggende dei paesi semibarbari, si incontrano ormai quelle creature ricche di latte e di lacrime da cui saremmo fieri di essere nati... Dove ho sentito parlare di un poeta che non poteva amare nessuna donna perché in un'altra vita aveva incontrato Antigone? Un tipo del genere che dico io... qualche dozzina di madri e di innamorate, da Andromaca a Griselda, mi hanno fatto diventare esigente nei confronti di quelle bambole infrangibili che si pretendono realtà.
"Isotta per amante, e per sorella la Bell'Alda... sì, ma quella che avrei voluto per madre è una ragazzina della leggenda albanese, la moglie di un giovane fringuello di queste parti...
"C'erano tre fratelli che lavoravano alla costruzione di una torre di vedetta contro i predoni turchi. Si erano messi loro stessi all'opera, sia che la mano d'opera fosse rara, e cara, sia che da bravi contadini non si fidassero che delle loro stesse braccia, e le loro mogli venivano a turno a portare da mangiare. Ma ogni volta che riuscivano a concludere tanto bene il loro lavoro da issare un ciuffo d'erba sul tetto, il vento della notte e le streghe della montagna rovesciavano la loro torre proprio come Dio fece crollare Babele. Ci sono buone ragioni sì perché una torre non si regga in piedi, e si può incolpare l'inettitudine degli operai, la cattiva volontà del terreno e l'insufficienza del cemento che tiene insieme le pietre. Ma i contadini serbi, albanesi o bulgari non attribuiscono a questo disastro che un'unica causa: sanno che un edificio crolla se non si è preso cura di chiudere nelle fondamenta un uomo o una donna il cui scheletro sostenga fino al giorno del Giudizio Universale quella pesante carne di pietre. Ad Arta, in Grecia, si mostra un ponte in cui fu murata una ragazza: qualche filamento dei suoi capelli esce da una fessura e pende sull'acqua come una pianta bionda. I tre fratelli cominciarono a guardarsi con diffidenza e facevano attenzione a non proiettare la loro ombra sul muro incompiuto perché è possibile, in mancanza di meglio, chiudere in un edificio in costruzione quel nero prolungamento dell'uomo che potrebbe corrispondere alla sua anima. E l'uomo la cui ombra viene imprigionata così, muore come un disgraziato colpito da una pena d'amore.
"La sera ognuno dei tre fratelli si sedeva dunque il più lontano possibile dal fuoco, per timore che qualcuno gli s'avvicinasse silenziosamente alle spalle, gettasse un sacco di tela sulla sua ombra e se la portasse via semistrozzata, come un piccione nero. Il loro ardore per il lavoro languiva, e a bagnare di sudore la loro fronte bruna non era più la stanchezza ma l'angoscia. Finalmente, un giorno, il primogenito riunì intorno a sé i fratelli più giovani e disse:
"– Fratelli miei di sangue, di latte e di battesimo, fratellini miei, se la nostra torre resta incompiuta i Turchi si insinueranno di nuovo sulle rive di questo lago, dissimulati dietro le canne. Violenteranno le ragazze della nostra fattoria; ci bruceranno nei campi la promessa del pane futuro; crocifiggeranno i nostri contadini agli spauracchi dei frutteti, che così saranno ghiotta preda dei porci. Fratellini miei, noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Non si può chiedere al trifoglio di sacrificare una delle sue tre foglie, ma ognuno di noi ha una moglie giovane e forte, con le spalle e una bella nuca abituate a portare fardelli. Non prendiamo decisioni, fratelli: lasciamo scegliere al Caso, questo simulacro di Dio. Domani, all'alba, noi prenderemo per murarla viva nelle fondamenta della torre quella delle nostre donne che verrà a portarci da mangiare. Vi chiedo soltanto il silenzio di una notte, o miei fratelli più giovani, e guardiamoci dall'abbracciare con troppe lacrime e sospiri quella che, dopo tutto, ha due possibilità su tre di respirare ancora al tramonto.
"Era facile per lui parlare così perché in segreto detestava la sua giovane moglie e voleva sbarazzarcene per prendere al suo posto una bella ragazza greca dai capelli rossi. Il secondo fratello non fece obiezioni perché pensò subito che al ritorno avrebbe avvertito sua moglie, e il solo che protestò fu il più giovane, perché aveva l'abitudine di tener fede alla sua parola. Commosso dalla magnanimità dei fratelli maggiori, che in nome dell'opera comune rinunziavano a ciò che avevano di più caro al mondo, finì per lasciarsi convincere e promise di tacere tutta la notte.
"Rientrarono all'accampamento a quell'ora del crepuscolo in cui il fantasma della luce morta girovaga ancora per i campi. Il secondo fratello raggiunse tutto irritato la sua tenda e ordinò rudemente a sua moglie di aiutarlo a togliersi gli stivali. Quando fu accoccolata ai suoi piedi, lui le sbatté le calzature in pieno viso e dichiarò:
"– Sono otto giorni che porto la stessa camicia, verrà la domenica e io non potrò mettermi biancheria pulita. Maledetta fannullona, domani alla prima alba dovrai andare al lago con il cesto della biancheria e ci resterai fino a notte fra la spazzola e la mestola. Morirai se te ne allontani di uno spessore di suola.
"E la giovane, tremando, promise di consacrare al bucato la giornata seguente.
"Il primogenito rientrò alla sua tenda ben deciso a non dir nulla alla sua massaia i cui baci lo esasperavano e di cui non apprezzava più la greve bellezza. Ma aveva un pericoloso difetto: parlava in sogno. L'opulenta matrona albanese quella notte non riuscì a dormire, domandandosi in che cosa avesse potuto spiacere al suo signore. All'improvviso sentì il marito bofonchiare mentre tirava a sé la coperta:
"– Cuore mio, caro cuoricino che mi batte in petto, presto sarai vedovo... come ce la godremo, quando i buoni mattoni della torre ci avranno separati da quella moraccia...
"Ma il più giovane rientrò alla sua tenda pallido e rassegnato come un uomo che per la strada avesse incontrato la Morte in persona, che con la falce in spalla se ne andasse a mietere. Baciò il bambino nella culla di vimini, prese teneramente la giovane moglie tra le braccia e lei, tutta la notte, se lo sentì piangere contro il cuore. Ma la giovane, discreta, non gli chiese la causa di quel grande dolore perché non voleva costringerlo a confidenze, e perché non aveva bisogno di conoscere le sue pene per tentare di consolarlo.
"Il mattino dopo i tre fratelli presero le zappe e i martelli e se ne andarono in direzione della torre. La moglie del secondo fratello preparò il cestino del bucato e andò a inginocchiarsi davanti alla moglie del primogenito:
"– Sorella, disse, cara sorella, dovrei andare io oggi a portare da mangiare agli uomini, ma sotto pena di morte mio marito mi ha ordinato di lavargli le camicie di tela bianca e come vedi ne ho la cesta piena.
"– Sorella, cara sorella, disse la moglie dei primogenito, andrei molto volentieri a portare da mangiare ai nostri uomini, ma questa notte il diavolo mi si è insinuato dentro un dente.... ahi, ahi, ahi, riesco solo a gridare per il male...
"E senza tante cerimonie batté le mani per chiamare la moglie del più giovane:
"– Moglie del nostro fratello più giovane, disse, cara piccola moglie dell'ultimo, prendi il
nostro posto e vai a portare da mangiare ai nostri uomini perché la strada è lunga,
abbiamo i piedi stanchi e siamo meno giovani e meno leggere di te. Va', cara piccola, e
noi ti riempiremo il paniere di cose buone perché i nostri uomini ti accolgano con un
sorriso, Messaggera che cancellerai la loro fame.
"E il paniere fu riempito di pesci del lago canditi nel miele e nell'uva di Corinto, di riso
avvolto in foglie di vite, di formaggio di capra e di torta alle mandorle salate. La giovane
affidò teneramente il bambino alle braccia delle due cognate e prese la strada, sola, con
il suo fardello sul capo e il suo destino appeso al collo come una medaglia benedetta, invisibile a tutti, sulla quale Dio stesso avesse scritto che genere di morte le destinava, e che posto nel suo cielo.
"Quando i tre uomini la scorsero di lontano, figurina ancora indistinta, le corsero incontro, i due primi tutti preoccupati che il loro stratagemma andasse a buon fine, mentre il più giovane pregava Dio. Il primogenito inghiottì una bestemmia scoprendo che non si trattava della sua moraccia, e il secondo ringraziò il Signore ad alta voce per aver risparmiato la sua lavandaia. Ma l'ultimo s'inginocchiò, circondò con le braccia i fianchi della giovane moglie e gemendo le chiese perdono. Poi si trascinò ai piedi dei fratelli e li supplicò di avere pietà. Poi si rialzò e fece brillare al sole l'acciaio del suo coltello. Un colpo di martello sulla nuca lo gettò ansimante sul ciglio della strada. La giovane spaventata aveva lasciato cadere il paniere e le cibarie disperse andarono a rallegrare i cani dei gregge. Quando capì di che cosa si trattava, alzò le mani al cielo:
"– Fratelli a cui ho sempre obbedito, fratelli in nome del mio anello di nozze e della benedizione del prete, non fatemi morire, ma avvertite piuttosto mio padre che è capo del clan della montagna, e lui vi procurerà mille serve che voi potrete sacrificare. Non uccidetemi: amo tanto la vita. Non mettete fra il mio amato e me lo spessore della pietra.
"Ma di colpo tacque perché s'era accorta che il suo giovane marito steso sul ciglio della strada non muoveva le palpebre, e che i suoi capelli neri erano sporchi di sangue e di materia cerebrale. Allora senza grida e senza lacrime si lasciò condurre dai due fratelli fino alla nicchia scavata nel muro convesso della torre: poiché lei stessa stava per morire poteva risparmiarsi di piangere. Ma mentre veniva posato il primo mattone davanti ai suoi piedi calzati di sandali rossi, si ricordò del suo bambino che aveva l'abitudine di mordicchiarle le scarpe come un giovane cane pazzerello. Lacrime calde le rotolarono lungo le guance e andarono a mescolarsi al cemento che la spatola livellava sulla pietra:
"– Ahimè! Piccoli piedi miei, disse. Voi non mi porterete più fino alla cima della collina perché presenti più in fretta il mio corpo allo sguardo del mio amore. Non sentirete più la freschezza dell'acqua in corsa: soltanto gli Angeli vi laveranno, il mattino della Resurrezione.
"La commessura di mattoni e di pietre arrivò fino alle sue ginocchia coperte di una gonna dorata. Ben diritta al fondo della sua nicchia, aveva l'aria di una Maria in piedi dietro il suo altare.
"– Addio, mie care ginocchia, disse la giovane. Non cullerete più il mio bambino; seduta sotto l'albero bello dell'orto che è insieme cibo e ombra, non vi riempirò più di buoni frutti da mangiare.
"Il muro si alzò ancora un po', e la giovane proseguì:
"– Addio, care mie piccole mani che pendete lungo il mio corpo, mani che non cuocerete più la cena, mani che non torcerete più la lana, mani che non vi allaccerete più intorno al mio amore. Addio miei fianchi, e tu mio ventre, che non conoscerete più la maternità né l'amore. Bambinetti che io avrei potuto mettere al mondo, fratellini che non ho avuto il tempo di dar al mio unico figlio, mi farete voi compagnia in questa prigione che mi fa da tomba, e dove resterò in piedi, insonne, fino al giorno dei Giudizio Universale.
"Il muro di pietre le arrivava già al petto. Allora un brivido percorse la parte superiore del corpo della giovane, e i suoi occhi supplichevoli ebbero uno sguardo simile al gesto di due mani supplici.
"– Cognati, disse, per riguardo non a me ma al vostro fratello morto, pensate al mio bambino e non lasciatelo morire di fame. Non murate il mio petto, fratelli miei, fate che i miei due seni restino accessibili sotto la mia camicia ricamata, fate che ogni giorno mi si porti il mio bambino all'alba, a mezzogiorno e al crepuscolo. Finché mi resteranno poche gocce di vita, esse scenderanno fino alla punta dei miei due seni per nutrire il bambino che ho messo al mondo, e il giorno in cui non avrò più latte lui berrà la mia anima. Acconsentite, fratelli cattivi, e se farete così, il mio caro marito e io non avremo per voi in serbo rimproveri il giorno in cui ci incontreremo davanti a Dio.
"Intimiditi, i fratelli accettarono di esaudire quell'ultimo desiderio e lasciarono un intervallo di due mattoni all'altezza del seno. Allora la giovane mormorò:
"– Fratelli cari, mettetemi due mattoni davanti alla bocca perché i baci dei morti fanno paura ai vivi, ma lasciatemi una fessura davanti agli occhi perché io possa vedere se il latte giova al mio bambino.
"Fecero come lei aveva detto, e una fessura orizzontale fu lasciata all'altezza degli occhi. Al crepuscolo, all'ora in cui la madre usava allattarlo, portarono il bambino lungo la strada polverosa, bordata di arbusti bassi brucati dalle capre, e la suppliziata salutò l'arrivo del neonato con grida di gioia e benedizioni rivolte ai due fratelli. Onde di latte scesero dai suoi seni duri e tiepidi, e quando il bambino fatto della medesima sostanza del suo cuore le si fu addormentato contro il petto, ella prese a cantare con una voce che si attutiva nello spessore del muro di mattoni. Quando il piccolo si fu staccato dal suo seno, lei ordinò che lo riportassero all'accampamento per dormire, ma la tenera melopea si granò tutta la notte sotto le stelle, e quella ninnananna cantata a distanza bastava a impedirgli di piangere. Il giorno dopo lei non cantava più, e fu con voce debole che domandò come Vania avesse passato la notte. Due giorni dopo ella non parlò più ma respirava ancora, poiché i suoi seni abitati dal fiato salivano e scendevano impercettibilmente nella loro gabbia. Qualche giorno più tardi il suo alito andò a raggiungere la sua voce, ma i suoi seni immobili non avevano perduto nulla della loro dolce abbondanza di sorgente, e il bambino addormentato nell'incavo del suo petto poteva ancora sentire il suo cuore. Poi quel cuore in così bell'accordo con la vita allentò i suoi battiti. Quegli occhi languidi si spensero come il riflesso delle stelle in una cisterna senz'acqua, e attraverso la fessura non si videro più che due pupille vitree incapaci di guardare il cielo. Si liquefecero a loro volta, quelle pupille, e lasciarono il posto a due orbite cave in fondo alle quali si scorgeva la Morte, ma il giovane petto restava intatto e per due anni, all'aurora, a mezzogiorno e al crepuscolo continuò quello zampillo miracoloso, fino a quando il bambino, svezzato, si staccò spontaneamente dal seno.
"Soltanto allora quel petto esaurito andò in briciole, e sull'orlo dei mattoni non ci fu più che un mucchietto di ceneri bianche. Per qualche secolo le madri intenerite vennero a toccare con il dito lungo il mattone rossastro, i solchi tracciati dal latte meraviglioso, poi la torre stessa scomparve e il peso delle volte cessò di gravare su quel leggero scheletro di donna. Alla fine anche quelle fragili ossa si dispersero, e non resta più qui che un vecchio francese bruciato da questo calore infernale, che rispiattella al primo venuto questa storia degna di ispirare ai poeti tante lacrime quante quelle di Andromaca.
In quel momento, una zingara orribilmente incrostata e dorata di sporcizia si avvicinò alla tavola dove i due uomini appoggiavano i gomiti. Aveva fra le braccia un bambino i cui occhi inalati sparivano sotto bende di stracci. Si piegò in due con il servilismo più insolente che è proprio soltanto delle razze miserabili e regali e le sue gonne gialle spazzarono la terra. L'ingegnere la scostò con rudezza, senza preoccuparsi della sua voce che dal tono della preghiera passava a quello della maledizione. L'inglese la chiamò indietro per farle l'elemosina di un dinaro.
– Che cosa vi prende, vecchio sognatore? disse con impazienza. I suoi seni e le sue collane valgono senz'altro quelli della vostra eroina albanese. E il bambino che è con lei è cieco.
– Quella donna la conosco bene, rispose Jules Boutrin. Un medico di Ragusa mi ha raccontato la sua storia. Sono mesi che applica sugli occhi del bambino certi repellenti impiastri che gli infiammano la vista e impietosiscono i passanti. Lui ci vede ancora, ma presto sarà ciò che lei desidera che sia: un cieco. Quella donna si sarà garantita il proprio sostentamento, e per tutta la vita, perché la cura di un infermo è una professione remunerativa. C'è madre e madre.
(Tratto da "Novelle orientali", Casa Editrice Bur, traduzione di Maria Luisa Spaziani)
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