lunedì 10 ottobre 2011

Libri


Il titolo in italiano si presta meglio a descrivere il paradosso dello scrittore, uno dei più controversi del panorama letterario giapponese per quei suoi tratti umani che restano tutt’oggi confusi dal disfacimento fisico e mentale a cui si era sottoposto. Una ribellione sofferta la sua che dall’ambiente familiare spazia a quella più urgentemente sociale. Una ribellione sedata dal conformismo, somatizzata nelle profondità di un uomo che annegava nella solitudine, sentendosi allo stesso tempo estraneo ed estraniato dall’ambiente che lo circondava. L’emarginazione sociale era una conseguenza quasi naturale in una società di rigida compostezza. Nel versante occidentale del mondo abbiamo avvertito concetti forti come l’alienazione, l’estraneità, l’inettitudine, la noia, la nausea. Dal Giappone, attraverso la sua figura, assimiliamo quello della squalifica.

Dazai nasce ricco, ma da subito con grande onestà rifiuta quella rigidità formale a cui pareva destinato: università, matrimonio combinato, un lavoro scelto dalla famiglia sono tutti elementi preconfezionati nella scacchiera dell’esistenza. Li rigetta e fugge trascinando con sé un’insana passione per l’autodistruzione. Ed è durante gli anni universitari, nella movimentata Tokyo, che ravvisa netto il contrasto con il mondo d’origine, quello della campagna, proiettata con maggior rigore al conformismo. Una realtà che, tra l’altro, era già stata castigata dall’ironia di Natsume Soseki alcuni decenni prima. Proprio grazie al richiamo esplicito all’opera di esordio, "Io sono un gatto", lo stesso Soseki s’inserirà come un intarsio atto a rivelare una continuità ideologica in continuo approfondimento.

Il benestante Dazai cerca un rifugio negli ideali marxisti ripudiandoli in breve tempo, non senza recriminazioni dalla fazione che si riteneva tradita ma che, in fondo, non l’aveva mai preso sul serio.

Non è la politica la vera vocazione di Dazai e neppure lo studio di letterature straniere che aveva intrapreso sull’onda di un’attenzione istituzionalizzata. La letteratura nazionale già da tempo non destava interesse; lo studio della tradizione non era la priorità nel processo di occidentalizzazione. Ma è forse per questa ragione che le prose più autentiche riuscirono a resistere al tempo, superandolo.

La strada di Dazai è la scrittura, scevra da ogni condizionamento, eppur caratterizzata da un’elegante e libera commistione tra stile tradizionale ed occidentale. Grazie a questa sua caratteristica risulta maggiormente fruibile agli occhi di un occidentale. Inizia a scrivere già nel 1933, ma i romanzi che porteranno la luce sulla sua prosa saranno quelli del dopoguerra, “Il sole si spegne” e “Lo squalificato”, considerati entrambi quali suoi capolavori, ambedue rappresentativi dell’atipicità della sua figura. Tutti e due importanti per capire le sfaccettature del suo pensiero, possono essere considerati come facce di una stessa medaglia. Dazai si rivela attraverso i protagonisti de “Il sole si spegne”, in cui la lettera lasciata da Naoji prima del suicidio, è una drammatica dichiarazione d’intenti, ma con Kazuko, la sorella, sembra aver trovato una nuova dimensione di speranza. “Lo squalificato”, attraverso l’architettura narrativa, appare come il suo vero testamento, quello che riesce ad immergere il lettore nel doloroso inferno della sua mente. In esso Dazai dimostra la feroce consapevolezza di chi sente di non aver più alcuna speranza a cui aggrapparsi. In questo, molto più duro del precedente romanzo.

“Lo squalificato” non è altro che la sua storia, scritta in prima persona con uno stile originale, dimostrandosi una pregevole testimonianza dell’evoluzione stilistica dello Shishosetsu, incentrato sul racconto di sé, svincolato dalla scientificità della prosa che ne avevano contraddistinto le origini nei primi decenni del Novecento. Con lui, in tempi e modi differenti, Yukio Mishima, il cui accostamento è tanto evidente per la costruzione della maschera quanto opposto negli ideali. Dazai non era (e, francamente, non poteva esserlo) stimato da Mishima. Troppo lontani gli atteggiamenti e le visioni di vita nonché di morte tra i due scrittori.

“La mia è stata una vita di grande vergogna. Non riesco lontanamente a immaginarmi cosa significhi vivere la vita d’un essere umano” (pag. 19). L’enunciato iniziale presenta con estrema durezza Yozo, un ragazzo che viene dalla compagna e che nega, sapendo di mentire, di esser benestante. Nega, ma poi precisa di non aver mai conosciuto lo stimolo della fame, abituato a tre pasti al giorno che consumava insieme ai componenti della sua famiglia, una decina di persone in tutto. Nega e poi confronta il suo atteggiamento verso la servitù, a dimostrazione di un imbarazzo per la sua chiara estrazione sociale. Eppure Yozo sente di non appartenere a nessuna delle categorie sociali con cui si relaziona, sente la sua estraneità totale dal genere umano, sente di non riuscire a trasmettere la conoscenza del suo io interiore, sente l’incomunicabilità come barriera permanente nei suoi rapporti.

Il protagonista è un personaggio fuori dal comune che si delinea subito nella sua tragica farsa umana. Il pretesto narrativo di Dazai scatta dal ritrovamento delle fotografia e dei suoi taccuini, una sorta di discesa agli inferi su cui imbastisce un’evoluzione mai inficiata dal compatimento di sé. È un manifesto della non appartenenza, del suo dichiararsi estraneo al conformismo di cui la famiglia costituisce il nucleo sociale primario. Un perdente e disilluso che si dichiara da subito senza sconfinare nel pietismo, ma che si costruisce una maschera per la sua sopravvivenza, quella del buffone, quello che ha sempre uno strano sorriso stampato sul volto, quello di un bonario cialtrone. È attraverso questa maschera che crede di potersi intrufolare nel genere umano, senza vivere ai margini, per non sentirsi ospite indesiderato del mondo. È attraverso le sue buffonerie che cerca di trovare un modo di relazionarsi con gli altri, di trovare un punto di contatto umano, ma si ritrova annientato dalla sua stessa maschera che rivela nelle ultime pagine de “Il sole si spegne”.

Il suo è uno smarrimento che non ha nulla da rivendicare se non il fatto di non essere capito, in fondo anche da se stesso. Non è un caso che se da una parte viene preso in giro dagli amici, dall’altro finisce per respingere l’amore femminile e, quindi, l’autenticità di un rapporto. È talmente convinto della sua posizione di estraneità dal genere umano, riflettendo esso una condizione generalizzata nel contesto, che dimentica di dare di sé la versione completa della sua umanità, quella che, nel prologo, viene rivelata da una donna che lo aveva conosciuto: Yozo era diventato un alcolista, aveva subito l’isolamento in un ospedale psichiatrico, acquisendo una pericolosa dimestichezza con i narcotici e, quindi, con la morfina, ma in fondo era un buon ragazzo, “un angelo” (pag. 150).

E Yozu-Osamu fotografa le sue vicende cristallizzandole senza falsi pudori, senza il timore di suscitare il disgusto di sé e delle sue azioni.

Non sente di poter appartenere a quel genere di persona che sogna di andare in bicicletta ad ammirare una cascata all’interno di una cornice di foglie estive. La sua è un’aspirazione di morte, di annientamento della vita che sente come fonte di ogni peccato. E, nella sua immensa fragilità, finisce per commuovere.

Nel centenario della sua nascita, un autore da riscoprire.

“Ora non sono felice, ma non sono neanche infelice. Tutto passa. Questa è la sola e l’unica cosa che a parer mio s’avvicini alla verità, nella società degli esseri umani, dove ho dimorato sin oggi come in un inferno rovente. Tutto passa” (pag.146).

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