lunedì 2 gennaio 2012

Libri


Nel 1900 il giurista e storico delle dottrine politiche Gaetano Mosca (1858-1941) tenne delle conferenze a Torino e a Milano in tema di mafia, i cui contenuti poi furono pubblicati sul Giornale degli economisti.

A distanza di tanti anni l’editore Laterza ha voluto riproporre questi scritti, preceduti da un lungo intervento dei magistrati Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia che sintetizzano con molta efficacia le intuizioni e i limiti dell’analisi di Mosca.

Sicuramente il confronto tra l’attuale idea di mafia, più che mai presente con una strategia di “sommersione”, e quella di allora, non completamente rurale ma ancora lontana da quella globalizzazione che caratterizza i nostri giorni, ci fa balzare agli occhi aspetti anacronistici alimentati probabilmente dall’influenza del positivismo sulle scienze sociali e giuridiche.

Prendiamo ad esempio quanto scrive Mosca riguardo il siciliano che si trasferisce nel Nord Italia: soltanto per effetto dell’allontanamento da un ambiente condizionante questi si «spoglia subito di ogni spirito di mafia». Un’illusione che - a ragione - Caselli e Ingroia hanno definito “illuminista”, visto che l’evoluzione successiva di una mafia, sempre più in stretto contatto con la finanza ed imprenditori compiacenti, ha dimostrato la sua capacità di insediamento ed espansione anche in aree tradizionalmente estranee alla sua subcultura.

Al di là di alcuni aspetti raccontati da Mosca, che – ripeto - oggi potremmo pure definire obsoleti, legati sia alla cultura scientifica del tempo sia ad una mafia di inizio secolo maggiormente legata al territorio siciliano, le pagine del giurista palermitano per lo più rivelano un’inquietante attualità: ci riferiamo alla descrizione degli stretti rapporti tra mafia e politica e tra mafia e società, che, senza saperlo, il lettore potrebbe pensare si riferisca ai giorni nostri.

Mosca, fin dall’inizio della sua prolusione, prende spunto dal processo Palizzolo per l’omicidio Notarbartolo, che in quegli anni era in pieno svolgimento, appunto per analizzare il fenomeno criminale sia da lato strettamente culturale (e qui ne abbiamo visti i maggiori limiti), sia dal lato del profondo intreccio tra potere criminale e classi dirigenti del giovane Stato unitario.

La strategia della mafia dell’epoca, proprio a seguito della vicenda Palizzolo, ricorda quella attuale dell’inabissamento, resasi necessaria dopo la stagione stragista dei corleonesi: «ottenere il massimo prestigio ed il massimo guadagno illecito […] impiegando il minimo sforzo delittuoso ed affrontando il meno possibile le indagini e i rigori della giustizia». E - come aggiunge l’autore - una mafia che «ha bisogno di far dimenticare la propria esistenza».

Non ultimo aspetto che balza agli occhi è il riferimento al funzionario pubblico, all’investigatore votato all’antimafia ed alle «trame e alle calunnie che si ordiranno contro di lui a Roma».

Caselli e Ingroia, non fosse altro per ben noti motivi professionali, ne hanno colto benissimo il parallelo con «le campagne di delegittimazione, di denigrazione e talvolta, di vera e propria aggressione nei confronti della magistratura più impegnata sul fronte antimafia». Ricordando i veleni che investirono il pool di Falcone e Borsellino.

Mosca ci racconta un mondo che ancora ci appartiene, alle prese con un fenomeno criminale in parte adattatosi alla nuova realtà istituzionale ed internazionale, ma che, soprattutto nei rapporti con il potere politico e la società, continua a perpetuarsi con quelle caratteristiche raccontate fin dal 1900 in maniera così profetica.

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