mercoledì 6 ottobre 2010

Racconti


L'ultimo amore
del principe Genji

Quando Genji il Rifulgente, il più grande seduttore che mai abbia
stupito l'Asia, ebbe raggiunto il suo cinquantesimo anno, si accorse
che bisognava cominciare a morire. La sua seconda moglie, Murasaki,
la principessa Violetta, che egli aveva tanto amata attraverso tante
infedeltà contraddittorie, l'aveva preceduto in uno di quei Paradisi
dove vanno i morti che hanno acquisito qualche merito nel corso di
questa vita mutevole e difficile, e Genji si tormentava di non
poterne ricordare esattamente il sorriso, o meglio la smorfietta che
lei faceva prima di piangere. La sua terza sposa, la
Principessa-del-Palazzo-dell'Ovest, l'aveva ingannato con un giovane
parente, come lui stesso, al tempo della sua giovinezza, aveva
ingannato suo padre, con un'imperatrice adolescente. La stessa
commedia ricominciava sul teatro del mondo, ma questa volta lui
sapeva che non gli sarebbe toccata che la parte del vecchio, e a
questo preferiva la parte del fantasma. E così distribuì i suoi beni,
congedò i suoi servitori e si accinse ad andare a finire i suoi
giorni in un eremitaggio che aveva avuto cura di far costruire sul
fianco della montagna. Attraversò un'ultima volta la città, seguito
soltanto da due o tre compagni devoti che in lui non si rassegnavano
a prendere congedo dalla loro giovinezza. Nonostante l'ora mattutina,
alcune donne puntavano il viso contro i sottili listelli delle
persiane. Bisbigliavano ad alta voce che Genji era ancora bellissimo,
e questo provava una volta di più al principe che era proprio tempo
di andarsene.
Misero tre giorni a raggiungere l'eremitaggio situato in lande
assai selvatiche. La casetta sorgeva ai piedi di un acero centenario;
poiché era autunno, le foglie di questo bell'albero ne ricoprivano il
tetto di paglia con uno strato d'oro. In quella solitudine la vita si
rivelò più semplice e più rude ancora di quanto non fosse stata nel
corso del lungo esilio, in una remota provincia giapponese, subìto da
Genji al tempo della sua tempestosa giovinezza, e quell'uomo
raffinato poté finalmente gustare, fino a saziarsene, il lusso
supremo che consiste nel fare a meno di tutto. Presto si annunciarono
i primi freddi, le pendici della montagna si ricoprirono di neve come
le larghe pieghe di quei vestiti ovattati che si portano in inverno,
e la nebbia soffocò il sole. Dall'alba al crepuscolo, al baluginìo di
un avaro braciere, Genji leggeva le Scritture, e trovava in quei
versetti austeri un sapere ormai impossibile per lui nei più patetici
versi d'amore. Ma ben presto si accorse che la sua vista scemava,
come se tutte le lacrime che aveva versate sulle sue fragili amanti
gli avessero bruciato gli occhi, e dovette rendersi conto che per lui
le tenebre sarebbero cominciate prima della morte. Di tanto in tanto
un corriere intirizzito arrivava dalla capitale, zoppicando sui piedi
gonfi di stanchezza e di geloni, e gli presentava rispettosamente
certi messaggi di parenti o di amici che desideravano fargli ancora
una visita in questo mondo, prima degli incontri infiniti e incerti
dell'altra vita. Ma Genji temeva di ispirare ai suoi ospiti soltanto
compassione o rispetto, due sentimenti di cui aveva orrore, e ai
quali preferiva l'oblìo. Scuoteva tristemente il capo, e quel
principe rinomato un tempo per il suo talento di poeta e di
calligrafo rimandava il messaggero con in mano un foglio bianco. A
poco a poco le comunicazioni con la capitale rallentarono; il ciclo
delle feste stagionali continuava a ruotare lontano dal principe che
una volta le dirigeva con un colpo di ventaglio, e Genji, abbandonato
senza ritegno alle tristezze della solitudine, aggravava sempre più
il suo male agli occhi perché non si vergognava più di piangere.
Due o tre delle sue antiche amanti gli avevano proposto di venire a
condividere il suo isolamento pieno di ricordi. Le lettere più tenere
provenivano dalla Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono: era
un'antica concubina di nascita non illustre e di mediocre bellezza;
aveva fedelmente servito come dama d'onore presso le altre spose di
Genji, e per diciott'anni aveva amato il principe senza stancarsi mai
di soffrire. Lui le faceva ogni tanto qualche visita notturna, e
questi incontri, benché rari come le stelle in una notte piovosa,
erano bastati a illuminare la povera vita della
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono. Non facendosi illusioni né
sulla propria bellezza, né sul proprio spirito, né sulla propria
nascita, la Signora, la sola fra tante amanti, conservava per Genji
una dolce riconoscenza poiché non trovava del tutto naturale che egli
l'avesse amata.
Restando senza risposta le sue lettere, affittò una modesta
carrozza e si fece portare alla capanna del principe solitario.
Spinse timidamente la porta di rami intrecciati; si inginocchiò, con
un'umile risatina che la scusasse di essere lì. In quel tempo Genji
riconosceva ancora il viso dei suoi visitatori se si avvicinavano
molto. Una rabbia amara lo colse davanti a quella donna che
risvegliava in lui i più stillanti ricordi dei giorni morti, non
tanto per via della sua presenza quanto perché le sue maniche erano
ancora impregnate del profumo che usavano le sue mogli defunte. Lei
lo supplicava tristemente di tenerla almeno come serva. Spietato per
la prima volta, Genji la cacciò, ma lei aveva conservato qualche
amico fra i vecchi che si occupavano del servizio del principe, e
talvolta costoro le facevano avere notizie. Crudele a sua volta come
non lo era mai stata in vita sua, lei sorvegliava di lontano il
procedere della cecità di Genji, come una donna impaziente di
raggiungere il suo amante aspetta che la sera sia del tutto scesa.
Quando lo seppe quasi del tutto cieco, si spogliò dei suoi vestiti
di città e indossò una casacca corta e rozza secondo l'uso delle
giovani contadine; si intrecciò i capelli alla maniera delle ragazze
dei campi; e si mise sulle spalle un fagotto di stoffe e di terraglie
del genere che si vende nelle fiere paesane. Conciata così, si fece
condurre nel luogo dove l'esule volontario abitava in compagnia dei
cerbiatti e dei pavoni della foresta; fece a piedi l'ultima parte
della strada perché il fango e la stanchezza l'aiutassero a
rappresentare bene la sua parte. Le piogge tenere della primavera
cadevano dal cielo sulla terra molle, e sommergevano gli ultimi
lucori del crepuscolo: era l'ora in cui Genji, ravvolto nel suo
stretto abito da monaco, passeggiava lentamente lungo il sentiero da
cui i suoi vecchi servitori avevano accuratamente scostato ogni
sassolino per impedirgli di inciampare. Il suo viso vacuo,
spassionato, offuscato dalla cecità e dalle avvisaglie della
vecchiaia, sembrava uno specchio brunito che avesse un tempo riflesso
la bellezza, e la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono non ebbe
bisogno di fingere per mettersi a piangere.
Questo rumore di singhiozzi femminili fece sussultare Genji. Si
orientò lentamente dal lato di dove provenivano quelle lacrime.
- Chi sei, donna? disse con inquietudine.
- Sono Ukifune, la figlia del fattore So-Hei, disse la Signora non
dimenticando di adottare l'accento del villaggio. Sono andata in città
con mia madre per comperare stoffe e marmitte perché mi sposano alla
prossima luna. Ma ecco che mi sono smarrita nei sentieri della
montagna, e piango perché ho paura dei cinghiali, dei demoni, del
desiderio degli uomini e dei fantasmi dei morti.
- Tu sei tutta bagnata, fanciulla, disse il principe posandole una
mano sulla spalla.
Infatti era fradicia fino alle ossa. Il contatto di quella mano così
nota la fece vibrare dalla punta dei capelli all'alluce del piede
nudo, ma forse Genji credette che tremasse per il freddo.
- Vieni nella mia capanna, riprese il principe con voce invitante.
Potrai scaldarti al mio fuoco, anche se ci sono più ceneri che
carbone.
La Signora lo seguì, preoccupandosi di imitare l'andatura goffa di
una contadina. Si accovacciarono davanti al fuoco morente. Genji
tendeva le mani verso il calore, ma la Signora dissimulava le dita,
troppo delicate per una ragazza dei campi.
- Sono cieco, sospirò Genji un momento dopo. Non farti scrupoli e
togliti i vestiti bagnati, ragazza. Scaldati nuda davanti al mio
fuoco.
La Signora si tolse docilmente l'abito da contadina. Il fuoco
coloriva il suo corpo esile che sembrava intagliato nella più pallida
delle ambre. All'improvviso Genji mormorò:
- Ti ho ingannata, fanciulla, perché non sono ancora del tutto
cieco. Ti intuisco attraverso una nebbia che forse non è che l'alone
della tua bellezza. Lascia che posi la mano sul tuo braccio che trema
ancora.
E' così che la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono ridivenne
l'amante del principe Genji che per più di diciott'anni aveva
umilmente amato. Non dimenticò di imitare le lacrime e le timidezze
di una fanciulla al suo primo amore. Il suo corpo era rimasto
mirabilmente giovane, e la vista del principe era troppo debole per
permettergli di distinguere qualche capello grigio.
Quando le loro carezze furono finite, la Signora si inginocchiò
davanti al principe e gli disse:
- Ti ho ingannato, Principe. Sono Ukifune, sì, la figlia del
fattore So-Hei, ma non mi sono affatto smarrita nella montagna. La
gloria del principe Genji è giunta fino al villaggio, ed è di mia
spontanea volontà che sono venuta, per scoprire l'amore fra le tue
braccia.
Genji si alzò barcollando, come un pino che vacilli sotto l'urto
dell'inverno e del vento. Gridò con voce sibilante:
- Disgrazia a te, che sei venuta a riportarmi il ricordo del mio
peggiore nemico, il bel principe dagli occhi vivi che con la sua
immagine mi tiene sveglio ogni notte... Vattene...
E la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si allontanò,
rimpiangendo l'errore che aveva appena commesso.
Durante le settimane che seguirono, Genji restò solo. Soffriva. Si
accorgeva, scoraggiato, di essere ancora avvolto nelle illusioni di
questo mondo, e pochissimo preparato agli scorticamenti e alle
epifanie dell'altra vita. La visita della figlia del fattore So-Hei
aveva risvegliato in lui il gusto delle creature dai polsi stretti,
dai lunghi seni conici, dal riso patetico e docile. Da quando stava
diventando cieco, il senso del tatto restava il suo solo modo di
aderire alla bellezza del mondo, e i paesaggi in cui era venuto a
rifugiarsi non gli dispensavano più alcuna consolazione. Il fruscìo
di un ruscello, infatti, è più monotono della voce di una donna, e i
pendii delle colline o le striature delle nuvole sono fatti per chi
può vedere, e planano troppo lontano da noi per lasciarsi
accarezzare.
Due mesi più tardi la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono
fece un secondo tentativo. Questa volta si vestì e si profumò con
cura, ma badò bene che il taglio delle stoffe avesse qualcosa di
meschino e di timido nella sua stessa eleganza, e che quel profumo
discreto, ma banale, suggerisse la mancanza di immaginazione di una
giovane proveniente da un onorevole strato della provincia, e che non
ha mai visto la corte.
Per l'occasione ingaggiò dei portatori e una portantina
ragguardevole che tuttavia mancava delle ultime raffinatezze
cittadine. Fece in modo di arrivare nei dintorni della capanna di
Genji soltanto in piena notte. L'estate l'aveva preceduta nella
montagna. Genji, seduto ai piedi dell'acero, ascoltava il canto dei
grilli. La Signora si avvicinò a lui nascondendo a metà il viso
dietro il ventaglio e mormorò tutta confusa:
- Sono Sciujo, la moglie di Sukazu, un nobile di settimo rango
della provincia di Yamato. Sono partita per il pellegrinaggio al
tempio di
Ise, ma uno dei miei portatori si è storto un piede, e io non posso
continuare la strada prima dell'aurora. Indicami una capanna dove io
possa passare la notte senza temere calunnie, e far riposare i miei
servi.
- Dove, se non nella casa di un vecchio cieco, può essere meglio al
riparo delle calunnie una giovane donna? disse amaramente il
principe. La mia capanna è troppo piccola per i tuoi servi, che
dormiranno sotto quest'albero, ma a te io cederò l'unico materasso
del mio eremo.
Si alzò e camminando a tastoni le indicò la strada. Nemmeno una
volta aveva alzato gli occhi su di lei, e da questo segno ella
riconobbe che era completamente cieco.
Quando si fu distesa sul materasso di foglie secche, Genji andò
malinconicamente a sedersi sulla soglia della capanna. Era triste, e
non sapeva nemmeno se quella giovane fosse bella.
La notte era calda e chiara. La luna stendeva un chiarore sul viso
alzato del cieco, che sembrava scolpito in una candida giada. Dopo un
po' la signora lasciò il suo giaciglio forestiero e a sua volta venne
a sedersi sulla soglia. Disse con un sospiro:
- La notte è bella, e io non ho sonno. Permettimi di cantare una
delle canzoni di cui trabocca il mio cuore.
E senza aspettare risposta cantò una romanza che il principe aveva
cara per averla tante volte sentita dalle labbra della sua moglie
preferita, la principessa Violetta. Genji, turbato, si avvicinò
insensibilmente alla sconosciuta:
- Di dove vieni, giovane donna che conosci le canzoni care alla mia
giovinezza? Arpa in cui vibrano arie di un altro tempo, lasciami
passare la mano sulle tue corde.
E le carezzò i capelli. Dopo un po' le domandò:
- Ahimè, certo tuo marito sarà più bello e più giovane di me,
giovane donna del paese di Yamato.
- Mio marito è meno bello e sembra meno giovane, rispose
semplicemente la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono.
E così, sotto un nuovo travestimento, la Signora divenne l'amante
del principe Genji, al quale un tempo era appartenuta. Al mattino lo
aiutò a preparare una pappa calda, e il principe Genji le disse:
- Sei abile e tenera, giovane donna, e credo che nemmeno il
principe Genji, che è stato tanto felice in amore, abbia avuto
un'amante più dolce di te.
- Non ho mai sentito parlare del principe Genji, disse la Signora
scuotendo la testa.
- Come! esclamò amaramente Genji. E' stato dimenticato così presto?
E restò cupo per l'intiera giornata. La Signora capì allora di aver
fatto un secondo passo falso, ma Genji non accennava a mandarla via,
e sembrava felice di ascoltare il fruscìo del suo vestito di seta
nell'erba.


Arrivò l'autunno e trasformò gli alberi della montagna in
altrettante fate vestite di porpora e d'oro, ma destinate a morire
con i primi freddi. La Signora descriveva a Genji quei bruni grigi,
quei bruni dorati, quei bruni lilla, badando a non alludervi che per
caso, e ogni volta evitava di ostentare l'aiuto che gli recava.
Deliziava ogni giorno Genji inventando complicate collane di fiori,
pietanze raffinate per troppa semplicità, nuove parole che si
adattavano a vecchie arie struggenti e sofferte. Aveva già dispiegato
gli stessi fascini nel suo padiglione di quinta concubina, dove Genji
talvolta le faceva visita. Ma lui, distratto da altri amori, non se
n'era accorto.
Alla fine dell'autunno le febbri salirono dalle paludi. Gli insetti
pullulavano nell'aria ammorbata, e ogni respiro pareva una sorsata
presa a una sorgente avvelenata. Genji si ammalò e si distese sul suo
letto di foglie morte, convinto ormai di non rialzarsi più. Davanti
alla Signora si vergognava della propria debolezza e delle cure
umilianti a cui lo costringeva la malattia, ma quell'uomo che per
tutta la sua vita aveva cercato ciò che c'è insieme di più unico e di
più straziante in ogni esperienza, non poteva che apprezzare quanto
una simile intimità nuova e miseranda poteva aggiungere fra due
esseri alle intime dolcezze dell'amore.
Un mattino in cui la Signora gli massaggiava le gambe, Genji si
sollevò sul gomito, e cercando a tastoni le mani della Signora,
mormorò:
- Giovane donna che curi chi sta per morire, io ti ho ingannata. Io
sono il principe Genji.
- Quando sono venuta da te, non ero che una provinciale ignorante;
disse la Signora, e non sapevo chi fosse il principe Genji. Ora so
che è stato il più bello e il più desiderato degli uomini, ma tu non
hai bisogno di essere il principe Genji per essere amato.
Genji la ringraziò con un sorriso. Da quando i suoi occhi tacevano,
sembrava che lo sguardo gli vagasse sulle labbra.
- Sto per morire, disse con fatica. Non mi lamento di un destino
che condivido con i fiori, con gli insetti, con gli astri. In un
universo dove tutto passa come un sogno, non ci perdoneremmo di
durare sempre. Non mi addolora che le cose, gli esseri e i cuori
siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza è fatta
di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici. Un tempo,
la certezza di ottenere in ogni istante della mia vita una
rivelazione non destinata a rinnovarsi, rappresentava il fiore dei
miei segreti piaceri. Ora io muoio pieno di vergogna, come un
privilegiato che abbia assistito da solo a una festa sublime data una
volta sola. Cari oggetti, voi non avete più per testimone se non un
cieco che muore... Saranno in fiore altre donne, sorridenti come
quelle che io ho amato, ma il loro sorriso sarà diverso, e il neo che
mi ispirava tanti slanci si sarà spostato per lo spessore di un atomo
sulla loro guancia d'ambra. Altri cuori si spezzeranno sotto il peso
di un amore insopportabile, ma le loro lacrime non saranno le nostre
lacrime. Mani umide di desiderio continueranno a intrecciarsi sotto i
mandorli in fiore, ma la stessa pioggia di petali non si sfoglia mai
due volte sulla stessa felicità umana. Ah, mi sento simile a un uomo
trascinato da un'inondazione, che voglia almeno trovare un angolino
di terra asciutta per affidargli qualche lettera ingiallita e qualche
ventaglio dalle sfumature sbiadite... Che ne sarà di te, quando non
sarò più qui a intenerirmi sul tuo ricordo, Principessa Azzurra, mia
prima moglie, al cui amore non ho creduto che il giorno dopo la tua
morte? E tu, ricordo desolato della
Signora-del-Padiglione-delle-Campanule, che sei morta nelle mie
braccia perché una rivale gelosa pretendeva di essere sola ad amarmi?
E voi, ricordi insidiosi della mia troppo bella matrigna e della mia
troppo giovane sposa, occupate volta a volta a insegnarmi quanto si
soffra a essere il complice o la vittima di un'infedeltà? E tu,
ricordo sottile della Signora Cicala-del-Giardino che si eclissò per
pudore, tanto che io dovetti consolarmi con il suo giovane fratello,
il cui viso infantile rifletteva ogni tratto di quel timido sorriso
di donna? E tu, caro ricordo della Signora-della-Lunga Notte, che sei
stata tanto dolce, e che consentisti a essere soltanto la terza nella
mia casa e nel mio cuore? E tu, povero piccolo ricordo pastorale
della figlia del fattore So-Hei, che in me non amava che il mio
passato? E tu soprattutto, tu, ricordo delizioso della piccola Sciujo
che in questo momento mi massaggi i piedi e che non avrai il tempo di
essere un ricordo? Sciujo, che avrei voluto incontrare più presto
nella mia vita, ma è anche giusto che all'estremo autunno sia
riservato un frutto...
Ebbro di tristezza, lasciò ricadere la testa sul duro cuscino. La
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si curvò su di lui e
tremando tutta mormorò:
- Non c'era un'altra donna nel tuo palazzo, una di cui non hai
pronunciato il nome? Non era dolce? Non si chiamava per caso la
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono? Ah, cerca di ricordare...
Ma già i tratti del principe Genji avevano assunto quella serenità
che soltanto ai morti è riservata. La fine di ogni dolore aveva
cancellato dal suo viso ogni traccia di sazietà o di amarezza, come
se l'avesse convinto di avere ancora diciott'anni. La
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si buttò a terra urlando
contro ogni ritegno; le sue lacrime salate le devastavano le guance
come una pioggia tempestosa, e i suoi capelli strappati a manciate
volavano via come borra di seta. Il solo nome che Genji avesse
dimenticato, era precisamente il suo.



Novelle orientali,Marguerite Yourcenar

1 commento:

  1. Bellissima la parte centrale del racconto, quando il principe narra i suoi ricordi.
    Lo stile della Yourcenar rende tutto pieno attraverso parole che lo stile impeccabile fa diventare pregne di immagini e di significati profondi.

    Ma, alla fine, la morale del tutto qual è?

    E' l'amore il vero cieco? è l'amore quel dare sè stessi sempre e comunque senza aspettarsi nulla, nemmeno che l'amato ricordi il nostro nome?

    O la cecità dell'amore è nella sua stupidità, e ingratitudine, e dimenticanza, ed egoismo.

    Scriveva Dante: Amor, ch'a nullo amato amar perdona..nel senso: nessuno può permettersi di non ricambiare l'amore che gli viene donato.

    Aveva ragione?

    Meritava il principe le attenzioni perpetue ed eterne della Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono?

    Perso nei ricordi inutili di ciò che ha avuto in gioventù, non si cura di ciò che ha ora che è arrivato ai suoi ultimi anni e alla fine muore,senza saperlo, tra le braccia dell'unica donna che lo ha amato davvero.

    La toria di due persone che si incontrano e che, per motivi opposti, condannano sè stessi ad una eterna infelicità.

    E' questo, l' amore?

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