lunedì 23 agosto 2010
Mostre
Millecinquecento morti, quattro milioni in fuga dai villaggi sommersi, un quinto del Pakistan inondato da pioggie monsoniche eccezionali. L’allarme umanitario diventa anche una minaccia politica: la disastrosa inefficienza del governo pachistano trasforma la calamità naturale in un’occasione per l’ulteriore avanzata del fondamentalismo islamico. Anche in Cina l’estate si chiude sotto il segno di una tragedia, milletrecento morti solo nella provincia del Gansu per i violenti nubifragi, straripamenti e alluvioni. Sono due esempi recenti della potenza distruttiva dell’acqua scatenata da fenomeni climatici estremi. Cina e Pakistan, con altre nazioni asiatiche che hanno il 40% della popolazione mondiale, dipendono dalle stesse riserve idriche primordiali. Cioè i ghiacciai del Tibet. Dalle vette dell’Himalaya nascono tutti i grandi fiumi dell’Asia, il più occidentale diventa l’Indus, il più orientale il Fiume Giallo. In mezzo ci sono i due fiumi sacri dell’induismo, Gange e Brahmaputra. I due fiumi dell’Indocina, Mekong e Irrawady. Lo Yangze che traversa tutta la Repubblica Popolare fino a Shanghai. Sono i maestosi corsi d’acqua che hanno alimentato le civiltà più antiche nella storia dell’umanità. Oggi possono rivoltarsi contro di noi. O semplicemente abbandonarci e sparire, come in ampi tratti della Cina ha fatto il Fiume Giallo. Inaridito, sterile.
Troppo pieni o troppo secchi, all’origine delle convulsioni dei fiumi asiatici c’è una causa comune, è lo scioglimento e la grande ritirata dei ghiacciai sull’Himalaya. Lo documenta un’importante esposizione fotografica all’Asia Society di New York, Rivers of Ice, “Fiumi di Ghiaccio”. E’ una mostra che farà il giro del mondo, andrà anche in Cina e in India, nella speranza di smuovere le classi dirigenti locali. La sua peculiarità: per la prima volta esibisce al pubblico le prove fotografiche, raccolte con rigore scientifico, che il cambiamento climatico sta provocando una forte riduzione nel volume dei ghiacciai tibetani. Dietro c’è un uomo straordinario, anzi due, che si “parlano” a un secolo di distanza. David Breashears, 55 anni, è il più celebre alpinista-fotografo americano. Dopo essere diventato una star acclamata anche a Hollywood, da anni si dedica a tempo pieno alla causa dei ghiacciai morenti in Tibet con la sua organizzazione Glacier Research Imaging Project. Il suo alleato di fatto è un italiano che lo precedette cent’anni fa, il padre nobile della fotografia alpina, Vittorio Sella. Dal dialogo ideale tra Breashears e Sella è nata questa operazione senza precedenti: il raffronto sistematico tra i ghiacciai dell’Himalaya come sono oggi, e come erano all’inizio del Novecento.
Incontro Breashears al suo ritorno a New York dopo una delicata missione in Cina. E’ andato a raccogliere fondi e a negoziare con le autorità, per rendere possibile una tournée dell’esposizione Rivers of Ice a Pechino, Shanghai e Shenzhen. “Il cambiamento climatico – mi dice – è un tema scottante e controverso nel mondo intero. Sappiamo quanto tempo è stato speso per rintuzzare gli attacchi dei negazionisti. Io non voglio entrare in contese politiche, mi limito a usare la forza delle immagini. L’impatto di queste fotografie è chiaro, non c’è bisogno di aggiungere un sovrappiù di polemica. L’acqua che scorre nelle pianure più popolose del pianeta è minacciata, i fiumi da cui dipende la sopravvivenza di due miliardi di persone oggi corrono un pericolo mortale. La spiegazione è tutta in queste foto. E senza il lavoro da pioniere di Vittorio Sella forse non avremmo mai potuto raggiungere una conclusione così chiara, o rappresentarla in modo così efficace”.
Breashears ha lasciato la sua impronta sulle vette più inaccessibili del pianeta. Primo americano a espugnare per due volte l’Everest, ci è tornato per un totale di otto volte ed ha anche realizzato la prima diretta televisiva della storia da quella cima. La passione congiunta per l’alpinismo e per la fotografia ne ha fatto un’autorità in campo cinematografico. Ha vinto quattro Emmy Awards, il più importante per il documentario “Everest” realizzato con la tecnica Imax. C’è la sua mano invisibile anche dietro alcuni grandi film commerciali: fu lui a guidare gli scalatori del film “Cliffhanger” con Sylvester Stallone e “Sette anni in Tibet” con Brad Pitt (sulla vita del Dalai Lama da giovane). Ha vissuto in presa diretta la più grande tragedia dell’alpinismo contemporaneo: interruppe le riprese del documentario “Everest” per partire in soccorso alla spedizione dove morirono otto dei più grandi scalatori mondiali nel 1996. Ma a un certo punto della sua vita alpinismo e cinema non gli sono bastati. “Ho conosciuto – dice Breashears – il grande alpinista inglese Sir Edmund Hillary e mi è rimasta scolpita una sua frase: ricordati che nella vita devi riuscire a fare qualcosa di più importante che scalare montagne. Lui ci è riuscito, nel Nepal lo ricordano non come rocciatore ma per gli ospedali che ha costruito”. Per Breashears l’occasione si presentò nel 2007, quando la rete tv americana Pbs gli chiese un servizio sull’impatto del cambiamento climatico nell’Himalaya. Una sfida doppiamente difficile sul piano tecnico. Da un lato perché occorreva restituire nelle immagini la profondità, lo spessore volumetrico di ghiacciai che si trovano in luoghi inaccessibili. D’altro lato era indispensabile trovare qualche traccia del passato dei ghiacciai, visibile e documentabile, comprensibile anche per un vasto pubblico. E’ qui che la “memoria italiana” è venuta in soccorso a Breashears. “Da ragazzo – ricorda – dopo i miei esordi in Colorado frequentavo regolarmente le Dolomiti ed ero già un ammiratore della grande scuola italiana di roccia: i Ragni di Lecco, i primi free-climber della storia, Riccardo Cassin, Walter Bonatti. Ma quando cominciai a imbattermi nelle opere di Vittorio Sella, nelle librerie antiquarie, scoprii un’altra dimensione. Sella era un vero artista dell’immagine, un genio dell’inquadratura, il maestro per molte generazioni di alpinisti-fotografi”.
Nato a Biella nel 1859 in una dinastia dell’industria tessile, iniziato all’alpinismo dal celebre zio Quintino (ministro delle Finanze dal 1862 al 1873), Vittorio Sella fu protagonista delle prime storiche imprese sull’Himalaya: con lo scalatore inglese Douglas Freshfield nel 1899, poi soprattutto con il Duca degli Abruzzi sul Karakorum nel 1909. Per Breashears la scoperta delle fotografie custodite a Biella dalla Fondazione Sella è stata una svolta. In quell’archivio del primo Novecento c’è l’elemento indispensabile, il punto di confronto. E’ una monumentale banca-dati sullo stato dei ghiacciai tibetani all’inizio del secolo scorso. Ripreso con una minuzia meravigliosa, da quello che Breashears definisce “un artista-scienziato”, ricco di sensibilità estetica, capace di una tenacia maniacale per raggiungere le postazioni più impervie da cui scattare foto “impossibili”. “L’anno scorso – racconta Breashears – sono stato sul Karakorum per rifare tre servizi fotografici esattamente dove li fece Sella. Un’impresa tremenda, gli sherpa erano spaventati, non capivano l’ostinazione con cui volevo raggiungere dei punti così pericolosi. Ogni volta che torno da una di queste spedizioni il mio rispetto per Sella aumenta. Lui e i suoi compagni avevano una preparazione da autodidatti, se paragonata all’addestramento di oggi. Avevano mezzi arcaici. Eppure riuscirono a fare cose di una difficoltà impressionante. A un profano che guardi con occhio distratto queste foto di ghiacciai può sfuggire l’immensa difficoltà per farle. E’ duro trovare la veduta giusta, che non sia ostruita da qualche montagna, che dia un’idea precisa della massa di ghiaccio. Nel mio lavoro ci sono tanti ostacoli da superare, bisogna trovare gli uomini adatti, i fondi per finanziarsi. Sella però me ne ha tolto uno: non ho bisogno di cercare la postazione giusta, basta che raggiunga il punto dove scattò lui, mi lascio guidare”.
Nel gioco di dissolvenza delle immagini che accoglie i visitatori della Asia Society, una grande distesa bianca immortalata da Sella lascia il posto a un’immagine di Breashears dove il candore delle nevi eterne si è rattrappito in altura, e dietro la sua via di fuga ha lasciato una lunga scia nera, una vallata di pietre e terra nuda che sembra una cicatrice oscena.
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