domenica 28 febbraio 2016

Cinema





Sembra di tornare ai tempi belli del cinema di Hong Kong dei '70 e '80, grezzo al limite dell'ignoranza ma dalla creatività inesauribile, quello che, con inequivocabile razzismo, talora metteva in scena gli inglesi (o gli occidentali in genere) come trogloditi dall'ignoranza ferina, di solito apostrofandoli come "diavoli". Immaginare qualcosa di simile mescolato a citazioni da nientemeno che Rocky IV non può che produrre risultati dal gusto ai limiti del trash, ma è anche di questa sana grevità che si nutre un progetto come quello della saga di Ip Man - maestro di Bruce Lee e reinventore dello stile di arti marziali Wing Chun - che giunge al secondo capitolo in un tripudio di duelli, risse ed esibizioni di abilità nelle arti marziali. E se i match della seconda metà del film tra il pugile inglese e i sifu di kung fu vanno visti nell'ottica succitata, la prima metà, incentrata sulla faticosa diffusione da parte di Ip Man del Wing Chun e dai duelli tra lui e gli altri maestri, appartiene allo stato dell'arte del genere.
Inutile dire che il clou è rappresentato dal duello tra Donnie Yen e Sammo Hung, non più giovanissimi (e nel caso di Sammo decisamente sovrappeso) ma ancora ineguagliabili per creatività e spettacolarità del proprio kung fu. Mentre impazzano le parate e le piroette di Donnie e Samo sul medesimo tavolo traballante tutto o quasi si ferma al loro cospetto; energia cinetica e astrazione spirituale trovano un connubio che letteralmente buca lo schermo. Wilson Yip non riesce né forse vuole rendere omogenee queste due anime distinte di Ip Man 2, scegliendo di procedere acriticamente nell'agiografia di Ip Man e di concedere quanto più possibile alle esigenze dello spettacolo action, tralasciando anche in questo caso ogni tipo di fedeltà nei confronti degli effettivi avvenimenti storici.
La saga di Ip Man continua e, con lei, la rinascita del cinema di arti marziali.


Emanuele Sacchi

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