giovedì 4 agosto 2011

Cinema


Gracie ha sedici anni, tre fratelli maschi e un padre che pensa solo al calcio. Quando il fratello Johnny, suo unico alleato in famiglia, muore improvvisamente in un incidente stradale, la ragazza decide di voler prendere il suo posto nella squadra di calcio del liceo e si sottopone ad un duro allenamento, osteggiata da tutti, in casa e fuori.
Il mio sogno più grande si basa su fatti realmente accaduti all'attrice Elisabeth Shue (qui nel ruolo della madre di Gracie) e a suo fratello Andrew, co-interprete e produttore; nasce dunque sulla spinta di una forte determinazione e di questa determinazione tratta, affidandosi alla grinta della giovane Carly Schroeder.
L'interpretazione degli attori è il punto di luce del film, poiché supera e riscatta i limiti della sceneggiatura rendendola guardabile, ma quando la prima sequenza fa già prevedere il finale, il problema non è da poco. Percorrendo una strada standard e lineare, qui si mira solo a raggiungere il "goal" e si perde completamente di vista la dinamica del gioco e lo spettacolo dovuto. Nessuno sforzo nell'intreccio, ma nemmeno il coraggio di far esplodere in superficie i confronti tra i personaggi della famiglia, che sono quanto di meglio il film riesce a far intuire.
Nella sua personalissima elaborazione del lutto, prendendo il posto del fratello per avere l'attenzione che non ha mai avuto, Gracie non aiuta solo se stessa ma dà un motivo per continuare a vivere al padre e, facendosi problema, tiene unita la famiglia nel momento in cui la disintegrazione è pericolosamente prossima. Se gli attori non ci mettessero del loro, in particolare "papà" Mulroney, tutto ciò si risolverebbe in qualche battuta scandita senza sottotesti, come un comunicato stampa, e nel doloroso (per gli spettatori) slogan, per cui basta volerla intensamente e ogni cosa diventa possibile.
Nel pieno rispetto di una storia che probabilmente ha avuto per i suoi autori il significato necessario e terapeutico che ha per la protagonista della finzione, resta il fatto che la pellicola di Davis Guggenheim (marito della Shue), malauguratamente sceneggiata da due donne (Lisa Marie Petersen e Karen Janszen), butta alle ortiche decenni di femminismo. Se in Sognando Beckham il calcio era la metafora che celava la vera posta in palio, cioè l'integrazione, qui si corre terra terra, senza un salto né una rovesciata (di senso) e l'ambientazione fine anni Settanta non è di scusa.
Gracie lotta con tutte le sue forze per prendere il posto di un uomo, venir trattata in tutto e per tutto come un uomo, imparare a prenderle e a darle (!), e mai nessuno, mentre il copione si avvia verso il suo (troppo) naturale epilogo, si sogna di sottolineare che il suo essere donna fa la differenza, oltre che il film.

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