mercoledì 2 giugno 2010
Accadimenti
E NEI LAGER NAZISTI PRESE SADICA
FORMA L'ODIO CONTRO LA DONNA
di STEFANIA MAFFEO
Cancellare dal mondo gli ebrei, questo era l'obiettivo dei nazisti, uomini o donne che fossero e tutti, nell'indicibile orrore dello sterminio, seguirono lo stesso percorso di fame, sfruttamento e morte. Tuttavia riflettere sulla peculiarità delle sofferenze e delle sopraffazioni patite da uomini e donne può aiutarci a superare il neutro della testimonianza ed a comprendere le differenti traiettorie esistenziali di individui segnati da una diversa educazione
da diversi ruoli sociali, da diversi modi di percepire ed affrontare la separazione,
l'umiliazione, la perdita. L'intento è di esplorare gli aspetti della specificità della deportazione femminile, sia in Italia che in Europa: non per affermare un di più di dolore e di sofferenze, ma per dare conto di un'esperienza in parte diversa, risolutiva, per ampliare la conoscenza dei percorsi di sopravvivenza e di morte possibili nell'universo concentrazionario, paradigma compiuto del totalitarismo nazista. Sono percorsi molteplici e sfaccettati: le madri separate dai figli; le figlie deportate insieme alle madri, con cui condividono le sofferenze del lager e l'impossibilità di aiutarsi; le articolazioni della solidarietà e la durezza dei rapporti anche fra prigioniere; le donne che divengono madri in lager e vedono assassinare o far morire di stenti i figli; le vittime degli esperimenti chirurgici; i mille modi per sopravvivere e resistere affermando con ogni strumento culturale la propria dignità di esseri umani, anche in forme apparentemente minime; le difficoltà e l'importanza delle testimonianze delle deportate.
Giuliana Fiorentino Tedeschi ci ricorda che "la letteratura di testimonianza è stata prodotta quasi tutta da uomini, mentre le donne hanno parlato poco delle proprie esperienze. Forse per questo motivo si è ingenerata e diffusa l'opinione che le deportazioni maschili e femminili possano combaciare e anzi addirittura sovrapporsi"1. Di alcune, la loro storia ci è giunta postuma, mentre altre sono riuscite a trasmettere di persona la loro esperienza. Racconti al femminile dunque, perché ci aiutano a immaginare i diversi modi nei quali gli uomini e le donne risposero all'assalto nazista. Perché l'esperienza di donne in condizioni di estrema vulnerabilità rivela il loro coraggio, il loro apporto alla resistenza armata nei ghetti, la peculiarità delle loro sofferenze. Perché fu una donna che dal campo di Westerbork, prima di entrare "per sempre" ad Auschwitz, scrisse "Trovo bella la vita e mi sento libera"2. Sulla memorialistica della deportazione dall'Italia, soltanto venti su centoquarantanove sono opere di donne. Ad una lettura superficiale, le testimonianze delle donne sopravvissute alla deportazione potrebbero sembrare del tutto uguali o molto simili a quelle maschili. Tuttavia ciò non è assolutamente, in quanto la natura stessa delle donne è diversa da quella degli uomini, soprattutto perché si parla di generazioni che sono cresciute nella società fortemente patriarcale del regime fascista.
Il riconoscimento della diversità delle due nature è testimoniato da un Convegno Internazionale tenutosi a Torino, il 20 e 21 ottobre 1994, dal Consiglio regionale del Piemonte e dall'Aned, seguiti poi da altri simili in altre città italiane. Nella relazione introduttiva di Anna Bravo si legge: "Essere prigioniere vuole dire dover esporre in pubblico, a sguardi aguzzini, corpi abituati dal costume di cinquanta anni fa ad un pudore rigoroso; vedere quelli di altre, magari anziane e restarne turbate, subire la violenza per poter sopravvivere, non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica. Vuol dire vivere con bambini destinati a sparire, con compagne che arrivano incinte in lager e si affannano per nutrire un figlio che verrà ucciso appena nato; scoprire nelle donne ed anche in se stesse una distruttività che non si sarebbe mai immaginata; subire, spinta all'estremo, una vita promiscua di cui non si ha alcuna esperienza, neppure quella che agli uomini viene dall'aver fatto il servizio militare e la guerra"3. Va sottolineato che, a quel tempo, una donna teneva più di oggi alla propria riservatezza fisica, alla cura del proprio corpo, perfino alla ricerca
estetica di armonia nel vestiario e non esibiva senza traumi la propria nudità.
E per tutte le donne ugualmente vittime, la disinfestazione (che avveniva, il più delle volte, con uno straccio imbevuto di petrolio) era uno degli eventi più umilianti; tutte nude in fila tremanti diventavano bersagli di sguardi sprezzanti, risate sfrenate, gara di sputi tra i soldati sui capezzoli, e, non di rado, oggetto di scherni con dei bastoni che frugavano i loro corpi. A tutto ciò si aggiungeva il rischio di essere messe da parte per una macchia sulla pelle, per un foruncolo, per l'età più visibile senza gli abiti, cose che all'arrivo, o durante le successive selezioni, comprese quelle del famigerato dott. Mengele, erano sfuggite agli sguardi affrettati. A parte la lotta per non morire, le donne, le più belle, le più giovani, rischiavano di essere selezionate per i bordelli. Qualcuna, le più disprezzate ed invidiate allo stesso tempo, sui luoghi di lavoro scomparivano all'improvviso e tornavano con uno scialle al collo, un paio di calzini di lana sui piedi congelati, o un paio di vecchi guanti sulle mani gonfie di gelo. La sopravvissuta Lina Saba Navarro, in un'intervista rilasciata per la Shoah Foundation di Steven Spielberg, accenna allo sfruttamento sessuale delle prigioniere ricordando che, durante il tragitto per andare al lavoro, vedeva dei blocchi che voci di campo dicevano essere la casa delle bambole, che servivano ai tedeschi per le donne.
Tutti possiamo immaginare la Donna, che ha appena subito sul suo corpo la violenza di mani estranee, a cui, con rasoi poco affilati, sono state depilate le parti intime, a cui è stato impresso un marchio sul braccio sinistro, che ha provato l'orrore del freddo metallico della macchinetta tosatrice sulla cute, ha visto le ciocche della sua capigliatura cadere morbidamente ai suoi piedi. Le mutande maschili non hanno elastici e cadono, le calze si ripiegano sulle gambe. Per la donna non c'è tregua, perché il flusso mestruale si ripropone e non esiste materiale per difendersi. Chi è fortunata trova in terra uno straccio, se è costretta a lavare le mutande, deve indossarle bagnate. Proprio l'apparato genitale femminile attraeva l'interesse dei criminali nazisti che si spacciavano per scienziati. Da giovani prigioniere (anche diciottenni) e donne maritate si prelevavano campioni di tessuto dell'utero per essere in grado di giungere a diagnosi tempestive di eventuali tumori, con raggi X si sterilizzavano le ovaie, si praticava l'isterectomia, si iniettava nell'utero un liquido, a detta dei medici sterilizzante, pratiche queste che dovevano servire a sterilizzare le razze inferiori. La sperimentazione disponeva di un numero inesorabile di "cavie" ebree, costrette a sottoporsi a dolorosi interventi chirurgici, prive di anestesia, o con anestesia insufficiente.
Ad Auschwitz uno dei più grandi "esperti" del campo, il professor Clauberg inventò un nuovo metodo per sterilizzare le donne senza sottoporle ad intervento chirurgico o all'azione dei raggi X,praticando una spruzzatina di un liquido sterilizzante, forse a base di nitrato d'argento commisto ad una sostanza radiologica di contrasto. A tutte le donne, infatti, dopo la sterilizzazione. veniva praticata una radiografia. Questa "spruzzatina" veniva operata direttamente sul collo dell'utero, nel corso di una visita ginecologica apparentemente innocua. Questo metodo provocava dolori intensissimi ed emorragie diffuse ai genitali. Le detenute gridavano diperatamente. Una volta scese dal lettino dove avevano subito il piccolo intervento sterilizzante, le donne, sotto la minaccia di venire uccise all'istante, dovevano camminare diritte e uscire cantando dalla baracca. Avevano l'ordine categorico di non parlare di quanto accaduto con le compagne. Il giorno seguente, sempre perdendo sangue, queste donne erano costrette ad essere presenti agli appelli, ciascuno dei quali durava due/tre ore, all'alba e al tramonto, durante i quali, erano obbligate a rimanere in piedi. Molte morivano e venivano subito cremate. Le più gravi prima di partire, presagendo il loro destino, cercavano di lasciare qualche messaggio o almeno il loro nome alle compagne anziane ed a quelle che non dovranno essere sterilizzate.
Il metodo di Clauberg è senz'altro doloroso e per indurre una sterilizzazione definitiva deve essere praticato tre volte. Clauberg sembrava provare un vero e proprio piacere sadico quando sentiva le donne urlare, come emerso dalle testimonianze delle sopravvissute. Ma ad Auschwitz gli esperimenti di sterilizzazione non venivano condotti soltanto con il metodo ideato da Clauberg. Questo mostrava numerosi inconvenienti: i medici SS dovevano trattare numerosissime detenute che presentavano gravi infezioni. C'era una sezione nella quale la sterilizzazione veniva praticata con i raggi X. Le cellule germinative sono particolarmente sensibili ai raggi X. Basta infatti un'esposizione relativamente breve delle ovaie alle radiazioni per rendere una donna sterile. Le dosi devono essere però sufficientemente forti affinché la
funzione riproduttiva non sia bloccata solo temporaneamente.
Per assicurare una
sterilizzazione totale sono necessarie radiazioni notevolmente intense. Queste dosi naturalmente portarono alle donne reazioni collaterali, rappresentate da scomparsa di mestruazioni, disturbi metabolici, psichici, caduta di peli e capelli, ustioni cutanee. Ma ai medici SS poco importava: l'obbiettivo finale era stato raggiunto. Un altro esperimento, praticato sempre ad Auschwitz era quello per rallentare l'evoluzione del cancro e degli stadi precancerosi del collo uterino.
Ad ogni detenuta sospetta venivano fatti numerosi esami istologici e del sangue, radiografie e esami citologici della secrezione vaginale. Ad ognuna di esse poi, senza criteri ben precisi, veniva asportato il collo dell'utero. Altri chirurghi si "divertivano" a provocare aborti al sesto/settimo mese di gravidanza ed a praticare esperimenti per l'innesto di tessuto testicolare nelle donne. A Ravensbrück, con l'aiuto di controlli radiografici, si effettuavano esperimenti mediante: frattura delle ossa, prelievo di tessuto osseo sano o precedentemente infettato, innesto di tessuto sano o infettato, sia nelle mammelle che nelle gambe, per studiare gli effetti dei sulfamidici. Per quanto riguarda le ricerche sulle fratture ossee, i medici SS spezzavano con uno o più colpi di martello le ossa delle gambe della paziente. Riunivano poi i frammenti ossei all'osso cui appartenevano. Per quanto riguarda invece i prelievi di tessuto osseo, questi venivano eseguiti secondo il metodo abituale, solo che non di rado venivano asportati per esempio interi frammenti ossei dal perone5. Ben presto le donne si resero conto che quelle che andavano al revier (infermeria) venivano sottoposte a strane operazioni e che era difficile tornare alla baracca vive o totalmente sane. Le donne selezionate per gli esperimenti venivano ingannate dicendo loro che non andavano solamente a lavorare in una fabbrica. Quelle che si ribellavano venivano picchiate o direttamente gassate.
La categoria speciale di prigioniere su cui venivano compiute operazioni chirurgiche ed esperimenti cominciavano dal n° 5.000. Venivano designate nel lager col nome polacco di Krouki, che significava cavie umane. La loro baracca era designata con la sigla NN (Nacht und Nebel, ossia notte e nebbia). Questa sigla segreta compare nei documenti della Gestapo e delle SS accanto al nome di persone che dovevano essere eliminate e sulla cui sorte nessuno doveva sapere nulla. Dovevano scomparire dalla faccia della terra ed ogni loro traccia essere cancellata. Dovevano scomparire nella notte e nella nebbia. Ed ecco l'alimentazione: al mattino c'erano solo due bidoni di caffè per 800 persone, cosicché pochissimi riuscivano a prenderne. A mezzogiorno v'era una specie d'appello per poter distribuire la zuppa. Il rancio arrivava alle ore più disparate, dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, quindi non sapevano mai a che ora sarebbe avvenuta la distribuzione. Ogni cinque persone veniva data una gamella con un litro di minestra. Nessuno aveva un cucchiaio e così dovevano bere nella stessa ciotola, a sorsi. La zuppa era talmente disgustosa che i primi giorni molte donne non mangiarono.
Tutte le donne sopravvissute ad Auschwitz che lavoravano in cucina hanno affermato che una dottoressa SS metteva nelle caldaie un prodotto chimico, che dava alla zuppa un sapore acidulo e provocava nella bocca e poi nello stomaco e nei visceri un vivo senso di bruciore, prurito esterno al ventre, gonfiore e macchiette rosse, che avevano l'apparenza di piccole abrasioni rettilinee. A tutte si manifestò un arresto immediato delle mestruazioni5. Cercarono di sottrarsi perciò a questo tentativo di sterilizzazione operato da parte dei medici SS a scopo di esperimento, mangiando la minor possibile quantità di minestra, preferendo piuttosto alimentarsi di patate crude che riuscivano a sottrarre ai carri che le portavano in cucina. Le malattie più comuni nel lager erano: diarrea e dissenteria, in forme gravissime e spesso mortali. Quasi tutte avevano la bocca piena di sfoghi e la lingua crepata e solcata da tagli profondi, che impedivano perfino di mangiare. Tutte le donne sopravvissute sono concordi nel dichiarare che ciò era provocato dai prodotti chimici che venivano messi nella zuppa, perché mai in altri campi di concentramento il fenomeno si ripeté, per quanto malnutrite fossero. Le donne riuscivano però a tenersi più o meno pulite perché acquistavano il sapone, in cambio di pane, dagli uomini, i quali perciò erano molto più sporchi e pieni di pidocchi.
Nel lager femminile di Birkenau, dove erano rinchiuse sessantamila donne, c'erano tutte le gerarchie femminili. Le altre categorie di prigioniere - delinquenti comuni, prostitute, non parliamo delle politiche - avevano qualunque diritto sulle donne ebree. Le kapò erano prese tra le assassine delle carceri, tra quelle che avevano fatto le cose più atroci, in modo che potessero tranquillamente bastonare a morte una prigioniera che non obbedisse ciecamente agli ordini.
Al di sopra delle kapò c'erano le SS donne (ma solo poche di loro sono state
condannate dopo la guerra), che avevano stivaloni con un puntale di ferro, ufficialmente per non consumare la suola, ma, in realtà, per sferrare calci più violenti. Sarà stato terribile vedere che le efferatezze più straordinarie venivano compiute da donne su altre donne. A volte c'erano lager esclusivamente maschili o femminili. Un esempio di quest'ultimo tipo di campo è il lager di Ravensbrück, un villaggio prussiano posto in prossimità dell'antico luogo di cura di Fürstenberg, nel Mecklenburgo, a ottanta chilometri a nord-est di Berlino, zona fredda e paludosa, in riva al lago Schwed. A Ravensbrück, le SS, a partire dal Novembre 1938, fecero costruire il campo di concentramento femminile, impiegando per la costruzione i deportati del KZ (Konzentration lager) di Sachsenhausen. Esso fu l'unico grande lager in territorio tedesco destinato alla "detenzione preventiva" femminile.
Infatti, il lager, unico nell'universo concentrazionario ad essere popolato da sole donne e bambini, nasce come campo di rieducazione per l'isolamento delle "diverse", politiche, asociali, zingare, ladre, assassine, religiose. Ravensbrück è stato aperto ufficialmente il 18 maggio 1939 con 867 prigioniere di cui 860 tedesche e 7 austriache: politiche e testimoni di Geova e subito dopo arrivarono le zingare con i loro bambini. A ognuno di questi tre gruppi venne assegnato un blocco e furono contraddistinte con un triangolo colorato. Nella primavera del 1939 le prime 1000 detenute vennero trasferite dal KZ di Lichtenburg a quello di Ravensbrück, a cui nell'Aprile 1941 venne aggiunto anche un campo maschile. Alla fine di settembre, poco dopo l'invasione della Polonia, giunsero le prime prigioniere politiche polacche. Nell'aprile del 1940 le detenute sono già 3114 e ad agosto 4433; in questo periodo arrivarono anche i primi trasporti dalla Cecoslovacchia. Dal 1939 al 1945 vi furono imprigionate da centodieci a centoventimila donne di ogni nazionalità, spesso solo temporaneamente, in attesa di ripartire per destinazioni più lontane, in Kommando esterni. A partire dall'estate 1942, molto vicino a Ravensbrück, entrò in funzione il campo di concentramento giovanile di Uckermark. Il lager femminile stesso venne costantemente ingrandito aggiungendovi baracche su baracche ed anche una "sezione industriale", comprendente dei centri di produzione per attività propriamente femminili.
Nella zona adiacente al lager, la ditta Siemens & Halske nel 1942 fece costruire 20 capannoni industriali destinati al lavoro coatto delle detenute. Con il perdurare della guerra, da Ravensbrück derivarono più di 70 campi aggregati, diffusi in tutto il Reich. In essi le detenute prestavano la loro opera essenzialmente a profitto dell'industria bellica. Nel periodo 1939/1945, 132.000 donne e bambini, 20.000 uomini e 1.000 giovani del lager di Uckermark vi vennero registrati come detenuti. Decine di migliaia di donne vennero uccise, morirono di fame o furono vittime di esperimenti medici. Con l'avvenuta costruzione di una camera a gas nell'Aprile 1944, a Ravensbrück le SS uccisero in essa da 5.000 a 6.000 persone. Poco prima della fine della guerra, circa 7.500 detenute vennero portate in salvo in Svizzera ed in Svezia grazie all'intervento della Croce Rossa Internazionale e di quelle Svedese e Danese. Le decine di migliaia di donne rimaste vennero costrette dalle SS ad una "marcia della morte" verso nord-ovest. Il 30 Aprile 1945 l'Armata Rossa liberò le 3.000 detenute rimaste al campo per le gravi condizioni di salute. La liberazione non mise purtroppo termine alle sofferenze di donne, uomini e bambini; molti di loro morirono nelle settimane successive alla liberazione stessa. Ravensbrück era un campo di livello 1, cioè sottomesso ad un regolamento paragonabile a quello di Buchenwald e Dachau, molto meno micidiali di quello dei campi di livello 3, come Mauthausen, Auschwitz o Flossenburg.
A Ravensbrück, gli omicidi con il gas furono molto più limitati (del milione ad Auschwitz), circa diecimila vittime in tutto4. È vero, Ravensbrück era un campo di livello "basso", e per fortuna, vi fu "limitato" l'uso del gas, ma, secondo le testimonianze di persone che scrutarono i lager nazisti potendo abbracciarne globalmente la vista, i campi femminili non erano proprio da "basso" livello. A Ravensbrück, gli omicidi con il gas furono circa 10.000: da un lato le donne "pazze", poi, in due brevi serie ,le donne malate, quelle sfinite, le anziane e le ebree. La prima serie nel 1941-42 fece circa 1.600 vittime e la seconda all'inizio del 1945, 6.000. Le pazze erano rinchiuse nude in una stanzetta con il numero dipinto in viola sulla schiena. Periodicamente, quando arrivavano ad essere 50 o 60 venivano portate di notte fuori del campo ed uccise nella piccola camera a gas dello stabilimento psichiatrico del castello di Hartheim, in Austria, dove venivano gasati i malati civili del Reich. Alla fine del 1941 ed all'inizio del 1942, a Ravensbrück la selezione e le esecuzioni coinvolsero un ventaglio di donne molto più ampio, non più limitato alle malate mentali. Himmler aveva deciso di includere i suoi campi nell'Aktion T4 che consisteva nella selezione e soppressione di numerosi malati di mente degli ospedali psichiatrici del Reich. Queste vittime civili erano liquidate in piccole camere a gas installate in sei grandi ospedali psichiatrici ed istituti di eutanasia.
Il castello di Hertheim era uno di questi. Il gas utilizzato era l'ossido di carbonio. I medici psichiatrici furono inviati ad andare a fare il loro lavoro di smistamento nei campi di concentramento. Questa nuova Aktion portava il nome in codice di Aktion 14f13. Himmler esigeva 2.000 vittime per campo. A Ravensbrück, dove alla fine del 1941 c'erano solo circa 8.000 donne, il medico psichiatrico scelto per fare la selezione delle detenute da sopprimere ignorava che la centrale di Berlino aveva richiesto 2.000 vittime per campo e fu sorpreso quando gli fu imposta questa cifra, dal momento che aveva trovato solo 259 donne affette da disturbi mentali che comparivano sul formulario che gli era stato dato: "minorate mentali", "epilettiche", "invalide", "incurabili", "incontinenti". Egli aggiunse tranquillamente le tubercolotiche, le sifilitiche e, per raggiungere il numero, numerose ebree. Visto che la guerra all'est si prolungava, l'Aktion 14f13 fu interrotta nell'aprile 1943 per la richiesta di nuova manodopera. Solo le malate di mente continuarono ad essere soppresse. Da questa data numerosi furono i trasporti di donne e bambine che, da Ravensbrück, raggiungevano altri campi. Nell'estate del 1944 i campi sono sovrappopolati e nel lager femminile si diffuse il disordine, la liberazione sembrava vicina, la vigilanza delle prigioniere si allentò. Dal gennaio del 1945 numerose furono le selezioni generali nelle quali le donne dovettero passare davanti al gruppo delle autorità del campo, il comandante, il lagerfuhrer, i medici SS e la capo infermiera.
Alla fine di ogni selezione, la "misera colonna del camino", come venivano chiamate le selezionate, si avviava verso lo Jugendlager dove venivano uccise. La sorvegliante dello Jugendlager, Ruth Meudeck, di 22 anni, saliva sui camion con le due infermiere SS che vi caricavano le donne da trasportare al crematorio. C'erano gli uccisori a dare il cambio. Erano sei o sette SS venute espressamente da Auschwitz. Il capitano SS di Ravensbrück Schwarzuber ha dichiarato al suo processo che era stata allestita una piccola camera a gas in una baracca degli attrezzi che si trovava a pochi metri dall'edificio del crematorio e che poteva contenere 150 persone. La gasazione si faceva con il Cyclon B, che era riversato nella camera a gas da un buco del tetto. Questo veleno era acido cianidrico fissato su alcune pietre porose contenute in barattoli metallici. Con il calore il gas si liberava. I corpi venivano poi bruciati. Da alcune testimonianze sappiamo che a Ravensbrück era stata installata un'altra camera a gas, costruita in muratura, nuova e moderna, dai segnali acustici e ottici, fatta poi saltare all'inizio di aprile dalle SS. Questa camera a gas era doppia, aveva una sala dove si spogliavano le vittime, il disimpegno in cui dovevano passare, la sala di dissezione per i medici ed il piano inclinato per far scivolare i corpi in uscita. Era situata all'esterno del campo, lungo il muro nord, dietro il Revier ed aveva il nome mimetizzato di neue Cascherei (nuova lavanderia).
Lord Russell ricorda che il campo fu meritatamente conosciuto dappertutto come "l'inferno delle donne"5; Hermann Langbein osserva: "Conformemente alla legge di Auschwitz - riservare ai più deboli la sorte più dura - le condizioni peggiori si trovavano nel lager femminile di Birkenau"6; e Rudolf Höss, comandante ad Auschwitz tra il 1940 e il 1943, scrisse: " per le donne ogni cosa era assai più dura, più oppressiva e più tremenda, perché le condizioni generali di vita erano assai peggiori nel campo femminile. Quei cadaveri ambulanti erano una visione orribile"7. Dalla testimonianza di una donna, Margarete Bober Neumann, una delle fonti più importanti ed attendibili per la conoscenza della storia di Ravensbrück, sappiamo che, inizialmente, il lager appariva come un luogo tranquillo, verde, quasi un "luogo di villeggiatura": il lagerplat ornato di aiuole fiorite, in direzione della porta del campo una baracca di legno, una grande gabbia con due pavoni, delle scimmie che facevano l'altalena sopra un portico e un pappagallo che ripeteva ininterrottamente "mamma" e poi dappertutto fiori, cascate di fiori. Ma, di fronte allo zoo, dopo un grande prato verde e seminascosto da pini argentati, vi era l'unica costruzione in muratura del campo: il bunker, l'inferno del lager, mimetizzato agli occhi dei visitatori e, oltre questo, l'alto muro di cinta con la corrente ad alta tensione.
Il campo non era così come sembrava: nel campo vigeva una disciplina ferrea, la vita si snodava all'insegna dell'ordine perfetto all'interno ed all'esterno delle baracche. Gli sgabelli ordinati a soldatini, i pavimenti puliti più volte al giorno, asciugamani piegati a regola, stoviglie riposte secondo l'ordinamento, letti rifatti a cubo, abbigliamento impeccabile con il vestito a righe grigio e blu, il fazzoletto bianco legato in un certo modo senza la fuoriuscita di un capello,un
grembiule blu che copre completamente il vestito blu perfettamente stirato,
andatura scattante, le braccia stese lungo il corpo durante gli appelli interminabili. Questo fu il periodo della rieducazione in cui ordine, lavoro, disciplina erano alla base di un buon processo rieducativo. Le detenute uscivano al lavoro dopo l'appello del mattino con la pala sulle spalle, allineate per cinque, con sorveglianti che urlavano ed i cani che abbaiavano, e tornavano alla sera ancora allineate per cinque dopo molte ore di lavoro nel bosco o nella sabbia a passo di marcia, cantando a squarciagola le canzoni idiote imposte dalle sorveglianti. Il tempo era scandito dalla sirena del lager: non un minuto era concesso per intrattenersi con le compagne, anche se, fin dal primo periodo, le detenute, quando in lager era suonato il silenzio, si raccoglievano e si riunivano per discutere. Ben presto però il lavoro rieducativo dei primi due anni si trasformò in lavoro produttivo: le detenute diventavano schiave e venivano vendute dalle SS alle industrie che ne facevano richiesta.
Nel giugno del '41 venne costruito all'interno del campo il primo stabilimento industriale per la confezione di divise militari destinate all'esercito tedesco: le industrie Hof. Lo stabilimento era di proprietà delle SS, che iniziarono a speculare e trarre profitto dalle detenute. Nello stesso periodo le detenute politiche tedesche iniziarono ad essere utilizzate negli uffici, per economizzare materiale umano utile in altri settori. In agosto scoppiò un'epidemia di poliomielite e le SS abbandonarono il campo lasciando le detenute sole ad autoamministrarsi: Ravensbrück venne messo in quarantena con la proibizione di entrare o uscire per chiunque. Centinaia di ammalate vennero isolate in blocchi circondati da filo spinato ed affidate alla cura di altre detenute. Il lavoro si bloccò per alcune settimane e le detenute godettero quasi di una semilibertà senza appelli, lavoro, fatiche, botte. A dicembre iniziarono, però, le prime selezioni di anziane, malate e invalide, che furono inviate a Buch ed a Bernburg per essere eliminate. In ottobre arrivò il primo grande trasporto di sovietiche. Nel gennaio del 1942 fu immatricolato il n 9643. Durante tutto quell'anno ci furono numerose esecuzioni capitali e cominciarono trasporti verso altri campi. Con la circolare Poul del 30 aprile i comandanti dei campi furono invitati ad aumentare la produzione senza tener conto degli orari e delle condizioni fisiche delle detenute.
Era il momento in cui Ravensbrück conobbe il maggior sviluppo. Il lager venne ingrandito con nuovi blocchi più grandi. Constava di 32 baracche, bunker, infermerie, alloggiamenti per le guardie, caserme, capannoni di stoccaggio, lavoratori vari; la ferrovia arrivava fino all'esterno del lager. Le deportate arrivavano da tutti i paesi europei occupati: Russia, Ucraina, Jugoslavia, Grecia, Francia, Belgio, Olanda, Danimarca e Norvegia. A ottobre immatricolarono il n 24588: oltre alle industrie presenti sul posto e nei vari Kommando dislocati nei dintorni, forniva manodopera a fabbriche dipendenti da altri campi, dove le condizioni di vita delle detenute erano veramente incredibili. È sufficiente ricordare a questo proposito la miniera di sale di Beemoore dove le donne lavoravano alla produzione di pezzi di aeroplani in una fabbrica sotterranea installata a 600 m sottoterra in una vecchia miniera di sale. I rappresentanti delle ditte che dovevano fornire materiale bellico entrarono nel campo e contrattarono con le SS il numero delle prigioniere che necessitavano alla loro fabbrica, controllarono sommariamente la salute fisica delle donne che furono fatte sfilare nude davanti a loro. Una volta stipulato il contratto, le "schiave" venivano avviate ai diversi sottocampi per essere più vicine alle fabbriche nelle quali avrebbero lavorato. La sistemazione nei campi più piccoli, anche se era quasi identica alla prima, creò un certo sollievo; non c'era più la torre del forno crematorio che, minaccioso e terribile, sovrastava il grande campo.
Per la maggior parte furono occupate nell'industria pesante, quindi era necessario che avessero mani e braccia forti e fossero in grado di maneggiare lamiere d'acciaio e di lavorare il ferro. E così per i primi giorni vennero inviate a tagliare legna nei boschi vicini in modo che le mani e le braccia si abituassero prima al lavoro ingrato che le attendeva. Chi era destinata ad usare attrezzi pesanti avrebbe dovuto, invece, reggere sulle braccia un certo numero di mattoni per ore e se il fisico non avesse retto, altre sarebbero subentrate a chi soccombeva. Le donne non conoscevano la lingua dei mestieri, non erano capaci di reggere gli attrezzi che venivano loro messi in mano, non ne conoscevano l'uso, eppure dovevano cercare di capire che cosa veniva loro assegnato. Il lavoro, di solito, veniva suddiviso in due turni, uno diurno di 10 o 12 ore e l'altro notturno, sempre di 12 ore. Prima di uscire dal campo le donne dovevano sottostare all'appello, poi spesso occorreva camminare per cinque in perfetto allineamento per tre o quattro km sotto la neve o l'acqua, perché non sempre la fabbrica era Nel corso del '44
il numero
di immatricolazione
crebbe a dismisura
fino ad arrivare,
nel mese
di dicembre,
al n. 91748
Malgrado tutto, queste donne
sapevano ritrovare la loro più completa umanità e malgrado sia per loro difficile capirsi per la diversità della lingua, riuscirono a coniare un linguaggio fatto di cenni e di parole astratte.
Si formò in questi lager una società pregna di solidarietà e pian piano si affermò una voglia mai sopita di ribellarsi e si ricorse al sabotaggio. Una testimone racconta: "Il sabotaggio l'abbiamo fatto un po' tutte per il gusto di farlo, per il gusto di andare contro la legge concentrazionaria. Si sabotavano le macchine rompendo un pedale, o tirando via una vite, poi magari si nascondeva il pezzo. Una volta lo facevo io, magari due ore dopo lo faceva un'altra e così minimo erano sempre tre macchine ferme per turno". Se queste donne fossero state sorprese sarebbero state accusate di sabotaggio e per loro era morte certa, ma lassù la vita aveva poco valore. Nell'ultimo anno le fabbriche, con l'avanzare dell'Armata Rossa dovettero cessare a poco a poco la loro attività e perciò non vi fu più alcuna necessità di operai, ma nei grandi campi il flusso di arrivi non cessò. C'era perciò una massa di donne che non lavorava, ma costava, che non poteva essere lasciata chiusa nei blocchi, ma doveva essere occupata e quanto più il lavoro era pesante, tanto più facilmente venivano eliminate. Il lavoro duro, la mancanza di sonno, la fame, la sporcizia, l'avitaminosi, il terrore annientò ben presto lo spirito ed il fisico di queste donne ed i monti di cadaveri davanti ai forni aumentarono, l'aria diventò irrespirabile per il fetore. Nel solo campo di Ravensbrück furono immatricolate 125.000 donne e di esse 92.000 perirono. Eppure il grande cancello di accesso al campo era sovrastato dalla scritta Arbeit macht frei, (il lavoro rende liberi).
Durante il corso del '44 il numero di immatricolazione crebbe a dismisura fino ad arrivare, nel mese di dicembre, al n 91748. Le donne erano schiacciate in uno spazio sovraffollato ed invivibile, perché le strutture, i servizi, i posti letto, rimasero quelli del 1942 al momento dell'ampliamento del lager. La percentuale delle prigioniere presenti in appello andava sempre più diminuendo a causa della grande mortalità. Le italiane furono l'ultima nazionalità ad arrivare: il primo trasporto formato da 14 donne giunse il 30 giugno 1944 da Torino; ad esse, al momento della partenza, fu detto che "sarebbero andate a lavorare in Germania". Questo costituì il momento in cui il campo esplose e l'ordine, la disciplina, la perfezione tedesca saltarono di fronte alla deportazione in massa ed alla limitata capacità di ricezione delle strutture. In campo le italiane non avevano compagne che potevano informarle sulle regole, sui pericoli ed anche sulle tecniche di sopravvivenza. Non conoscevano le lingue del lager: tedesco e polacco. Nessuno capiva l'italiano ma, soprattutto, nessuno voleva rispondere ad un'italiana che non si sa bene perché, per quale oscura ragione, fosse finita a Ravensbrück. Al primo trasporto di italiane fece seguito un secondo che arrivò il 5 agosto, proveniente da Verona con 50 deportate. Un terzo trasporto arrivò l'11 ottobre da Bolzano con circa 110 donne.
Le impressioni delle donne di tutti e tre i trasporti corrispondevano: lo smarrimento, lo sconforto di sentirsi non solo sottospecie umana, merce di proprietà esclusiva dei padroni SS, ma in più rifiutate all'inizio anche delle altre deportate, disperate come le italiane, ma senza l'etichetta vergognosa di essere state alleate e quindi complici dei nazisti. Le notizie sull'Italia, la caduta del fascismo, il capovolgersi della guerra non arrivarono fino a Ravensbrück, almeno non alla massa. A questo va aggiunto che le italiane arrivate a Ravensbrück non erano personaggi dell'antifascismo conosciuti a livello internazionale, con un nome da esibire come biglietto da visita, come successe, ad esempio, ad alcuni deportati in certi lager maschili. Ad eccezione di Teresa Noce, nessuna aveva un passato eroico per essere accolta fra le grandi politiche del campo, quelle che avevano potere, godevano rispetto e fiducia. Le italiane appartenevano agli strati sociali più diversi: c'erano antifasciste con anni di militanza clandestina alle spalle, partigiane arrestate durante i rastrellamenti, staffette denunciate dalle spie, ma c'erano anche moltissime donne prese in ostaggio al posto dei fratelli, dei mariti, dei figli, ricercati per attività clandestina.
C'erano interi nuclei familiari: madri e figlie, sorelle, anche donne arrestate senza motivo; c'erano ebree, operaie, insegnanti, poche borghesi, molte casalinghe. Erano per la maggioranza donne robuste, ben sfruttabili per lavorare. Queste italiane che provenivano da estrazioni sociali e culturali diverse, che raramente avevano una formazione politica alle spalle, ma soltanto come unico elemento di coesione l'avversione, l'odio nei confronti dei nazisti e dei fascisti che le avevano arrestate e spesso torturate, queste italiane trovarono forza di reagire, di non lasciarsi andare, di resistere alla disumanizzazione. Impararono il numero a memoria, gli ordini in tedesco ed in polacco, impararono a muoversi, a difendersi, svilupparono le tecniche di sopravvivenza, si passarono i consigli e le informazioni necessarie per non cadere nelle trappole delle corvées più pesanti o dei Kommando più faticosi, impararono a sfuggire alle sorveglianti, si strinsero insieme, svilupparono un rapporto di grande solidarietà, tipico delle piccole minoranze, e non si lasciarono schiacciare.
nei blocchi,
ci furono
dei parti
clandestini
fino all'autunno
del 1944
Nessuna di loro
arriverà ad avere in campo un posto buono, un posto importante, ma, nonostante la loro condizione, resistettero. Ci fu, in quella situazione estrema, una grande solidarietà. Maturarono nel lager una coscienza democratica. Altri cinque trasporti arrivarono tra il novembre del '44 ed il gennaio del '45, ma di quelli non abbiamo molte notizie.
Questo fu anche il periodo in cui nel lager ormai regnava il caos; iniziò la terza fase: Ravensbrück divenne campo di sterminio. Le anziane furono selezionate e mandate in un campo esterno per essere eliminate. Venne costruito un secondo forno crematorio e allestita la camera a gas. La popolazione femminile diminuì sempre più: in marzo all'appello risultavano 37699 donne, a metà aprile solo 11.000. E, mentre la macchine di morte funzionavano a pieno ritmo, le SS vennero a patti con i vincitori, liberarono le norvegesi, danesi, alcune francesi, poi le belghe e le olandesi. Il 26 aprile, ad eccezione di alcune centinaia di donne gravemente malate, le ultime deportate rimaste in lager (russe, jugoslave, ungheresi, italiane, polacche) nella notte dovettero affrontare l'evacuazione. Nessuna aveva più la forza di gioire della liberazione dopo quegli ultimi giorni d'inferno. Ravensbrück fu liberato il 30 aprile dai Russi. Dopo la liberazione, le italiane rimasero sul territorio tedesco per più di quattro mesi prima di rientrare in Patria6. I capi della polizia il 6 maggio 1943 avevano decretato che nei campi di concentramento femminili non dovevano esserci donne incinte, né parti. Ciononostante, diverse testimonianze attestano che nei campi dell'est molti neonati furono uccisi alla nascita a Ravensbrück.
Le donne tedesche non ebree andavano a partorire nelle maternità all'esterno del campo. Negli altri casi, o i medici SS del Revier procedevano a degli aborti, anche in casi di gravidanze avanzate, senza la minima norma igienica, oppure i neonati venivano strangolati o annegati appena nati. A Ravensbrück ci furono dei parti clandestini nei blocchi fino all'autunno del 1944, ma i bambini non avevano alcuna possibilità di sopravvivere. A partire dal settembre '44 Marie Josè de Lauwe, deportata francese, si occupò dei neonati, che dovevano essere mantenuti in vita. La Kinderzimmer, la camera dei bambini, era una piccola stanza situata in un blocco per le ammalate. I bambini erano molto sporchi perché potevano essere cambiati raramente. Assumevano in fretta l'aspetto di vecchi. Ogni giorno il loro numero aumentava perché numerosi convogli di donne e bambini arrivavano per l'evacuazione di campi e prigioni a causa dell'avanzata degli Alleati. In mezzo a loro si trovavano le donne incinte che partorivano in una stanzetta del revier in condizioni disumane. I neonati venivano subito portati alla Kinderzimmer, vestiti con un camicino, un pannolino ed avvolti in uno scialle. Avevano un solo pannolino di ricambio. Molte donne organizzavano la solidarietà nel campo raccogliendo stracci e panni per poter cambiare i neonati.
Alcune madri cercavano di rubare un po' di carbone dal lavoro perché il calore nella stanza era totalmente insufficiente. Per le madri la vita quotidiana e la morte dei loro bambini furono atroci. La giornata iniziava molto presto con una poppata prima dell'appello. Quelle che non avevano latte, ed i casi erano molto frequenti vista la loro alimentazione, nutrivano i loro figli con una miscela di latte e semola, accettabile solo dai più grandi. Quasi tutti i bambini morivano però prima di raggiungere i tre mesi. La solidarietà nel campo aiutò a procurare nuove bottigliette da utilizzare come biberon e molte madri che avevano ancora latte dopo la morte dei loro bimbi allattavano altri neonati. Quando le madri morivano, le infermiere adottavano i loro bambini. Le nascite e le morti dei bambini erano annotate in un Geburtenbuch, registro delle nascite. Alla liberazione, in base alla mortalità media e ai posti occupati dai neonati alla Kinderzimmer la dr. Marie Josè Gombart de Lauwe dice di aver stimato più di 800 bambini nati e quasi tutti morti a Ravensbrück. La cifra, presa dal registro delle nascite, è di 509 nomi di madri che hanno partorito al campo dal 19 settembre 1944 al 22 aprile 1945. Ogni bambino riceveva un numero.
A Birkenau, negli anni '42-'43, le donne incinte venivano ammazzate, mentre, in seguito, potevano partorire e continuare a lavorare: il bimbo veniva soppresso con iniezioni di fenolo o soffocato in una tinozza d'acqua e quindi bruciato in una stufa. Più di una volta le SS mettevano i bambini dentro dei sacchi per lanciarli in aria e colpirli con bastoni o per tirare al bersaglio con le pistole. Chi partoriva segretamente era costretta a soffocare o avvelenare il proprio figlio. A questo punto risulta evidente quanto possano essere differenti le terrificanti esperienze di uomini e donne. La percentuale di mortalità era circa il 74,8%, ma questa non rende conto di tutta la realtà, dal momento che 1/4 dei bambini è morto a Bergen Belsen, vero campo di sterminio, dove regnava il tifo e dove furono spedite le bocche inutili, le ammalate, le donne anziane, le madri e i bambini7. Dalle testimonianze finora raccolte emerge un importante aspetto della deportazione, soprattutto femminile, sovente I terribili
traumi riportati
nei campi
di concentramento
durano
ancora oggi
L'incredulità e
l'indifferenza di chi non ha conosciuto i lager si evidenziano in una totale mancanza di interesse per la tragica esperienza della donna; ciò ha condotto molte deportate ad un graduale isolamento, ad un dannoso ripiegamento su se stesse, mentre diverse patologie s'impadroniscono e turbano ancora oggi il loro stato fisico e psichico.
Ad esempio, un'anziana deportata ebrea è tormentata da musiche e suoni che aveva udito nel lager e che improvvisamente le rimbombano nelle orecchie, come se ancora oggi si trovasse rinchiusa ad Auschwitz. Di altre sappiamo che trascorrono periodi più o meno lunghi in ospedali e luoghi di soggiorno climatico, per forme di tubercolosi, gravi disturbi cardiaci, forme acute di insufficienze respiratorie e affette da arteriosclerosi precoce che degenera in stati depressivi e di rifiuto della vita. E per alcune donne non è mai cessata la sofferenza indicibile di essere state violentate; quindi doppiamente annullate, nella dignità e nella libertà. Dalle testimonianze raccolte si manifesta una specificità della deportazione femminile che coinvolse anche donne che in quel tempo erano prive di qualsiasi consapevolezza politica. In generale si può dire che coloro che, nell'ambito della famiglia, hanno potuto parlare della loro esperienza, sono quelle che meglio si sono inserite nella vita sociale. Resta difficile dire in quale misura l'esperienza del lager abbia influito sulle deportate e sul loro rapporto con la società. La raccolta di notizie di tutto quel vissuto, che è stato il lager, deve essere seguita dalla conoscenza dell'atteggiamento che ogni donna deportata ha avuto, in seguito, nell'inserimento nella vita comune e nell'affrontare lo svolgersi delle vicende quotidiane. Molte donne parteciparono alla Resistenza assicurando il collegamento fra i centri abitati e le formazioni partigiane, portando armi e viveri, curando feriti, aiutando gli ebrei a nascondersi.
La stragrande maggioranza delle donne deportate, ebree e non ebree, fossero esse state partecipi della lotta politica o no, è accomunata dall'aver provato traumi laceranti per gli orrori che conobbero fin dall'arrivo nei campi, tanto che ancora oggi, in molte, rimane l'incapacità di darsi ragione di ciò che pure hanno vissuto. Ciò che ha accomunato tutte le donne che abbiamo intervistato, fossero esse deportate politiche, ebree o zingare, era il sentimento di solidarietà verso le loro compagne di sventura, tra le quali non esisteva discriminazione per differenze di religione, tradizioni, lingue, costumi, educazione. Questa stessa solidarietà ha permesso a molte di loro di fare ritorno nelle proprie case. Tutte vissero tragicamente la perdita dell'identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le brutalità degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio, vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui. "E' rilevante constatare come in tutte le testimonianze non ci sia assolutamente odio, ma solo volontà e speranza che certe esperienze non debbano più ripetersi. Tutte desiderano la Pace, anche se tutte, e sottolineo tutte, si pongono e ci pongono una sofferta domanda: è questo il mondo, è questa la società che speravano di costruire, coloro che sono sopravvissute ai lager?"8
Vorrei concludere con una canzone. Sì, proprio con una canzone. Nell'estate del '44 ad Auschwitz, un gruppo di deportate, quasi tutte molto giovani, compose una canzone, sull'aria di un motivo allora in voga, "Piemontesina bella". Facevano parte dei gruppo le 5 sorelle Szörenyi (di cui solo la più piccola, Arianna, scampò allo sterminio) e forse altre 5 o 6 ragazze, alcune romane, altre forse venete. Anche comporre una canzone sulla propria drammatica condizione era un modo di resistere in quel campo di morte. La canzone cominciava così:
"Svegliamoci presto ragazze, il tedesco è venuto, ci deve contar, svelte andiamo all'appello, formiamo un drappello, laggiù nel piazzal. Perché a lavorar bisogna andar, poco mangiare e il baston. I camerati nemici ci son! Non ti potrò scordare, o prigionia di guerra la pena, il cuor ci serra ci rende triste ognor. Ma poi pensando a casa ritorna l'allegria, la speranza si ravviva Si presto ritornar!"
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