domenica 24 maggio 2015
Cinema
Durante una visita all'ospedale per confortare l'amica Oonagh Shalney-Toffolo, nel 1995, la Principessa di Galles, Lady Diana, s'imbatte nel cardiochirurgo pakistano Hasnat Khan, con il quale avvia una relazione sentimentale segreta di due anni, fino a quando l'uomo non pone fine alla frequentazione per il veto della famiglia di origine e l'invadenza della stampa. Definito da alcuni amici della principessa come "l'amore della sua vita", Khan rappresenta un capitolo poco noto e insolitamente felice della favola tragica di Lady D., nonché il materiale drammaturgicamente ideale per raccontare gli ultimi anni della sua esistenza, quando la speranza di un futuro d'amore e libertà si scontra per sempre contro il tredicesimo pilastro del tunnel parigino di Pont de l'Alma.
Il regista tedesco Oliver Hirschbiegel, già misuratosi con niente meno che la biografia di Adolf Hitler in La Caduta, e lo sceneggiatore di The Libertine, di cui ricordiamo il frasario accattivante ma anche spesso decontestualizzato e lasciato a navigare nel vuoto strutturale, devono essere sembrati chissà come il giusto team per questa impresa cinematografica che arriva in coda a una nutrita schiera di film per la tv sul personaggio di Diana Spencer e rimane saldamente incollato a un'estetica e a una narrazione tipicamente televisive, nonostante i differenti presupposti. Bravissima qui Naomi Watts nel dare vita ad una donna cosi controversa.Il film batte molto sull'umanità e sulla semplicità di Diana,contro il conformismo della vita di corte alla quale era stata relegata dal suo matrimonio con Carlo.Quando forse aveva incontrato il vero amore,il chirurgo pakistano,ecco che il destino,o forse un complotto,come è più probabile(aveva deciso di abbracciare la religione islamica per stare sempre con il suo amato chirurgo),pone fine alla sua vita e a quella dell'incosapevole e sfortunato Dodi Al Fayed.
Leggende
La leggenda del velo
Giuseppe Sanmartino, 1753.
La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe di Sansevero.
In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua. Ricordiamo tra questi un documento conservato presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riporta un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro (il costo complessivo della statua ammonterà alla ragguardevole somma di cinquecento ducati). Nel documento, datato 16 dicembre 1752, il principe scrive esplicitamente: “E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagarete al Magnifico Giuseppe Sanmartino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo…”. Anche nelle lettere spedite al fisico Jean-Antoine Nollet e all’accademico della Crusca Giovanni Giraldi, il principe descrive il sudario trasparente come “realizzato dallo stesso blocco della statua”. Lo stesso Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, specifica che il Cristo è “tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.
Il Cristo velato è, dunque, una perla dell’arte barocca che dobbiamo esclusivamente all’ispiratissimo scalpello di Sanmartino e alla fiducia accordatagli dal suo committente. Il fatto che l’opera sia stata realizzata da un unico blocco di marmo, senza l’aiuto di alcuna escogitazione alchemica, conferisce alla statua un fascino ancora maggiore.
La leggenda del velo, però, è dura a morire. L’alone di mistero che avvolge il principe di Sansevero e la “liquida” trasparenza del sudario continuano ad alimentarla. D’altra parte, era nelle intenzioni del di Sangro – in questa come in altre occasioni – suscitare meraviglia: non a caso fu egli stesso a constatare che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori”.
venerdì 22 maggio 2015
Cinema
L'agente Lancillotto perde la vita durante una missione di guerra e il suo capo, Galahad, non si perdona e offre al figlio piccolo del compagno scomparso una medaglia e un numero di telefono. Diciassette anni dopo quel bambino è un ragazzo, Eggsy, che si è messo nei guai con dei delinquenti del quartiere. Comporrà quel numero di telefono e si ritroverà davanti Galahad in persona, alias Harry Hart, pronto ad offrirgli l'occasione di una nuova vita. Una vita da spia. Una vita da Kingsman.
Matthew Vaughn legge "The Secret Service", il fumetto di Mark Millar e Dave Gibbons, con le lenti del suo cinema pop ed eccessivo, qui però più rilassato e divertito rispetto a Kick-Ass , meno ansioso di provare la propria originalità, anche perché non è certo l'originalità il tratto distintivo di un film che cita James Bond e compagni (John Steed, Harry Palmer, Derek Flint) ad ogni inquadratura. Quella di Kingsman è soprattutto una storia di iniziazione, di Eggsy e del suo interprete Taron Egerton. Vaughn li prende, per il tramite del più esperto e già iniziato Colin Firth, e apre loro le porte del cinema inglese, le quali non possono che essere porte di un pub o di una sartoria di Savile Row. Una volta dentro il film, impareranno che tutto è possibile, non tutto è reale (non si muore per davvero, spiega Mark Strong dopo la "prova dell'acqua"), qualcosa si nasconde (nei doppi fondi delle scenografie), qualcosa si affaccia sull'esterno (quando si smette di prendersi sul serio per ammiccare allo spettatore in sala). È un viaggio sulla giostra del cinema di genere, con stazioni più o meno riuscite, che in fondo può anche valere il prezzo del biglietto. Cinema come attrazione, spettacolo, circo acrobatico.
L'eleganza, invece, quella vera, è un'altra cosa. Per il regista il discorso sull'abito è evidentemente poco più di un pretesto narrativo per segnalare la trasformazione del personaggio, oltre che l'ennesimo omaggio al padrino del cinema di spionaggio, confezionato sempre con un largo sorriso sulle labbra. Per Vaughn, infatti, l'abito è sempre e prima di tutto un costume, che dice forti e chiare, come in un fumetto, le intenzioni e i dati anagrafici del personaggio, che si tratti della tutina di un supereroe, del berretto con la visiera di un ragazzino dei sobborghi o dello stile street chic di un miliardario pazzo (e il personaggio di Samuel L. Jackson è sicuramente il più aderente al genere, nella sua revisione iper contemporanea ma stabilmente megalomane).
Si spruzza sangue a volontà, ci si lancia senza paracadute, si scambia il bicchiere per prudenza prima del brindisi letale. Non ci si fa mancare nulla, sulla giostra dello spy-movie, nemmeno Mr Firth in versione Machete.
Marianna Cappi
Filosofia
La Volontà
Il tema della volontà è centrale nel pensiero di Schopenhauer, il quale, riprendendo Kant, sostenne che l'essenza del noumeno è proprio la volontà. In polemica contro Hegel, secondo Schopenhauer la natura e il mondo non hanno un'origine razionale, ma nascono da un istinto irrazionale di vita, da una pulsione informe e incontrollata che è appunto volontà. Non c'è dunque spazio per l'ottimismo della ragione, dal momento che questa volontà di vivere sfrenata e arbitraria è causa di sofferenza. Da questa se ne esce attraverso la sublimazione e la presa di coscienza che il mondo è l'oggettivazione della volontà, cioè è una mia stessa rappresentazione, fenomenica e illusoria (velo di Maya): concetto di origine orientale e in parte neoplatonica, che si traduce nel desiderio della vita stessa (eros) di diventare finalmente consapevole di sé; questa consapevolezza coincide con l'auto-negazione della volontà e permette così di uscire dal ciclo insensato dei desideri, morti e rinascite.
Cinema
Il giovane studente Yu Te (Gordon Liu) aiuta il suo maestro a recapitare messaggi della resistenza contro gli oppressori tartari attraverso il negozio di pesce di suo padre. Scoperto il trucco, i messaggi venivano inseriti nei pesci, i funzionari del governo distruggono la scuola ed il negozio uccidendo il padre di Yu Te il maestro ed i suoi compagni di scuola.
Yu Te ferito si reca al tempio Shaolin dove ha saputo che i monaci conoscono e praticano le arti marziali. Nel tempio ci sono 35 camere, ed in ognuna si insegna una tecnica del kung fu in un crescendo di difficoltà. Superate tutte le prove gli viene offerto di guidare una delle camere, ma uno dei maestri non è d'accordo perché pensa non sia ancora pronto e lo sfida dandogli la possibilità di scegliere l'arma con cui combattere. Yu Te perde la sfida, ma questo è uno stimolo per lui a migliorarsi e si allena, sfidando il maestro cambiando ogni volta arma e cercando di adattarsi alla tecnica dell'avversario.
Yu Te crea allora una nuova arma (un San jie gun) con cui riesce a sconfiggere il maestro: a questo punto, vuole che gli sia data la possibilità di creare la 36ª camera per poter insegnare il kung fu anche ai non monaci. Al rifiuto dell'abate e all'insistenza di Yu Te l'abate decide di punirlo. La punizione consiste nell'uscire dal tempio per raccogliere offerte.
Yu Te riesce a portare a termine la sua vendetta ed a reclutare i primi allievi che faranno parte della 36ª camera dello Shaolin creata.Film discreto sugli Shaolin,i loro metodi di insegnamento e soprattutto sulla forza di volontà che aiuta sempre a vincere anche gli eventi più nefasti della propria vita.
domenica 17 maggio 2015
Dipinti
Picasso non è mai stato uno dei miei pittori preferiti,però ha dipinto o scolpito opere che restano e che anche ad un dilettante dell'arte come me appaiono notevoli.Questo dipinto,Le donne d'Algeri,dipinto nel 1955,è stato venduto all'asta l'altro giorno per poco più di 160 milioni di euro,una cifra pazzesca,il quadro più caro al mondo,comprato dalla fondatrice del gruppo Wynn dei casinò di Las Vegas.Al di là dell'aspetto morale,mi ha incuriosito capire cosa potesse indurre una persona,seppur super ricca,ad investire in questo quadro.In effetti ha una sua oscura magia,un po' come il suo autore,quel magnetismo animalesco che tutti riconoscevano in Picasso.Mia madre che ha avuto la fortuna di conoscerlo mi ha detto che era capace in pochissimi secondi di fare uno schizzo incredibile che lasciava a bocca aperta tutti e seppur un uomo non bello aveva quel carisma che fa passare in secondo piano anche i difetti.Questo groviglio di corpi rende bene l'idea dell'erotismo caldo dell'Africa,dove al calore climatico si aggiunge il calore dei corpi delle donne di li.Fa da contraltare la figura di donna a sinistra,l'unica in piedi e seppur con il seno di fuori dona l'idea di una donna fiera,completa,con le mani quasi a protezione del grembo,sembra quasi una regina in mezzo a quell'orgia di pezzi di corpi femminili sparsi qui e là.Forse voleva sottolineare il fascino austero di una donna "perbene",borghese,in contrasto con le pose anche lascive degli altri corpi,che forse alludono all'Africa violentata,usata,sfruttata,fatta a pezzi appunto.
Cucina
Ho provato da poco una nuova macedonia di frutta fresca con fragole, banane e cioccolato fondente fuso. Una nuova golosa versione per una delle macedonie più amate dai bambini. Aggiungete a piacere la frutta che preferite come ad esempio le pere o l'ananas. Se non amate il cioccolato fondente sostituitelo con quello bianco.
Ingredienti: 300 gr di fragole, 2 banane, succo di un limone, 1 cucchiaio di zucchero, 50 gr di cioccolato fondente, 1 cucchiaio di brandy (facoltativo).
Procedimento: lavare molto delicatamente le fragole e tagliatele a pezzi. Sbucciare le banane e tagliarle a rondelle. Condire con il succo di limone, lo zucchero ed il brandy (se lo utilizzate). Versare in una ciotola ampia e coprire con il cioccolato fuso a bagnomaria o nel microonde.
Cinema
I Titans ricordati nel titolo sono la squadra di football americano che negli anni settanta venne allenata da Herman Boone (Washington), coach di colore, che arrivò a quel ruolo così importante contro i fortissimi pregiudizi che vigevano allora. I neri potevano giocare, ma non assumersi la responsabilità della squadra, neppure se avevano dato prove di grandi qualità. Dunque Boone, che ha ottenuto ottimi risultati in squadre universitarie, arriva ad Alexandra, in Virginia, stato fisiologicamente razzista, preparato ad affrontare la discriminazione, si vede invece riconoscere la propria bravura e diventa allenatore in prima. A quel punto deve combattere con gli stessi giocatori, quelli bianchi naturalmente, che mal sopportano di dover obbedire a un nero. Ma Herman, con grinta e intelligenza, ce la fa. La storia ha certamente sapori agiografici e porta acqua a quella tesi. In America ha creato dibattiti ai quali non si sono sottratti neppure personaggi come Michael Jordan. Per il resto c'è la giusta tensione e una violenza forse esagerata, seppure nel football, che fa della violenza una delle sue grandi prerogative. Film forse "troppo americano", che rappresenta uno sport che non ha mai del tutto convinto gli italiani.
Fabio Rizzo
Poesie
DOVE NASCE IL GIORNO
Il giorno non nasce in tutte le parti del mondo,
ma solo in segreto,
là dove nessuno lo vede.
Da niente diventa increspatura di vita,
da buio diventa cammino,
da notte diventa orizzonte
Il giorno non ha fretta di diventare colore
ma si tinge lentamente
salendo dal cuore del mondo
scalda pian piano il manto del mondo
come il respiro che esce dal freddo letargo infinito dell’insensibilità
seziona il nero come a cercare nella notte dell’anima
quell’unica luce della fratellanza
e solo alla fine si lascia trovare.
Guatan Tavara
Libri
Dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, il lutto, la rabbia, il desiderio di consegnare alla giustizia i mandanti hanno compattato l'opinione pubblica americana intorno al presidente Bush e alla sua crociata contro il male, proclamata in toni apocalittici. Chomsky rifiuta di appiattirsi su questa logica manichea e sostiene si debba parlare di terrorismo per ogni atto di aggressione alla popolazione civile, e quindi non solo per attacchi come quello alle Torri Gemelle, ma anche per tanti capitoli della storia passata e presente: il conflitto arabo-israeliano, la repressione dei curdi da parte della Turchia e dei ceceni da parte della Russia, ma anche tutti gli interventi armati degli Stati Uniti in Vietnam, o in Iraq.
Serie Tv
La miniserie ha inizio con la visione di un'Oriana Fallaci che combattiva come sempre, rientra nelle campagne fiorentine per sistemare tutti i documenti della sua storia nel giornalismo mondiale. La donna, aiutata da una studentessa universitaria di nome Lisa, ripercorre la sua vita sin da quando, da ragazza, compiva la staffetta partigiana contro i nazisti in aiuto del padre. Da lì il ricordo va alle prime interviste come quella a Gina Lollobrigida o Federico Fellini sino a quelle agli astronauti americani impegnati a giungere sulla Luna. Una delle fasi più importanti è quella della Guerra del Vietnam, dove conosce il suo primo amore: il giornalista francese François Pelou con cui per diversi tempo ha avuto una relazione. Nel 1968 Oriana rimane ferita e viene creduta morta durante le rivolte studentesche di Città del Messico ma verrà salvata da un prete. Nel 1972 conosce il rivoluzionario greco Alexandros Panagulis e con lui instaura la relazione che più la segna per la vita. Lui sarà l'uomo che ama e da cui starà quasi per aver un figlio (che però perderà a causa di un aborto) ma lui sarà anche l'uomo che più la farà infuriare per il suo comportamento indisciplinato. L'omicidio del suo uomo porterà Oriana a cadere in una depressione che lei affronterà intervistando i più potenti del mondo come per esempio l'imam Khomeini, dinnazi cui si leverà il burqa. Nel 2001 è a new York quando assiste all'Attentato dell Torri Gemelle e comincia una campagna contro l'estremismo islamico. Muore a Firenze dopo 11 anni di dura lotta contro il cancro.L'argomento era interessante,peccato che la sceneggiatura era carentissima e l'interpretazione fuori ruolo,una occasione che poteva essere sfruttata molto meglio nel ricordare la grande giornalista e scrittrice.
Cinema
Nella Virginia dei primi anni del proibizionismo i tre fratelli Bondurant distillano e vendono clandestinamente alcolici, prima fuori città, senza immischiarsi con i gangster che si ammazzano tra loro per le strade, poi alzando il rischio e il tenore degli affari, quando anche il più giovane dei tre, Jack, trova il coraggio che inizialmente sembrava non avere. L'arrivo da Chicago di Charlie Rakes, rappresentante della legge corrotto e feroce, mette però i fratelli Bonduant sulla strada di una guerra inevitabile e all'ultimo sangue.
L'australiano John Hillcoat, in coppia con Nick Cave alla sceneggiatura, gioca a fare l'americano, con un western tratto dal romanzo di Matt Bondurant, nipote del vero Jack; un libro che non è mai diventato un caso letterario e, per una volta, s'intuisce anche il perché. A salvare il film dal ridursi ad essere una tiritera di vendette e controvendette che procedono senza troppo ritmo verso il faccia a faccia più scontato, è soltanto la presenza di un manipolo di attori bravi e carismatici, da Tom Hardy a Jason Clarke a Guy Pearce. La loro presenza scenica anima una serie di personaggi bidimensionali, che sembrano fare il verso a quelli di Nemico Pubblico (e non solo loro, c'è anche il dono del vestito e molto altro): peccato che il paragone con Mann non si ponga proprio. Non c'è dubbio, tuttavia, che l'intento di Hillcoat fosse esattamente quello di fare un gangster movie, mascherato dalle strade di campagna, dalla parrocchia della piccola setta e da una versione appena più moderna del classico saloon.
Il film procede non senza coinvolgere, lungo un binario narrativo usato ma non usurato, però la voice over che introduce e commenta è letteraria e debole, come la leggenda famigliare che vorrebbe i Bondurant immortali, e, non fosse per le scene in cui scorre copioso il sangue, il tutto rimarrebbe piatto e ordinario, quando non colpevolmente calligrafico.
Lo spettacolo è assicurato ma, a differenza delle precedenti prove del regista, non lascia alcun pensiero o emozione che travalichi il tempo del film. Se non la convinzione che si tratti del divertissement americano di un pool di talenti australiani qui piuttosto sprecati, che serve giusto la visibilità delle star in scena e la curiosità di chi non chiede di più.
Marianna Cappi
giovedì 14 maggio 2015
Cinema
Kai è un mezzosangue dalla natura poco chiara, indesiderato da tutti ma benvoluto dal signore locale, Asano. Davanti ai suoi occhi si svolgerà una lotta tra umano e disumano la cui prima vittima sarà proprio Asano, accusato di tentato omicidio dello shogun e quindi obbligato ad un suicidio per riparare il proprio onore. L'uomo in realtà era posseduto da un demone che trama nell'ombra. I 47 samurai rimasti orfani del proprio padrone (e quindi "ronin") decideranno di vendicarsi contro lo shogun e tutta la corte demoniaca che gira intorno a lui, ben consci che questo significherà una condanna a morte. A loro non potrà che unirsi nonostante le ritrosie iniziali anche Kai, che da anni è segretamente innamorato della figlia di Asano.
Tali e tanti sono gli adattamenti ai dettami del cinema hollywoodiano che si stenta a riconoscere la struttura dell'opera teatrale 47 ronin, ma del resto anche il vero contorno storico. Perchè il 47 ronin americano non ambisce a fare quel che le altre arti ricercavano (il racconto di quanto la realtà dei fatti abbia messo in scena i massimi valori nazionali giapponesi) ma ad usare quel tipo di parabola per creare una storia fantastica, prendere il racconto dei samurai senza padrone che cercano una vendetta mortale e inserirlo in un contesto di mostri e demoni in pessima computer grafica, al limite con il fantastico contemporaneo (quello di Biancaneve e il cacciatore o Il cacciatore di vampiri, che rilegge la storia e i racconti tradizionali contaminandoli di mostruosità) e asservito al medesimo schema narrativo di 300.
Se nel film di Zack Snyder tratto da Frank Miller si celebrava la morte in guerra come forma massima di sacrificio e rispetto del proprio onore battagliero, il 47 ronin di Hollywood celebra la morte in battaglia come forma estrema di fedeltà ad un ideale e un padrone, in un mondo dominato da tutto tranne che dall'onore. Quel che sembra di capire però è che c'era bisogno di un eroe unico per poter penetrare nelle maglie degli studios americani (e della loro percezione del pubblico statunitense), così viene aggiunto oltre alla mitologia demoniaca e ad uno strato superiore di ordine (uno fantastico che si sovrappone agli schieramenti reali, prendendo le parti di padroni e schiavi, eremiti e shogun) anche un protagonista per metà occidentale e una storia d'amore molto posticcia.
In una storia che fin dal titolo porta impresso il marchio del collettivismo il cinema americano inserisce quindi il proprio individualismo, in questo modo i 47 ronin finiscono stranamente sullo sfondo, la loro vicenda è il contesto in cui si muove Kai (Keanu Reeves), il mezzosangue che non può ambire al ruolo di samurai ma che finisce per lottare con i ronin ed essere da loro accettato per il proprio valore. E' una specie di guerriero delle foreste simile al Kikuchiyo che Toshiro Mifune interpretava in I sette samurai ma con in più una gravitas abbastanza ridicola che indica il grado minimo di impegno cinematografico nel rendere complesso un personaggio.
I tratti principali del protagonista sono solo alcuni tra i molti riferimento all'acqua di rose che questo film fa al cinema e alla cultura giapponese, dopo averne stravolto una delle storie più importanti e violentato l'etica. Specie inizialmente si distinguono scene di massa che ricordano Ran e alcuni movimenti eccessivi ed enfatizzati da teatro kabuki (più in là nella storia il teatro si vedrà anche). Ma è solo fumo, ossi gettati per decenza e rispetto della apparenze (anche i demoni hanno un design che sembra la versione mostruosa di alcune creature di Miyazaki), perchè in 47 ronin batte forte un cuore fieramente hollywoodiano che non si lascia scalfire da nulla e ciecamente procede dritto verso la celebrazione dell'individualismo eccezionale con contorno di amor proibito.
Gabriele Niola
Cinema
Walt Kowalski ha perso la moglie e la presenza dei figli con le relative famiglie, al funerale non gli è di alcun conforto. Così come non gli è gradita l'insistenza con cui il giovane parroco cerca di convincerlo a confessarsi. Walt è un veterano della guerra in Corea e non sopporta di avere, nell'abitazione a fianco, una famiglia di asiatici di etnia Hmong. Le uniche sue passioni, oltre alla birra, sono il suo cane e un'auto modello Gran Torino che viene sottoposta a continua manutenzione. La sua vita cambia il giorno in cui il giovane vicino Thao, spinto dalla gang capeggiata dal cugino Spider, si introduce nel suo garage avendo come mira l'auto. Walt lo fa fuggire ma di lì a poco tempo assisterà a una violenta irruzione dei membri della gang con inatteso sconfinamento nella sua proprietà. In quell'occasione sottrarrà Thao alla violenza del branco ottenendo la riconoscenza della sua famiglia.
Clint Eastwood non smette mai di stupirci. Dopo averci narrato di Iwo Jima vista dai due fronti e di un'altra intrusione dello Stato nella vita degli individui (Changeling) ci immerge ora nel privato di un uomo che ha fatto dell'astio nei confronti dei diversi da sé (siano essi asiatici, neri o più semplicemente giovani) la sua ragione di vita. Si è murato vivo nella sua casa e la prima pietra dell'edificio è stata collocata a metà del secolo scorso quando ha conosciuto la violenza e la morte in Corea. Il suo personaggio si chiama (e lo ribadisce al fine di evitare appellativi troppo confidenziali) Kowalski.
Eastwood ha una cultura cinematografica così vasta da non poter aver scelto a caso questo cognome. Stanley Kowalski era il brutale protagonista di Un tram che si chiama desiderio da Tennessee Williams interpretato da un Marlon Brando al suo top. Anche Walt è brutale, in maniera così rozza che nessuno fa quasi più caso alle sue offese di stampo razzista. È come se, ormai anziano, il mondo attorno a lui gli facesse percepire la sua inutilità anche da quel punto di vista. Il suo andare sopra le righe ad ogni minima occasione lo apparenta con l'altrettanto anziana vicina di casa asiatica che sa solo inveire e lamentarsi sul portico di casa.
Saranno però i giovani 'diversi' (Thao e sua sorella Sue) ad aprire una breccia nelle sue difese. Hanno l'età dei detestati nipoti ma, a differenza di loro, hanno saputo conservare dei valori che l'Occidente non si è limitato a dimenticare ma ha addirittura rovesciato. Una parte della critica americana ha deriso il 'buonismo' di questo film e chi non lo ha attaccato si è spesso trincerato dietro la fredda analisi che vorrebbe trovare in Kowalski una sintesi dei personaggi interpretati nella sua lunga carriera dall'attore. Può anche essere ma Eastwood non è un regista che assembla ruoli per cinefilia compiaciuta o per autoesaltazione.
Walt è un personaggio sicuramente nella linea di quelli da lui già portati sullo schermo ma è molto più complesso di quanto non possa apparire a prima vista. Il suo rapporto con l'auto e con le armi (straordinario e determinante il segno di pollice e indice a indicare la pistola come nei giochi dei bambini) ma anche quello con l'unico essere umano che si potrebbe definire suo amico (il barbiere) sono solo alcuni degli elementi che, insieme all'insorgere della malattia, costituiscono il mosaico della personalità di un protagonista non facile da dimenticare.
Gianfranco Zappoli
Accadimenti
La versione di Seymour Hersh
Stando alla ricostruzione di Hersh, pubblicata sulla London Review of Books, innanzitutto non sarebbe vero che sia stata una missione esclusivamente americana quella che portò alla cattura e all'uccisione di Bin Laden da parte dei Navy Seals, i corpi speciali che nel maggio 2011 fecero irruzione nel compound di Abbottabad dove si nascondeva lo sceicco del terrore, scoperto - è la versione ufficiale - seguendo le tracce lasciate da un corriere di Bin Laden. Secondo Hersh, invece, dove si trovasse il capo di al Qaida era ben noto alle autorità pakistane in quanto erano proprio i servizi di Islamabad a tenerlo prigioniero, e fin dal 2006. Furono loro che 'concessero' una soffiata agli Stati Uniti, pagata 25 milioni di dollari. E allora Obama mentì quando disse al Paese che la missione era stata condotta dagli Stati Uniti e che le autorità pakistane ne furono informate soltanto a "cose fatte". Hersh va oltre e contesta la versione ufficiale anche sulla fine che ha fatto il corpo di Bin Laden: non affidato agli abissi del mare con una cerimonia rispettosa dei dettami islamici, ma racchiuso in sacchi poi lasciati precipitare tra le montagne dall'elicottero in volo verso Jalalabad.
Serie Tv
L’astronauta Molly Woods torna a casa dopo aver affrontato una lunga missione in solitario nello spazio a bordo della stazione Seraphim. Mentre cerca di riconnettersi al marito John e al “figlio” Ethan, un androide dall’intelligenza artificiale, Molly scopre qualcosa di inspiegabile e sconcertante: è incinta, nonostante sia sterile e nell’ultimo anno non abbia avuto rapporti sessuali. Ricorda però di uno strano incontro con un amico defunto durante la missione. Questa e le esperienze che ora affronterà sulla Terra finiranno col cambiare lei e la storia dell’umanità.Serie molto ben fatta ed originale con ottima sceneggiatura ed ottimi interpreti,Halle Berry in testa.
Poesie
Dono sacrificale
Nell’orgia stellare di luce crepuscolare
S’inietta negli occhi quel rosso sbavato
Come bacio di sangue nelle vene urlanti
Capricciose di peccato, rituale proibito
Danzo esaltata sotto la Luna dannata
Inseguendo la notte sotto piedi frementi
Bramo, corvino piacere che m’infetta
Viscerale battaglia, dissacrante melodia
Orfana di libidine mi denudo l’anima
Ondeggia il corpo, spoglio di ombre mordaci
Sinuosa seduco il signore delle tenebre
Miscredente creatura in schegge d’Inferno
Tra le tue fauci abbi misericordia
Mira al mio cuore divorami pura
Lacera la pelle infliggimi dolore
Convertimi lo spirito in perverso pudore.
Lia (caserta)
Libri
Washington. La trentottenne Susan Fletcher, brillantissima mente matematica e responsabile della divisione di crittologia dell'NSA (National Security Agency), viene convocata d'urgenza nell'ufficio del comandante Strathmore. Qualcuno ha realizzato un programma capace di "ingannare" il più sofisticato strumento informatico di spionaggio al mondo, un supercomputer che può decodificare qualunque testo cifrato a una velocità strabiliante. Pochissimi conoscono l'esistenza di questa macchina, ideata per contrastare le nuove minacce alla sicurezza nell'era di Internet e in grado di controllare la posta elettronica di chiunque. La stessa NSA, nata per proteggere le comunicazione del governo americano e intercettare quelle delle potenze straniere, opera in semiclandestinità, al di fuori del controllo pubblico. Susan non si stupisce quando viene a sapere che "Fortezza Digitale", così è stato battezzato il programma, è frutto delle ricerche di un genio dell'informatica: il giapponese Ensei Tankado, handicappato dalla nascita per gli effetti del disastro atomico di Hiroshima, che dopo essere stato chiamato negli Stati Uniti a lavorare per l'NSA ha sbattuto la porta in faccia ai suoi capi quando si è accorto che il supercomputer rischiava di trasformarsi in un nuovo Grande Fratello. I suoi intenti sono nobili, ma la sua decisione di boicottare l'operato dell'NSA, mettendo il programma in rete e permettendo a chiunque di scaricarlo, rischia di creare l'anarchia e di assicurare libertà d'azione a spie e criminali.Scritto magistralmente rivela in tempi non sospetti molti retroscena sull'Agenzia più segreta del mondo,la NSA,sa mescolare bene informazioni reali alla trama thriller tecnologica rivelando il talento di scrittore universalmente riconosciuto.
Libri
Dopo il sanguinoso attentato a una loggia massonica di Istanbul ritenuto opera di un gruppo di jihadisti, l’esercito turco decide di ricorrere a una soluzione d’emergenza.
È così che entra in gioco Toby Ashe, un agente dei servizi segreti britannici: a lui il compito di scoprire le ragioni del feroce attacco. In poco tempo Ashe si ritrova al centro di un pericoloso gioco che lo porta da Istanbul agli Stati Uniti, da Amburgo a un remoto villaggio del Kurdistan, sulle tracce di un fitto intrigo internazionale in cui sembra essere coinvolta anche la CIA. Quale azione della Massoneria può avere giustificato il grave attentato? Chi è il misterioso medico iracheno che passa informazioni top-secret agli americani? Che cosa ha a che fare tutto questo con la scomparsa del leader di una setta mistica curda? Tutto sembra ruotare intorno a un’oscura ricerca genetica, e alla creazione di un’arma letale che sono in tanti, segretamente, a contendersi…Thriller che ha il pregio di farci conoscere la cultura yazida,molto citata in questi tempi per via dell'Isis,ma ha l'enorme difetto di essere lunghissimo anche se ben scritto.
lunedì 11 maggio 2015
Cinema
Chris Kyle,texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l'abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato 'pastore di gregge', votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l'Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.
Come il proiettile di un tiratore scelto, "il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia ad ogni angolo di strada", diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell'ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell'evento o a funzionare qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha anticipato, addestrato e maturato, quello di David O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog (Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), di Brian De Palma (Redacted), di Kathryn Bigelow (The Hurt Locker).
Girati prima e dopo l'undici settembre, frattura storica, categoria dell'immaginario e spartiacque per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi dei (tele)spettatori. Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell'orrore che si ritrova ad abitare, American Sniper sale sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l'idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell'incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Appesantito dal peso dei colpi che mette a tiro e dalle scelte che compie il suo personaggio dietro al mirino, Bradley Cooper infila la bolla allucinatoria che la guerra soffia sui soldati e aderisce alla genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. E il sentimento di pietà che il ranger di Un mondo perfetto riservava all'uomo in fuga di Kevin Costner, Eastwood adesso lo chiede allo spettatore, sollevando Kyle dal giudizio e confermando di essere sempre in grado di cogliere il bilico tra ombra e luce. La semplicità ideologica di Kyle e la sua immediatezza comunicativa non sono prive di complessità. Kyle è un adulto pronto ad affrontare ogni prova con forza e coerenza, supportato dal sentimento e da una fede incrollabile. Diversamente dall'artificiere della Bigelow, che disarma là dove Kyle arma, lo sniper di Eastwood è in grado di ritrovare l'intima misura, il ritmo che lo lega al mondo e alla coscienza di esistere. Kyle non è certo immune al disorientamento progressivo che genera l'azione bellica e l'investitura di eroe, nondimeno è capace di ammettere le proprie responsabilità, davanti a dio e allo psichiatra, rimettendo il debito di adrenalina e riallineando le cicatrici. Ma è proprio a casa, nella sua amata patria e davanti a un marine che voleva richiamare da una non vita, che si compie la beffa e si realizza l'assurdità della guerra, ridotta da Clint a esercizio di idiozia, vedi i soldati-ingegneri sacrificati al cecchino iracheno sul muro di gomma. Se Chris Kyle, quello vero, non fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni probabilità American Sniper lo avrebbe girato un altro regista, ricettivo alla manifestazione dell'eroismo americano. Perché è proprio quel tragico epilogo a emergere tutto il nonsenso, ad affrancarlo dal particolare e a convincere l'autore americano a farne una storia universale.
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l'aiuto della sensibilità. Contro l'effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che vagola, che non vive ma sopravvive, Gran Torino di cui non ci si fa nulla se non lasciarla in garage, senza uno spazio in cui muoverla, senza un futuro in cui accenderla. Solo un presente in cui ogni tanto scoprirla e lucidarla, blaterando di patriottismo e trascurando le conseguenze che la sciagurata fase della politica internazionale degli Stati Uniti ha sul suo stesso tessuto sociale.
Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull'autobiografia di Chris Kyle, squaderna un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della 'vita', un Paese che congeda con tre spari e col Silenzio un altro soldato, scomparso fuori campo e nascosto in un posto "tra il nulla e l'addio".
Marzia Gandolfi
Serie TV
I detective del Dipartimento della Polizia di Gotham City, guidati dal capitano Sarah Essen, il giovane James Gordon (detto Jim), e il suo nuovo partner Harvey Bullock, vengono ingaggiati per risolvere uno degli omicidi più sconvolgenti e di alto profilo a cui Gotham abbia mai assistito: l'assassinio di Thomas e Martha Wayne. Durante la sua indagine, Gordon incontrerà il figlio dei Wayne, Bruce, ora sotto la tutela del maggiordomo Alfred Pennyworth, che darà informazioni utili a Gordon per trovare il killer. Lungo il suo cammino da detective, Gordon dovrà confrontarsi con diversi boss della mafia (alcuni dei quali appartenenti alle storyboard originali, come Carmine Falcone e Sal Maroni, altri inventati per la serie come Fish Mooney o Butch Gilzean), e con quelli che saranno i futuri supercattivi dell'universo di Batman, tra i quali Selina Kyle (la futura Catwoman), Oswald Cobblepot (detto Pinguino), Edward Nigma, Ivy Pepper, Harvey Dent e Jonathan Crane coloro che, rispettivamente, diverranno l'Enigmista, Poison Ivy, Due Facce e lo Spaventapasseri.
Cinema
Manchester,primi anni '50. Alan Turing, brillante matematico ed esperto di crittografia, viene interrogato dall'agente di polizia che lo ha arrestato per atti osceni. Turing inizia a raccontare la sua storia partendo dall'episodio di maggiore rilevanza pubblica: il periodo, durante la Seconda Guerra Mondiale, in cui fu affidato a lui e ad un piccolo gruppo di cervelloni, fra cui un campione di scacchi e un'esperta di enigmistica, il compito di decrittare il codice Enigma, ideato dai Nazisti per comunicare le loro operazioni militari in forma segreta. È il primo di una serie di flashback che scandaglieranno la vita dello scienziato morto suicida a 41 anni e considerato oggi uno dei padri dell'informatica in quanto ideatore di una macchina progenitrice del computer.
The Imitation Game rivela le sue intenzioni fin dal titolo: perché è un gioco di sotterfugi e contraffazioni che riguarda non solo il codice nazista, ma anche la stessa attività del gruppo di esperti riuniti per decifrarlo, costretti ad operare sotto copertura. Più profondamente, il "gioco imitativo" caratterizza la vita stessa di alcuni di quegli scienziati, Turing in testa, obbligato a nascondere la propria diversità al mondo, e in particolare a quella società inglese che sforna eccentrici e poi li confina ai margini del proprio rigido e ottuso conformismo.
Turing, una sorta di idiot savant con un prodigioso talento per i numeri e una parallela inettitudine per la convivenza sociale, è il martire perfetto, in questo schema claustrofobico: infatti immolerà il suo genio per la salvezza di tutti, costruendo un macchinario di nome Christopher (cioè "colui che porta Cristo"), e cadendo vittima della ristrettezza di vedute di chi non possedeva neanche un grammo della sua capacità visionaria. Una mente prodigiosa costretta a vivere "in codice", e incapace di decifrare i comportamenti altrui, né di tradurre i propri in comunicazione umana.
The Imitation Game è un film "imitativo" nel senso migliore del termine perché tiene visibilmente conto della lezione di molto cinema recente, e crea un racconto che pare la quintessenza della messinscena televisiva britannica alla Masterpiece Theatre partendo però da una prospettiva "altra". Il regista infatti è il norvegese Morten Tyldum, che si accosta al materiale con totale rispetto dei codici di comunicazione inglesi per raccontarne le contraddizioni e i limiti deumanizzanti. In questo senso la sua operazione non è dissimile da quella realizzata da un altro regista scandinavo, Tomas Alfredson, con il suo La talpa: non è un caso che alcuni attori (Benedict Cumberbatch, che ha il ruolo di Turing, e Mark Strong) e soprattutto la scenografa Maria Djurkovic, abbiano partecipato a entrambi i film. Non è un caso neppure che parte del team creativo dietro The Imitation Game sia europeo ma non inglese: oltre al regista e alla Djurkovic, che è anglo-cecoslovacca, ci sono il direttore della fotografia spagnolo Oscar Faura e il compositore francese Alexandre Desplat. La loro "Inghilterra ai tempi della guerra" è borderline disneyana (si pensi a Pomi d'ottone e manici di scopa) ma è proprio questa rappresentazione iconica a rendere il contrasto con la diversità non omologabile di Turing così stridente. Quell'Inghilterra è la metafora dell'understatement inteso come volontà caparbia di annullare qualsiasi forma di disobbedienza alla "normalità". È l'Inghilterra del rispetto cieco delle tradizioni e delle gerarchie, quella dei burocrati e dei segreti di famiglia conservati in naftlina. È infine l'Inghilterra che si appella al genio di Turing per salvarsi la pelle, ma è pronta a gettare il suo salvatore in pasto alla buoncostume.
The Imitation Game tiene conto di svariati esempi cinematografici recenti, da A Beautiful Mind a The Social Network - la struttura narrativa a flashback e forward di Aaron Sorkin è chiaramente un modello per lo sceneggiatore, Graham Moore - nel ritratto di un protagonista il cui genio viaggia di pari passo con la sua asocialità ai limiti dell'autismo, ma anche del background recitativo di Benedict Cumberbatch, che porta nella sua interpretazione di Turing l'eredità del Julian Assange di Il quinto potere e dello Sherlock Holmes televisivo, creando una continuità ideale fra l'eccentricità irriducibile di ieri e di oggi.
Come anche ne La teoria del tutto, in The Imitation Game la confezione ipertradizionale e priva di guizzi autoriali non fa altro che rafforzare l'impatto della recitazione "totale" del protagonista: con la differenza che Cumberbatch nei panni di Turing è assai più pirotecnico di Eddie Redmayne in quelli di Stephen Hawking. L'intento della produzione, orchestrata da quel mago della corsa agli Oscar che è Harvey Weinstein, è chiaramente quello di assicurare una candidatura al suo attore purosangue. L'operazione, pur nella sua evidente pianificazione a tavolino, riesce comunque: perché Cumberbatch è una space oddity in grado di comunicare infiniti livelli di lettura; perché l'Inghilterra vista dagli outsider ha un impatto drammaturgico efficace; e perché all'interno di questa messinscena canonica e fortemente controllata l'ingiustizia del martirio di Turing risalta con ancora più incomprensibile nella sua crudele incongruenza.
Paola Casella
Libri
Sicari in crisi mistica e teologi con la lupara in mano, ecclesiastici infedeli e assassini devoti, padrini che citano il vangelo prima di far uccidere e sacerdoti come padre Puglisi, che muoiono su ordine di Cosa nostra, per non aver tradito quello stesso vangelo. Questo libro racconta la storia del "tenebroso sodalizio" dei mafiosi con preti e religiosi. Un'inchiesta sulla mafia sub specie ecclesiae: attraverso i palazzi arcivescovili e le chiese di campagna, tra una festa popolare e la processione di un santo patrono, lungo le chiese della desolata periferia di Palermo e le navate dello splendido duomo normanno di Monreale. Cosa nostra è una confraternita criminale con le sue tradizioni e i suoi segreti. Per il mafioso, battesimi, cresime, matrimoni e ogni altro genere di sacramento non fanno parte di un cammino di fede ma entrano in un sistema di alleanze e di giochi di potere interni alla consorteria. Le vie delle sagrestie, allora, si intrecciano con quelle dell'eroina e la religione diventa uno strumento funzionale alla morte e al predominio criminale. Il giudice Giovanni Falcone diceva che «entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi ad una religione», e per questo introdursi nelle sagrestie di Cosa nostra equivale a conoscere i dogmi e i riti di questa setta violenta e spietata. Per conoscere la mafia dall'interno. E per affrettarne la sconfitta.
Accadimenti
Otto mesi senza scrivere una sola parola sul mio blog.Otto mesi di silenzio,ma di vita vissuta intensamente.Otto mesi che hanno visto gioie e dolori,periodi oscuri e resurrezioni,malattie e guarigioni,crisi e poi ritorni,il solito fiume di vita che scorre a volte lento e a volte ti travolge come l'onda dell'Oceano.
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