La caccia ad Osama Bin Laden è stata la missione che più ha impegnato l’America contemporanea, nel corso di un decennio abbondante e di due mandati presidenziali, e che più l’ha esposta, in termini di promesse e vendette, all’interno dei suoi confini e al cospetto del mondo intero. Questa è la storia di Maya, giovane ufficiale della CIA, armata d’intuito e di una determinazione dura a morire, che non si è lasciata fermare dai giochi di potere né dalle indecisioni o dallo scetticismo dei superiori ed è riuscita nell’impresa storica di trovare l’ago che pareva svanito nel nulla all’interno di uno dei pagliai più fitti, complessi e lontani dagli uffici di Washington che si potessero immaginare.
Al di là del successo nel raccontare una storia nota con una tensione che non dà tregua, e oltre una regia di massima precisione, come un’arma intelligente guidata però da una mano umana scaldata dalla passione, c’è una considerazione banale nella sua evidenza che fa di Zero Dark Thirty un film raro e imperdibile: tanto nella ricostruzione quasi documentaristica dei metodi di lavoro dell’Intelligence, delle dinamiche maschili al suo interno, della solitudine al femminile, dell’impegno visivo, strategico e linguistico che ne sono parte integrante e che occupano per intero la prima parte del film, quanto nella grande sequenza dell’azione e nella difficile chiusura, non c’è nulla che manchi al film né nulla che sia di troppo. Non è una questione di realismo, ma una misura tutta interna all’opera, ottenuta con gli strumenti della scrittura e della messa in scena e i tempi del montaggio, che lo rende magnificamente esauriente e mai esondante.
Non si dia dunque troppo credito a chi si lascia scandalizzare dalla sequenza della tortura in apertura, perché vorrebbe dire guardare il dito là dove la Bigelow indica la luna (tanto più che la realtà delle cose, in questi casi, è plausibilmente più cruenta). Eppure la sequenza ha la sua importanza, perché posiziona il personaggio di Jessica Chastain in un punto cruciale. La Chastain è il film, proprio in virtù del suo collocamento su un fronte duro, inscalfibile, totalmente dentro il proprio lavoro (come la regista dentro il suo) ma anche profondamente femminile, efficace là dove usa altre modalità per la caccia all’uomo, che non sono la forza bruta né l’intimidazione. Sta tutto lì, nel portarci a credere al cento per cento che dietro quella piccola donna dalla carnagione chiara e dal fisico inesistente c’è un killer che arriverà al bersaglio che nessun altro ha saputo avvicinare, il successo di Kathrin Bigelow e del suo cinema solo apparentemente “maschile”.
Ciò non toglie che la regista riservi le uniche scene di palpabile umanità alla comunione maschile dei soldati prima dell’attacco, nelle bellissime sequenze dei giochi al campo o del silenzio tragicamente poetico in elicottero, ma il punto non cambia, perché Zero Dark Thirty non è una missione di pace, bensì la storia di una (magnifica) ossessione.
Che Maya – personaggio solo vagamente ispirato alla realtà ma più che altro creato ad hoc - sia il film, e non solo la sua protagonista, lo testimonia anche la sua trasformazione fisica nella scena in cui indossa il chador sopra le All Star, che ad un certo punto sposta lo scopo dell’impresa dall’esterno verso l’interno del personaggio. Non è più, allora, la sicurezza della terra madre, né lo sventare nuovi devastanti attacchi, la priorità assoluta che la muove, bensì la fedeltà cieca a un obiettivo folle, come nella miglior letteratura cinematografica. Perché trovare Osama, per Maya, vuol dire prima di tutto trovare se stessa.
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