domenica 14 febbraio 2010

Televisione


«C’era una volta la città dei matti»


La figlia Alberta, che l’ha visto, ne conserva ancora intatta l’emozione: «Dà sia il clima di tutta l’avventura che il clima di casa, delle persone che lavoravano con lui e di noi, della sua famiglia». Alberta è la figlia di Franco Basaglia e Franca Ongaro. Due icone dell’antipsichiatria degli anni ’60 e ’70, due figure partite da Venezia e arrivate ad aprire con un grimaldello ideale tutti i manicomi d’Italia. «C’era una volta la città dei matti» è la fiction in due puntate dedicate alla vita dello psichiatra veneziano che Rai Uno manderà in onda domenica sera e lunedì (alle 21.30 e alle 21.10): un lungo affresco che parte da quando Basaglia e la moglie (che fu anche senatrice della Sinistra Indipendente) arrivarono a Gorizia e arriva alla grande avventura del manicomio di Trieste, diventato struttura pilota per la «liberazione» dei pazienti psichiatrici. 

Un’avventura molto veneziana e molto veneta, anche nel film, dove a interpretare il ruolo dell’infermiera Nives, che lavorò accanto a Basaglia, c’è la trevigiana Michela Cescon, alla prima esperienza televisiva: «Dentro il mio personaggio c’è la storia di quegli anni, sono una ragazza di origine contadina che fra mille lavori fa quello di entrare in queste case dove venivano sistemati i matti. Doveva pulire e fare la guardiana, aveva davanti persone spente, svuotate, non si chiede perché, come, pulisce sul pulito, come dico io, obbediva e stava zitta». Finché non arrivò Basaglia: «Il suo arrivo — racconta ancora la Cescon — che propone un cambiamento, all’inizio le fa paura, ci mette un po’ a capire, ma quando decide di seguirlo abbandona il marito, i figli, fa una scelta a suo modo rivoluzionaria. Basaglia le fa capire che può pensare, mettere in discussione tutto, mi piace pensare che rappresenti il cambiamento di quegli anni, una scelta personale che diventa la scelta di tutti». Nel film Basaglia ha il volto di Fabrizio Gifuni, al quale restituisce perfino la cadenza veneziana, la moglie è Sandra Toffolati (già vista in «Good Morning Aman»), mentre la Puccini interpreta Margherita, una giovane paziente afflitta più dal senso di colpa della madre che da un reale disagio. 

A quanto si capisce, un ritratto molto fedele di quegli anni. «Mi sembra una lettura molto reale di quello che è successo — conferma la figlia Alberta, vicepresidente della fondazione «Franco Basaglia», che ha sede nell’isola di San Servolo, dove sorgeva il manicomio—il regista l’ha girato in modo molto serio e molto rispettoso, anche di noi familiari. All’epoca della scrittura io e mio fratello Enrico siamo stati sentiti, ma abbiamo scelto di non essere coinvolti e di rimanerne fuori, anche perché non sapevamo come sarebbe uscito e volevamo essere liberi di dire che non ci piaceva. Invece è successo il contrario: è molto emozionante». Tra i tanti episodi della storia di Basaglia c’è anche quello di Marco Cavallo, il cavallo azzurro di cartapesta che fu costruito nell’ospedale psichiatrico di Trieste, da pazienti, artisti, dottori, scrittori: tra loro c’era il padovano Giuliano Scabia, che all’esperienza dedicò il libro «Marco Cavallo», pubblicato da Einaudi. Fu la prima esperienza italiana di teatro con i malati psichiatrici all’interno di un manicomio. Basaglia si era fatto questa idea. E non faceva che ripeterla: «Un malato di mente entra nel manicomio come persona, per diventare una cosa. Noi siamo qui per dimenticare di essere psichiatri e per ricordare di essere persone».

Lui, certo, non se ne dimenticò. E il film lo segue in questa sua convinzione: quando tolse le corde dai corpi dei pazienti che per prassi venivano legati ai letti, quando restituì ai suoi assistiti i comodini con gli oggetti personali, perché da lì, da quel gesto, fosse restituita loro la dignità perduta, quando li ascoltò raccontare, li vide creare, disegnare. Piccoli momenti di rispetto restituito che nel film commuoveranno anche quelli che nel ’78, quando finalmente il lavoro dello psichiatra approdò in Parlamento per diventare legge, magari non erano nemmeno nati. «Quello di mio padre è stato l’inizio di un percorso — racconta ancora Alberta — che altri hanno continuato e stanno continuando. Papà ha scoperto un pentolone, ha tolto il coperchio e l’ha anche vuotato. Da lì non si torna più indietro, ma bisogna gestire quello che si trova tutti insieme». 

Sara D’Ascenzo

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