lunedì 2 maggio 2011

Leggende


Il mito della caverna di Platone è probabilmente il più conosciuto tra i suoi miti, o se si preferisce, allegorie o metafore. Il mito è raccontato all'inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a).


Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall'infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.

Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l'attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un'eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.

Mentre un personaggio esterno avrebbe un'idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (si ricordi che sono incatenati fin dall'infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre "parlanti" come oggetti, animali, piante e persone reali.

Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l'uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.

Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s'irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.

Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell'acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che: « è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano. »
(Platone, La Repubblica, libro VII, 516 c - d, trad.: Franco Sartori)


Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi all'ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall'ascesa con "gli occhi rovinati". Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento ed, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell'accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte.

Parlando semplicemente, Platone si riferisce alla scoperta della realtà delle cose che ci circondano: per fare questo, discute sulla natura stessa della realtà. Dopo aver raccontato il mito, però, Platone aggiunge che tutto il ragionamento dietro l'allegoria deve applicarsi a tutto quello di cui si è già discusso nel dialogo: serve, cioè, ad interpretare le pagine che descrivono la metafora del sole e la teoria della linea.

In particolare, Platone paragona il mondo conoscibile, cioè gli oggetti che osserviamo attorno a noi, ... « ...alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me [...]. Nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedere è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello, e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce, nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto. »
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 b - c, trad.: Franco Sartori)


Il sole che brilla all'esterno della caverna rappresenta l'idea del bene e questo passaggio darebbe facilmente l'impressione che Platone la concepisse come una divinità creativa ed indipendente. Normalmente gli uomini sono tenuti prigionieri, costretti ad osservare delle semplici ombre di forme che non sono neanche dei veri oggetti; essi possono essere trovati soltanto "fuori della caverna", cioè nel mondo intelligibile delle forme conosciute dalla ragione e non dalla percezione.

Inoltre, dopo aver fatto ritorno dalla contemplazione del divino alle "cose umane", l'uomo-filosofo rischia di fare una "cattiva figura" se, « …prima ancora di avere rifatto l'abitudine a questa tenebra recente, viene costretto a contendere nei tribunali o in qualunque altra sede discutendo sulle ombre della giustizia o sulle copie che danno luogo a queste ombre, e a battersi sulla interpretazione che di questi problemi dà chi non ha mai veduto la giustizia in sé. »
(Platone, La Repubblica, libro VII, 517 d - e, trad.: Franco Sartori)


Chiaramente Platone si riferisce, tra le righe, al processo che Socrate dovette subire: tutto il mito, infatti, diviene una metafora della vita del filosofo ateniese, che riuscì a risalire la strada verso la verità, ma venne ucciso per aver tentato di portarla agli uomini, incatenati al mondo dell'opinione.

Una interpretazione ancora più semplicistica mette in parallelo questa allegoria con quella dell'illuminazione. Come prima cosa, l'uomo deve svegliarsi da quel sonno che viene chiamato "vita" (equivalente alla liberazione del prigioniero); in seguito egli si rende conto delle finzioni che l'uomo credeva entità reali (le ombre sulla parte della caverna); infine, egli giunge a vedere la verità per quella che è realmente (il sole ed il mondo all'esterno della caverna). L'istinto dell'uomo è quello di liberare gli altri prigionieri per condividere le sue scoperte, ma questo tentativo è inutile, in quanto i prigionieri non possono e non vogliono vedere oltre le rassicuranti ombre ed attaccano il portatore della verità.

Un'ulteriore interpretazione è stata fatta dagli idealisti. Nella filosofia di George Berkeley, infatti, viene espresso il concetto che gli uomini non conoscano direttamente ed immediatamente i veri oggetti del mondo: piuttosto, noi conosciamo soltanto l'effetto che la realtà esterna ha sulle nostre menti. In altre parole, quando osserviamo un oggetto, noi ne percepiamo solo una copia, una semplice rappresentazione mentale del "vero" oggetto della realtà esterna.

Ogni aspetto dell'allegoria ha il proprio significato: Platone era fortemente interessato alla politica ed alla sociologia, delle quali si discute, indirettamente, nel mito.

In primo luogo, Platone simboleggia con il sole la fonte della vera conoscenza. In seguito aggiunge che i prigionieri incatenati nella caverna rappresentano la maggior parte dell'umanità: il filosofo è l'uomo liberato, che tenta di portare i suoi compagni verso la conoscenza.

Il significato del mito è duplice: esso può essere letto, infatti, sia in chiave ontologica, sia gnoseologica.

La parte iniziale del mito riprende, infatti, la teoria della linea, già esposta da Platone nei libri precedenti al settimo: il mito della caverna diventa quindi la descrizione della faticosa salita dell'uomo verso la vera conoscenza. La seguente tabella riassume il parallelismo, evidenziando anche il rapporto dimensionale tra le varie parti del segmento.

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