sabato 4 gennaio 2014
Filosofia
Secondo Hegel, il delirio soggettivistico dell’anima bella che si rinchiude nella propria presunta purezza e verità, annichilendo ogni oggettività, può essere proprio anche di comunità, di gruppi, sette o partiti, all’interno delle quali gli accoliti stanno in un rapporto di mutua rassicurazione, ognuno specchiandosi nella purezza identica a se stessa dell’altro, senza alcuna relazione con la vera alterità, l’alterità Altra. Queste anime belle sono preoccupate soprattutto di cogliere la propria purezza interiore e di poterla enunciare. Dalla disposizione orale, aperta all’agire, alla contemplazione di sé: «Il suo [dell’anima bella N.d.A.] agire è l’intuizione [Anschauen] di questa sua propria divinità».
Hegel dunque non condivide l’attrazione che l’intellettualità romantica prova per questa figura chiusa in se stessa, bozzolo di una totalità onnicomprensiva. Per lui, l’Assoluto non è un tutto che riassorbe l’alterità, ma al contrario un’istanza che del lato coscienziale, finito, diviso ha sempre bisogno. Ed è per questo che all’Assoluto è proprio questo bisogno di agire, di produzione di particolarità e di incessante riassunzione di questa nell’intero, nella comprensione: «L’autosufficienza del Sapere assoluto mostra, al contempo, la capacità di autodestituirsi, di rivelarsi non un’appropriazione dell’altro, ma un suo riconoscimento. Abbiamo un movimento nel quale l’altro è reso uguale, ma anche lasciato altro».
Il punto tanto più è delicato perché dalla moralità, da Kant, non si può prescindere: è il frutto maturo del principio superiore dell’età moderna, come Hegel aveva definito il soggettivismo negli Scritti teologici giovanili.
Tuttavia questo principio imprescindibile – la sovranità del punto di vista personale, soggettivo, capace di infondere senso alle cose – non può restare confinato nel Sé, non è giusto resti strozzato nell’intimità dell’Io, e per di più di un Io appagato, chiuso, refrattario alle esperienze suscitate dal desiderio che chiama all’Altro, e che quindi va negato, rimosso, per non macchiare la purezza dell’intenzione.
La strada è tracciata, e passa per quella che oggi definiremo una critica al narcinismo, un narcisismo fondato sulla sconnessione con l’Altro, e sostanziata anche dall’avversione per quella religiosità che finisce col permearlo e con il precludergli ogni contatto col mondo, come già aveva detto a Francoforte nello scritto sulla Volksreligion: «Quanto più rigorosamente in un sistema di morale la pura moralità è in abstracto separata dalla sensibilità, tanto più quest’ultima è svalutata rispetto a quella; tanto più noi, nella considerazione dell’uomo in generale e della sua vita, dobbiamo dare particolare considerazione alla sua sensibilità, alla sua dipendenza dalla natura esterna ed interna, da ciò che lo circonda e da ciò in cui vive, dalle inclinazioni sensibili e dall’istinto cieco».
Azione e responsabilità
Idea astratta e passioni: questi due sono gli estremi che si compiono nel volere umano, incarnando la libertà, cioè l’idea etica stessa. Come notava Valerio Verra, «l’idea paga nella storia il tributo all’esistenza e alla transitorietà non a proprie spese, ma attraverso le passioni dell’individuo».
La Storia è storia dell’imporsi dell’idea di libertà, ma attraverso le passioni degli uomini. Passioni che si scontrano. Da questo confronto/scontro può rinascere la nuova eticità, secondo Hegel, l’eticità dell’individuo moderno, cittadino di uno Stato non subìto, ma voluto. Ma il riconoscimento – l’hegeliana Anerkennung – appare piuttosto come una messa in crisi dell’individualismo, della pura e semplice autoaffermazione e autoconferma del Sé singolo.
È questo il soggetto dello Spirito assoluto. Molto condizionato, ma solo da se stesso. Autonomo, anche se ha appreso che la propria libertà dipende dagli altri, è funzione della libertà di tutti – sia sul piano della libertà intellettuale, sia su quello della libertà civile e politica. Ed esser liberi vuol dire innanzitutto agire.
Anche il detto per cui non c’è eroe per il suo cameriere viene interpretato da Hegel in questa chiave: non perché Napoleone non sia Napoleone, ma perché il cameriere ha il punto di vista del cameriere; non ha insomma le chiavi di lettura consone a comprendere la grandezza del personaggio, mentre ha presente i suoi difetti privati, i suoi tic o le sue debolezze che però non hanno alcuna rilevanza ai fini della valutazione dell’opera dell’Imperatore francese e delle conseguenze del suo fare. In altri termini, il cameriere non capisce quale sia la sostanza dell’azione dell’eroe e si ferma invece agli aspetti particolari o addirittura privati dell’eroe, al gossip. Questo atteggiamento del cameriere, e del cronista improvvido, può essere proprio di chiunque non vada alla sostanza, al risultato dell’azione del politico; di chi, invece di pensare a quanto ha fatto Craxi, per esempio, pensi alla sua passione per i garibaldini. Il senso del perdono hegeliano, in queste pagine, consiste proprio nel fatto che, invece, il filosofo così come lo storico assolvono il limite, emendano l’azione ed il suo risultato dalla sopravvalutazione dell’inclinazione personale che pure avrebbe potuto concorrere a promuoverla.
Particolarizzandosi, così si rinuncia alla totalità dell’universale (ed al totalitarismo integralista che vi è implicato) a favore del particolare. L’agente si distacca quindi dall’universale, dall’ideale puro in base a cui si agisce; poi, faccio, mi particolarizzo e così facendo tradisco quell’universale, ciò che si inibiva l’anima bella. La mia azione mi fa entrare in gioco però con le altre coscienze e posso riconoscerle ed essere riconosciuto. L’azione è relazione.
Hegel si muove sempre in direzione della determinazione del nesso fra il particolare e l’universale, fra l’individuo e l’unità sostanziale. La posizione hegeliana, infatti, vuole evitare la duplice unilateralità dell’individualismo (solo agente o solo chiuso in se stesso) o del predominio del tutto ultraindividuale (dell’Io comune rousseauiano), mediante l’affermazione di un’inseparabilità conflittuale fra due istanze ugualmente necessarie che si legittimano vicendevolmente: «Con l’età moderna non è nato il bisogno di riconoscimento, sono nate le condizioni nelle quali il tentativo di farsi riconoscere può fallire, ed è per questo che oggi, per la prima volta, siamo consapevoli del bisogno di riconoscimento».
In epoca premoderna infatti non era questione di identità o riconoscimento, perché questi concetti non erano ancora tematizzati: l’ilota spartano era immediatamente cittadino, e basta. Esisteva in forma privata solo per i suoi cari. La questione dell’identità personale nasce con la modernità, sotto forma di una ricerca il cui esito peraltro non è in alcun modo garantito. L’individuo non dispone della propria identità in senso assoluto, ma processualmente; neanche nelle società moderne è autosufficiente, ma è costitutivamente rimesso agli altri ed alla propria storia. Ciò che può fare è partecipare alla sua definizione, negoziarla col suo ambiente: e questo scambio può anche essere molto conflittuale, doloroso, come accade in tutte le lotte per il riconoscimento. Per noi moderni da un pezzo non ha più senso parlare di identità personale, ma – dopo Freud – siamo sempre più sensibili all’importanza del processo d’identificazione di ognuno, questo sì assolutamente personale. Inoltre, dal desiderio di oggettivarsi, dal Trieb di uscire da sé come sola via per reincontrarsi davvero, deriva in un’ottica hegeliana anche la decisività dell’azione, del fare, ed anche quindi del lavoro, cioè del nostro commercio attivo col mondo.
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