Secondo Hegel, il delirio soggettivistico dell’anima bella che si
rinchiude nella propria presunta purezza e verità, annichilendo ogni
oggettività, può essere proprio anche di comunità, di gruppi, sette o
partiti, all’interno delle quali gli accoliti stanno in un rapporto di
mutua rassicurazione, ognuno specchiandosi nella purezza identica a se
stessa dell’altro, senza alcuna relazione con la vera alterità,
l’alterità Altra. Queste anime belle sono preoccupate soprattutto di
cogliere la propria purezza interiore e di poterla enunciare. Dalla
disposizione orale, aperta all’agire, alla contemplazione di sé: «Il suo
[dell’anima bella
N.d.A.] agire è l’intuizione [
Anschauen] di questa sua propria divinità».
Hegel dunque non condivide l’attrazione che l’intellettualità romantica
prova per questa figura chiusa in se stessa, bozzolo di una totalità
onnicomprensiva. Per lui, l’Assoluto non è un tutto che riassorbe
l’alterità, ma al contrario un’istanza che del lato coscienziale,
finito, diviso ha sempre bisogno. Ed è per questo che all’Assoluto è
proprio questo bisogno di agire, di produzione di particolarità e di
incessante riassunzione di questa nell’intero, nella comprensione:
«L’autosufficienza del Sapere assoluto mostra, al contempo, la capacità
di autodestituirsi, di rivelarsi non un’appropriazione dell’altro, ma un
suo riconoscimento. Abbiamo un movimento nel quale l’altro è reso
uguale, ma anche lasciato altro».
Il punto tanto più è delicato perché dalla moralità, da Kant, non si può prescindere: è il frutto maturo del
principio superiore dell’età moderna, come Hegel aveva definito il soggettivismo negli
Scritti teologici giovanili.
Tuttavia questo principio imprescindibile – la sovranità del punto di
vista personale, soggettivo, capace di infondere senso alle cose – non
può restare confinato nel Sé, non è giusto resti strozzato nell’intimità
dell’Io, e per di più di un Io appagato, chiuso, refrattario alle
esperienze suscitate dal desiderio che chiama all’Altro, e che quindi va
negato, rimosso, per non macchiare la purezza dell’intenzione.
La strada è tracciata, e passa per quella che oggi definiremo una critica al
narcinismo,
un narcisismo fondato sulla sconnessione con l’Altro, e sostanziata
anche dall’avversione per quella religiosità che finisce col permearlo e
con il precludergli ogni contatto col mondo, come già aveva detto a
Francoforte nello scritto sulla
Volksreligion: «Quanto più rigorosamente in un sistema di morale la pura moralità è
in abstracto
separata dalla sensibilità, tanto più quest’ultima è svalutata rispetto
a quella; tanto più noi, nella considerazione dell’uomo in generale e
della sua vita, dobbiamo dare particolare considerazione alla sua
sensibilità, alla sua dipendenza dalla natura esterna ed interna, da ciò
che lo circonda e da ciò in cui vive, dalle inclinazioni sensibili e
dall’istinto cieco».
Azione e responsabilità
Idea astratta e passioni: questi due sono gli estremi che si compiono
nel volere umano, incarnando la libertà, cioè l’idea etica stessa. Come
notava Valerio Verra, «l’idea paga nella storia il tributo all’esistenza
e alla transitorietà non a proprie spese, ma attraverso le passioni
dell’individuo».
La Storia è storia dell’imporsi dell’
idea di libertà, ma
attraverso le passioni degli uomini. Passioni che si scontrano. Da
questo confronto/scontro può rinascere la nuova eticità, secondo Hegel,
l’eticità dell’individuo moderno, cittadino di uno Stato non subìto, ma
voluto. Ma il riconoscimento – l’hegeliana
Anerkennung – appare
piuttosto come una messa in crisi dell’individualismo, della pura e
semplice autoaffermazione e autoconferma del Sé singolo.
È questo il soggetto dello Spirito assoluto. Molto condizionato, ma solo
da se stesso. Autonomo, anche se ha appreso che la propria libertà
dipende dagli altri, è funzione della libertà di tutti – sia sul piano
della libertà intellettuale, sia su quello della libertà civile e
politica. Ed esser liberi vuol dire innanzitutto agire.
Anche il detto per cui
non c’è eroe per il suo cameriere viene
interpretato da Hegel in questa chiave: non perché Napoleone non sia
Napoleone, ma perché il cameriere ha il punto di vista del cameriere;
non ha insomma le chiavi di lettura consone a comprendere la grandezza
del personaggio, mentre ha presente i suoi difetti privati, i suoi tic o
le sue debolezze che però non hanno alcuna rilevanza ai fini della
valutazione dell’opera dell’Imperatore francese e delle conseguenze del
suo fare. In altri termini, il cameriere non capisce quale sia la
sostanza dell’azione dell’eroe e si ferma invece agli aspetti
particolari o addirittura privati dell’eroe, al gossip.
Questo atteggiamento del cameriere, e del cronista improvvido, può
essere proprio di chiunque non vada alla sostanza, al risultato
dell’azione del politico; di chi, invece di pensare a quanto ha fatto
Craxi, per esempio, pensi alla sua passione per i garibaldini. Il senso
del perdono hegeliano, in queste pagine, consiste proprio nel fatto che,
invece, il filosofo così come lo storico assolvono il limite, emendano
l’azione ed il suo risultato dalla sopravvalutazione dell’inclinazione
personale che pure avrebbe potuto concorrere a promuoverla.
Particolarizzandosi, così si rinuncia alla totalità dell’universale (ed
al totalitarismo integralista che vi è implicato) a favore del
particolare. L’agente si distacca quindi dall’universale, dall’ideale
puro
in base a cui si agisce; poi, faccio, mi particolarizzo e così facendo
tradisco quell’universale, ciò che si inibiva l’anima bella. La mia
azione mi fa entrare in gioco però con le altre coscienze e posso
riconoscerle ed essere riconosciuto. L’azione è relazione.
Hegel si muove sempre in direzione della determinazione del nesso fra il
particolare e l’universale, fra l’individuo e l’unità sostanziale. La
posizione hegeliana, infatti, vuole evitare la duplice unilateralità
dell’individualismo (solo agente o solo chiuso in se stesso) o del
predominio del tutto ultraindividuale (dell’Io comune rousseauiano),
mediante l’affermazione di un’inseparabilità conflittuale fra due
istanze ugualmente necessarie che si legittimano vicendevolmente: «Con
l’età moderna non è nato il bisogno di riconoscimento, sono nate le
condizioni nelle quali il tentativo di farsi riconoscere può fallire, ed
è per questo che oggi, per la prima volta, siamo consapevoli del
bisogno di riconoscimento».
In epoca premoderna infatti non era questione di identità o
riconoscimento, perché questi concetti non erano ancora tematizzati:
l’ilota spartano era immediatamente cittadino, e basta. Esisteva in
forma privata solo per i suoi cari. La questione dell’identità personale
nasce con la modernità, sotto forma di una ricerca il cui esito
peraltro non è in alcun modo garantito. L’individuo non dispone della
propria identità in senso assoluto, ma processualmente; neanche nelle
società moderne è autosufficiente, ma è costitutivamente rimesso agli
altri ed alla propria storia. Ciò che può fare è partecipare alla sua
definizione, negoziarla col suo ambiente: e questo scambio può anche
essere molto conflittuale, doloroso, come accade in tutte le lotte per
il riconoscimento. Per noi moderni da un pezzo non ha più senso parlare
di identità personale, ma – dopo Freud – siamo sempre più sensibili
all’importanza del
processo d’identificazione di ognuno, questo sì assolutamente personale. Inoltre, dal desiderio di oggettivarsi, dal
Trieb
di uscire da sé come sola via per reincontrarsi davvero, deriva in
un’ottica hegeliana anche la decisività dell’azione, del fare, ed anche
quindi del
lavoro, cioè del nostro commercio attivo col mondo.