mercoledì 22 febbraio 2012
mercoledì 15 febbraio 2012
martedì 14 febbraio 2012
Pensieri
Cinema
Claire Stenwick è un'avvenente agente della CIA con licenza di sedurre, Ray Koval è un agente dei servizi segreti britannici sedotto (drogato e gabbato) dal fascino della concorrenza. A New York, cinque anni dopo, Claire e Ray si ritrovano loro malgrado occupati per la stessa multinazionale, che vorrebbe entrare in possesso della formula di un prodotto rivoluzionario in anticipo sull'azienda rivale. Innamorati con riserva, diffidenti per mestiere, i due amanti depongono le armi, praticano l'amore, bevono champagne, bruciano di passione e pianificano di imbrogliare i magnati delle industrie concorrenti. Tra Dubai e Miami, tra Cleveland e Roma, tra salti temporali e sentimenti senza fine, Claire e Ray getteranno la maschera e berranno alla salute di una sfida inaugurata con un Margarita e finita "in bollicine".
Già dal titolo, Duplicity esplicita la sua doppia natura, la sua appartenenza a regimi discorsivi diversi che cercano di trovare una loro complementarietà. Da un lato l'inequivocabile spy story, dall'altro la screwball comedy, ovvero la "commedia svitata" del desiderio che si consuma in un'attesa carica di sfide, brividi, azioni e conversazioni seduttive e continuamente rilanciate. Dopo Michael Clayton, un thriller medio dalle ambizioni sproporzionate, Tony Gilroy gira una commedia romantica dentro le maglie di un semplice racconto di spionaggio, un luogo dei generi dove tutti mentono e bluffano. Noto come sceneggiatore della trilogia di Jason Bourne, il regista americano al suo secondo film impiega a trecentosessanta gradi il divismo frontale di Julia Roberts e Clive Owen, come già aveva fatto con quello di sbieco di George Clooney. Gli agenti belli e speciali di una multinazionale di cosmetici e lozioni "svitano" tappi (come indica la sfumatura etimologica screwy), si concedono parecchi calici di champagne e stabiliscono la propria relazione come campo di gioco e il gioco qualche volta può farsi duro. Quel che in Ray si configura come aperta battaglia, in Claire è esercizio di strategia, dialettica e fisica, che precipita il rivale amato in situazioni imbarazzanti e irresistibili.
Lungo questa frontiera tra spionaggio e sentimento si colloca Duplicity, diffuso di folgorante stordimento, agito da una signora intraprendente e un mascalzone azzimato, condito di femminile astuzia e di virile orgoglio. Abbandonata la confezione patinata del legal thriller precedente, Gilroy reitera l'interessante architettura narrativa della saga di Bourne, procedendo e muovendosi questa volta verso le origini di una coppia. In un contesto spaziale e industriale disseminato di antagonisti, le spie amanti Stenwick e Koval, al contrario di Matt Damon, sono inseguitori che diventano inseguiti, spie che diventano obiettivi. Ancora una volta lo sceneggiatore promosso autore fa sua la grande lezione della serialità televisiva, capace di costruire personaggi tanto profondi quanto calati nell'azione. Scandito da inseguimenti e appuntamenti, da dislocazioni e flash di memoria, per rimarcare il concetto che i personaggi sono l'azione, Duplicity si avvia verso un epilogo quasi meraviglioso e ad alta concentrazione alcolica.
mercoledì 8 febbraio 2012
Pensieri
Internazionale
Siamo veramente liberi di costruire la nostra vita? Il nostro futuro è davvero nelle nostre mani? Il nostro Wellthiness è solo frutto del nostro agire o è già scritto a priori?
Nella lontana e spirituale India vengono conservate migliaia di foglie di palma sulle quali, si dice, che ci sia scritto il destino degli uomini.La tradizione vuole che, migliaia di anni fa, degli uomini santi, i Rishi, abbiano avuto la possibilità di canalizzare le conoscenze riguardanti eventi futuri del mondo e le informazioni dettagliate su ogni persona che avrebbe visitato l’India per conoscere il proprio destino.
LE ORIGINI
Le origini del Shastra Naadi (trattati di energia canalizzata) sono avvolte nelle nebbie del tempo. Si tratta di un affascinante sistema di predizione usato, per molti secoli, e che, per chi ci crede, rappresenta una guida affidabile per la conoscenza di se stessi, del proprio passato e futuro, delle proprie relazioni e dei propri destini.
Una serie di ricerca hanno dimostrato che questo sistema è utilizzato da almeno 4000 anni, dal momento che i trattati Naadi sono stati scritti (su rotoli di foglie di palma) in sanscrito, la lingua predominante dell’antica India.
La trasmissione originale avveniva per via orale.
I Shastra, si ritiene, che siano stati i primi ad essere composti molto tempo fa dai Sapta Rishi (sette saggi) – Agasthya, Kausika, Vyasa, Bohar, Bhrigu, Vasishtha e Valmiki.
Il centro principale nel quale si svolge ancora oggi la lettura dei Naadi Shastra è nel Vaitheeswarankoil, nei pressi di Chidambaram nel Tamil Nadu, uno stato nel sud dell’India.
Qui Lord Shiva, si narra, che ha assunto il ruolo di un vaidhya (un medico), dedito a cercare di alleviare le sofferenze dei propri devoti.
Fino al 1930, i Naadi sono rimasti non più che un antico retaggio: erano poco utilizzati quando, non, addirittura, incomprensibili da parte della maggioranza degli astrologi indù.
La conservazione delle foglie di palma Naadi la e la traduzione dal sanscrito in una forma antica della lingua Tamil è stata effettuata, su larga scala, circa 1000 anni fa, durante il regime dei re di Tanjore (dal 9 al 13 secolo dC).
Quando, poi, con il passare del tempo e l’usura, le foglie hanno iniziato a rompersi, i governanti Tanjore hanno incaricato una serie di studiosi di trascrivere il tutto su fresche ola (foglie di palma). Alcuni dei grantha Naadi sono stati anche tradotti in un’altra lingua indiana del Sud, Telugu.
Ogni Naadi è costituito da una ola particolare o una foglia di palma, scritta in ezathu vatta, lingua tamil, tramite uno strumento simile ad un chiodo chiamato ezuthani.
Le foglie di palma sono preservate venendo sfregate con olio di pavone, quando vengono utilizzate per i vaticini. Vengono conservate, specialmente, nella biblioteca Mahal Saravasti di Tanjore, nel sud dello stato indiano del Tamil Nadu.
Le previsioni dei Naadi sono, in generale, espresse in forma di commenti, anche se nei Shiva Naadi sono presenti come conversazioni tra il Dio Shiva e Parvati Mata, che esprimono la loro preoccupazione e le benedizioni su di loro devoti.
I contenuti delle varie foglie sono una serie di manoscritti altamente organizzati divisi in sedici capitoli o kandams. Le Kandams descrivono i vari aspetti della vita materiale e spirituale del destino di un individuo come la famiglia, il matrimonio, professione, ricchezza…
L’ASTROLOGIA
Il termine Naadi si riferisce ad un arco molto piccolo dello zodiaco, di dimensioni che vanno da 1/150 ad 1/600 di un segno (da 12 a 3 minuti). Ci sono molti antichi testi astrologici Naadi alcuni dei quali si occupano solo delle implicazioni astrologiche ed altri che combinando le caratteristiche della chiromanzia e dell’astrologia.
Del primo tipo sono testi come Bhrigu Naadi, Dhruva Naadi, ecc, mentre gli scritti in lingua tamil come Saptarishi Naadi appartengono al secondo gruppo.
Nella cultura Naadi, le persone che hanno come ascendente un determinato segmento di arco temporale, pare che siano soggetti a seguire modelli di vita predefiniti espressi in termini di transiti planetari. Sulla base di un simile schema interpretativo viene letto il vasto corpus di manoscritti registrati sulle foglie di palma.
IL PERCORSO DI LETTURA
Il percorso di lettura del destino inizia fissando un appuntamento, con circa due settimane di anticipo, perché, oggi, i lettori Naadi sono molto occupati. Il giorno stabilito, prima che la cerimonia inizi, ai partecipanti viene domandato di registrarsi depositando, su piccoli fogli di carta, l’impronta digitale del proprio pollice (il destro per gli uomini ed il sinistro per le donne) ed un nome, non necessariamente il proprio vero.
Le impronte digitali sono state suddivise in 108 categorie, per potere procedere alla particolare lettura Naadi.
Quindi, il primo passo è di stabilire a quale delle suddette categorie corrisponde l’impronta digitale del pollice. Una volta rintracciato il gruppo di appartenenza, il lettore Naadi inizia la ricerca tra le foglie di palma.
L’operazione di indagine è molto lunga e può durare anche l’intera giornata. Invero il processo di individuazione è scandito da due diverse fasi: nella prima il lettore Naadi, tramite l’impronta digitale, identifica un certo numero di foglie che le corrispondono e tra le quali ci potrebbe essere la specifica del soggetto in questione, nella seconda, con l’aiuto del soggetto stesso, al quale il lettore pone una serie di domande, viene trovata la sua foglia personale.
Quindi, appena il lettore seleziona le potenziali foglie del destino, chiede al soggetto che lo ha interpellato di accomodarsi in una stanza, per dare inizio alla seconda fase di scrematura.Prima di incominciare, a chi lo interpella, il lettore chiede di rispondere ad una serie di quesiti ai quali si deve, semplicemente, rispondere con un ‘sì’ o un ‘no’, per non fornire ulteriori informazioni e dettagli.
Il lettore apre il primo gruppo di foglie ed inizia a leggere, ad alta voce, i contenuti in lingua tamil. Ogni volta che il lettore identifica qualche informazione che potrebbe essere abbastanza importante per formulare una domanda, interrompe la lettura e comunica all’interpretare che lo accompagna il quesito.
Se la risposta è affermativa, prosegue nella consultazione della foglia ponendo altre domande, finchè non arriva una risposta affermativa, al che cambia il gruppo di foglie.Indipendentemente dal fatto che ci crediamo o meno alla possibilità che qualcuno abbia scritto millenni fa il nostro destino, è interessante notare come il desiderio di rifiutare la credenza, diffusa in epoca Postmoderna, che tutto, dal mondo alla vita dell’uomo, sia affidato esclusivamente al caso, ad una serie fortuita di coincidenze, ha sempre meno credibilità nella società di oggi.
Il numero di persone che ricerca un senso, il Senso del proprio esistere, convinta di avere una missione da compiere su questa Terra, di essere frutto di un disegno divino (per alcuni che non lede il libero arbitrio, per altri che assume la forma di uno stretto determinismo) cresce in continuazione.
La ricerca di senso è proprio una delle cifre che contraddistinguono l’era in stato nascente, un’epoca nella quale l’uomo, come da sempre, dà due diverse risposte. Da un lato, si sente, fino in fondo, responsabile di se stesso, del proprio futuro, artefice del proprio destino. Si tratta dell’atteggiamento tipico della nuova generazione dell’UniCum. Dall’altro, si convince di non avere scelta, di essere inserito in un meccanismo, a-priori, dal quale non può sfuggire.
Le due alternative descrivono due modi diversi di affrontare la vita: uno più attivo, pro-attivo, co-creativo, l’altro più passivo, più deterministico
In entrambi i casi, però, consta il fatto che l’era dell’uomo ad una dimensione, in balia del caso, del nonsenso, pare abbia, ormai, segnato il passo.
Cinema
La guerra di Troia la conosciamo (o crediamo di conoscerla) tutti. Perchè a scuola abbiamo amato (o subito) Omero. Perchè alcuni suoi protagonisti hanno nomi che valicano anche la barriera dell'incultura dei talk show televisivi o dei 'Grandi Fratelli'. I meno giovani poi hanno anche avuto la fortuna di nutrirsi di peplum e affini negli anni Sessanta e questo ha ampliato il loro immaginario in materia. Trovarsi quindi di fronte a tutta la vicenda (a partire dal rapimento di Elena sino alla morte di Achille) non presenta novità ma carica comunque di aspettative. A questo punto vanno pronunciati due giudizi: uno contro e uno a favore. Quello 'contro' non è certo legato alla spettacolarizzazione (necessaria per un film cosi') quanto piuttosto al fatto che Troy paga il fatto di venire dopo Il Signore degli Anelli. Quindi tutte le battaglie finiscono, pur con il grande dispiego di mezzi che le caratterizza, a sembrare deja vu e comunque visivamente meno 'ricche' di quelle che le hanno precedute sullo schermo.
Il pregio sta invece nella grande scena del combattimento tra Ettore ed Achille. Sarà che la pagina omerica è a quel punto così "grande" da non poter che ispirare immagini forti ma la commozione prende e prosegue con la prestazione di un grande Peter O'Toole (Priamo) che va a chiedere a un Brad Pitt (Achille) quantomai misurato di restituirgli il corpo del figlio. Quell'Achille che in altra parte del film aveva affermato che proprio la consapevolezza di essere mortali rende affascinanti gli eventi della vita. Un'ultima annotazione: si tratta di un film a cui si possono portare i ragazzi. A ripassare (o magari a conoscere per la prima volta) una vicenda che potrebbe, forse, farli innamorare della pagina scritta.
domenica 5 febbraio 2012
Pensieri
Serie tv
Spartacus è una serie televisiva statunitense incentrata sulle gesta di Spartaco, gladiatore trace interpretato dall'attore australiano Andy Whitfield, successivamente sostituito da Liam McIntyre.
Mescolando azione e romanticismo, la serie racconta le gesta del trace Spartaco, fatto prigioniero dai romani e divenuto gladiatore, e della sua rivolta contro la Repubblica romana nel 73 a.C., illustrando come poteva essere la vita da gladiatore del trace. È una serie trasmessa su un canale privato, Starz. Conseguentemente non subisce una forte censura, e sono numerose le scene a carattere erotico/sessuale e di violenza. L'intento è di rappresentare la società romana dell'epoche delle Guerre Civili in modo vivo ed intenso, senza mezze misure, ma con la violenza quotidiana del mondo dei gladiatori come quella provocata dagli intrighi delle classi più alte, che si abbandonano al contempo alla lussuria ed agli agi. La fotografia e gli effetti visivi si ispirano alle note opere grafiche e cinematografiche di Frank Miller, come 300 e Sin City.Originale e intensa anche se parecchio violenta.
Cinema
Una malattia per molti versi simile all'influenza suina ma capace di svilupparsi anche per contatto con estrema rapidità sta colpendo il mondo. La comunità medica mondiale si trova in breve tempo a dover affrontare la ricerca di una cura e il controllo del panico che si diffonde progressivamente ovunque. Le persone reagiscono in modo diverso e a seconda della responsabilità che è stata loro attribuita o che si sono autonomamente conferita.
Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean's Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico. Potremmo rifarci a Traffic per questo film ma la memoria corre piuttosto al cinema altmaniano in cui una molteplicità di personaggi (nessuno dei quali viene mai narrativamente abbandonato) contribuisce alla costruzione di un mosaico in cui le ombre prevalgono sulle luci. Il tema sociologicamente impegnativo della reazione nei confronti dell'ignoto sembra appassionare il regista che lo scandaglia sotto le più diverse prospettive che finiscono con il rivelarsi sempre e comunque parziali e incapaci di fornire risposte risolutive.
Che si tratti della reazione dell'uomo che perde moglie e figlio o del responsabile del Consiglio Mondiale della Sanità oppure che si evidenzino le ragioni (ma anche la paranoia) del fustigatore mediatico di qualsiasi complotto (vero o presunto) gli elementi dei primordi (sesso, bugie e videotape) non sono estranei a un film che prende l'avvio dal giorno numero 2. Da lì si dipanano vicende private e pubbliche scandite con la cronometrica precisione dell'orologio della Morte. Il principio della fine verrà reso noto solo in conclusione. Dove si mostrerà che le piaghe che tormentano l'uomo d'oggi non hanno la dimensione epica di quelle bibliche. Possono avere cause molto ma molto più banali.Angosciante.
Serie tv
Rebecca Madsen è una detective del San Francisco Police Department che sta indagando su un atroce caso d'omicidio, quando si ritrova con un'impronta appartenente a Jack Sylvane, un criminale che era rinchiuso nella vecchia prigione di Alcatraz e che era dato per morto da decenni. Quando tenta di approfondire il mistero, l'agente federale Emerson Hauser tenta inizialmente di ostacolarla, per poi affiancarla nelle indagini con il suo fidato tecnico di laboratorio Lucy. Rebecca, che nel frattempo si era rivolta all'esperto della prigione Diego Soto, scopre che non solo Sylvane è ancora vivo, ma non è invecchiato di un giorno dai tempi in cui era rinchiuso ed è tornato a seminare vittime. Inoltre, presto la detective Madsen si renderà conto che Sylvane è solo una piccola parte di un mistero molto più grande: altri prigionieri stanno infatti per riapparire dal passato.Una serie interessante ed originale con un cast di ottimi attori a partire dall'eccellente Sam Neill.
Cinema
In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d'arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L'imprevisto ‘dare di stomaco' sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un'esilarante carneficina dialettica.
Non è la prima volta che Roman Polanski ‘costringe' e isola i suoi protagonisti a bordo di una barca, dentro un castello, oltre il ghetto di Cracovia, sopra un'isola (in)accessibile. Da sempre nella filmografia del regista polacco la separazione è necessaria per mettere ordine e avviare un' ‘inchiesta'. Accomodati tre premi Oscar (Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz) e un candidato eterno non protagonista (John C. Reilly) in un appartamento di Brooklyn, ambientazione dichiarata dalla prima inquadratura e trattenuta da due alberi che dietro le fronde rivelano lo skyline ‘alterato' di Manhattan, Polanski denuncia ancora una volta il riferimento al (suo) maestro inglese. In particolare un capolavoro di Hitchcock palpita sotto la superficie, un omaggio che dopo molte risate lascia un ‘nodo alla gola'. Trattenuto in un'unica location e svolto in tempo reale, Carnage è ‘scenograficamente' prossimo al Rope hitchcockiano che, girato a Los Angeles, apriva le finestre del suo appartamento su una Manhattan in scala, ricreata attraverso un ciclorama di quattrocento metri quadrati e illuminato da un'abbondanza di lampadine e insegne al neon. Il richiamo non si limita allo spazio esterno, ma ancora e di più a quella maniera unica di tradurre un'idea in un movimento, in movimenti invisibili quanto mirabili di macchina. Versione cinematografica della piéce teatrale di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice con Polanski, Carnage coniuga il piacere della forma al valore della storia, una storia che ancora una volta suggerisce l'illusione della trasparenza. La maschera linda dei quattro protagonisti insinua presto un malessere sordo, un orrore che c'è e si vede. Così progressivamente le tempeste dialettiche restituiscono alla superficie i ‘corpi' nascosti nei bauli dalla stessa vanità e gratuità degli studenti hitchcockiani.
Polanski, naturalizzato francese ma apolide per vocazione, satura l'inquadratura di uomini e donne che si sentono ostinatamente migliori dell'ambiente che li circonda, che rimandano a se stessi come gli specchi dell'appartamento, ubicato fuori dalla finzione a Parigi e dimostrazione della condizione di “perseguitato” di Polanski. In cattività, congiuntamente ai suoi coniugi (in)stabili e (ir)ragionevoli, il regista ribadisce l'impraticabilità di introdurre un ordine nella realtà perché basta un conato di bile, un cellulare annegato, un libro imbrattato, una borsetta rovesciata a disperdere equilibrio e ‘democrazia'. Città immaginaria e ferocemente reale, New York apre e chiude il dramma da camera di Polanski, che spacca e fruga, ‘percorrendo' con lo sguardo personaggi già ipocriti e corrotti, strumenti di ferocia intrappolati in un cul de sac. In barba al politicamente corretto, l'irriducibile e non riconciliato Polanski ha cominciato a saldare i conti con l'American Dream. Un sogno che non c'è più e forse è solo la più grande menzogna mai tramandata.
venerdì 3 febbraio 2012
Dipinti
Accadimenti
Leonardo da Vinci potrebbe aver copiato dagli schizzi di un amico l'Uomo Vitruviano, una delle sue opere più famose. Lo sostiene Claudio Sgarbi, architetto e ricercatore italiano, in uno studio di prossima pubblicazione.
L'Uomo Vitruviano è una delle opere più misteriose del genio fiorentino: disegnata attorno al 1490, raffigura una figura maschile inscritta dentro un cerchio e un quadrato e rappresenta la connessione tra l'umano e il divino.
Il disegno del de Ferrara è stato scoperto nel 1986 all'interno di un manoscritto conservato nella biblioteca dell'omonima cittadina ed è molto simile a quello di Leonardo. Le due opere raffigurano un passaggio scritto 1500 anni prima da Vitruvio, un celebre architetto romano, che descrive la figura di un uomo circoscritta dentro ad un cerchio (il simbolo del divino) e un quadrato (il simbolo del terreno).
Claudio Sgarbi, dopo lunghi studi, è arrivato alla conclusione che lo schizzo trovato nella cittadina emiliana sia stato realizzato da Giacomo Andrea de Ferrara, architetto rinascimentale esperto di Vitruvio e grande amico di Leonardo.
La convinzione che l'opera di de Ferrara sia precedente a quella di Leonardo è scaturita dall'analisi di alcuni scritti in cui l'artista fiorentino si riferisce esplicitamente al disegno dell'amico. Non solo: secondo gli scritti i due si sarebbero incontrati nel luglio del 1490, anno al quale risalgono entrambe le opere.
E sebbene i due disegni interpretino in modo molto simile le parole di Vitruvio, lo schizzo di Leonardo è eseguito alla perfezione e con mano ferma mentre quello di de Ferrara è pieno di false partenze, ripensamenti e correzioni.
È comunque chiaro che l'opera di Leonardo sia un notevole miglioramento di quella dell'amico: «Leonardo è di gran lunga un disegnatore migliore, con conoscenze dell'anatomia molto superiori a quelle di de Ferrara» spiega Indra McEwen.
Ma perchè uno dei due Uomini Vitruviani è diventato celebre mentre l'altro è stato dimenticato per oltre 5 secoli? Probabilmente è colpa del fato e di alcune vicende storiche: nel 1499, quando i francesi invasero Milano, portarono a Parigi il disegno di Leonardo, mentre quello di Giacomo Andrea, rimasto in Italia, non potè godere di altrettanta fama.
mercoledì 1 febbraio 2012
Cinema
Alice e Mattia. Coetanei a Torino. Bambini le cui coscienze sono attraversate da un trauma profondo che non li abbandonerà mai. Alice e Mattia. Si conoscono. Potrebbero amarsi. Si separano (lui accetta un incarico in Germania e lei si sposa). Potrebbero ritrovarsi se consentissero a se stessi ciò che si sono sempre in qualche modo vietati.
Saverio Costanzo alla sua terza prova si assume il non facile compito di rileggere un best seller quale è il romanzo omonimo di Paolo Giordano (con il quale scrive la sceneggiatura). Lo fa con grande coraggio a partire dal nuovo mutamento di stile. Nessuno dei tre film del regista è simile all'altro nello sguardo e nelle modalità di ripresa perché Costanzo adatta il proprio fare cinema (che resta coerente in quanto a scelta di tematiche di base) alla storia che racconta. Questo può spiazzare chi preferisce che un regista rimanga sempre fedele ad elementi linguistici che lo rendano facilmente identificabile e collocabile.
Costanzo destruttura la linearità narrativa del romanzo avvertendoci sin dall'inizio (grazie anche alla musica di Mike Patton e a una grafica di forte impatto) che ci troviamo dinanzi ad un horror. Perché l'orrore della sofferenza attraversa corpi ed anime dei due protagonisti. Alice, la cui lesione fisica verrà spiegata solo molto più avanti ma che da subito determina il suo rapporto con il mondo e Mattia, che ha un vulnus che lo tormenta nel profondo spingendolo all'autolesionismo. Due corpi che potrebbero fondersi ma che restano murati in una solitudine che si presenta come ineluttabile perché il senso di colpa e il sentirsi fuori posto (in una società sempre più spietata sin dalle età più giovani) finiscono con lo spingere a costruire muri in cui si possono aprire solo piccole brecce che sembrano sempre pronte a richiudersi.
I flashback inseguono i flashforward perché il dolore non conosce percorsi canonici e gli eventi che hanno segnato una vita non chiedono il permesso per riemergere. Costanzo ricostruisce la sofferenza del vivere di Alice e Mattia quasi fosse il puzzle che quest'ultimo portò alla festa di compleanno di un compagno di classe che costituì l'atroce punto di non ritorno della sua vita. I pezzi di un puzzle si combinano per associazioni che ogni appassionato al gioco individua in modo diverso e finiscono con il determinare solo alla fine una struttura che origina dal caos di una miriade di pezzi. Così come le vite dei due protagonisti. Così come le vite di molti. Numeri primi divisibili solo per uno e per sé stessi in disperata e talvolta contraddittoria ricerca di una possibilità diversa.Assolutamente perfetta Alba Rohrwacher.
Scienza
Nell’insieme, un sentimento è la “veduta” momentanea di una parte di quel paesaggio del corpo. Esso ha un contenuto specifico (lo stato del corpo) e specifici sistemi neurali di sostegno (il sistema nervoso periferico e le regioni del cervello che integrano i segnali correlati con la regolazione e la struttura del corpo). Poiché il senso di tale paesaggio del corpo è affiancato, nel tempo, alla percezione e alla reminiscenza di qualcos’altro che non è parte del corpo - un viso, una melodia, un aroma - i sentimenti finiscono con l’essere «qualificatori» di tale qualcos’altro. Ma c’è di più, nel sentimento. Come spiegherò più avanti, lo stato qualificante del corpo, positivo o negativo, è accompagnato e costruito da una corrispondente modalità di pensiero: veloce e ricca di idee, quando lo stato corporeo è nella fascia positiva, piacevole, dello spettro; lenta e ripetitiva, quando esso volge verso la fascia dolorosa.
In tale prospettiva, i sentimenti sono i sensori per l’accoppiamento - o il mancato accoppiamento - tra natura e circostanze. Per natura intendo sia quella che abbiamo ereditato come pacchetto di adattamenti geneticamente organizzati, sia quella che abbiamo acquisito nello sviluppo individuale, attraverso interazioni con l’ambiente fisico e sociale, in modo consapevole e voluto oppure no. I sentimenti, insieme con le emozioni da cui provengono, non sono un lusso: essi servono come guide interne, ci aiutano a comunicare agli altri significati che possono guidare anche loro. E i sentimenti non sono né inafferrabili né sfuggenti; contrariamente a quanto ritiene l’opinione scientifica tradizionale, essi sono altrettanto cognitivi quanto gli altri precetti. Sono il risultato di una straordinaria sistemazione fisiologica che ha fatto del cervello l’avvinto uditorio del corpo.
I sentimenti ci consentono di dare un’occhiata all’organismo in pieno fervore biologico, di cogliere un riflesso dei meccanismi della vita stessa nel loro operare.
Se non fosse per la possibilità di sentire stati del corpo che sono intrinsecamente consacrati a essere dolorosi o piacevoli, nella condizione umana non vi sarebbero sofferenza o beatitudine, brama o mercé, tragedia o gloria.
A prima vista, l’immagine qui proposta dello spirito umano può non essere intuitiva, né confortante. Nel tentativo di gettare luce sui complessi fenomeni della mente umana, rischiamo di degradarli e di perderli con la spiegazione; ma ciò accadrà soltanto se confonderemo un fenomeno con i componenti e i processi separati che possono ritrovarsi dietro la sua apparenza - e non è questo che voglio suggerire.
Scoprire che un particolare sentimento dipende dall’attività di un certo numero di specifici sistemi cerebrali in interazione con un certo numero di organi del corpo non sminuisce lo status di quel sentimento come fenomeno umano. Né l’angoscia né l’euforia che amore o arte possono portare con se risultano svalutate dal comprendere alcune delle miriadi di processi biologici grazie ai quali esse sono quel che sono. Dovrebbe essere vero proprio il contrario: il nostro senso di meraviglia dovrebbe aumentare, dinanzi agli intricati meccanismi che rendono possibile tale magia. I sentimenti formano la base di quello che da millenni gli esseri umani descrivono come lo spirito o l’anima dell’uomo.
Questo libro tratta anche un terzo argomento, collegato con i primi due: quello in base al quale il corpo, così come è rappresentato nel cervello, può costituire l’indispensabile cornice di riferimento per i processi neurali che noi avvertiamo come mente. Proprio il nostro organismo, piuttosto che qualche realtà esterna assoluta, è usato come riferimento base per le costruzioni che elaboriamo del mondo circostante e di quel senso di soggettività, sempre presente, che è parte integrante delle nostre esperienze; e le nostre azioni migliori e i pensieri più elaborati, le nostre gioie e i nostri dolori più grandi, tutti impiegano il corpo come riferimento.
Per quanto sulle prime possa sorprendere, la mente esiste dentro e per un organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello - nel corso dell’evoluzione, durante lo sviluppo dell’individuo e nel momento presente. La mente dovette prima essere per il corpo, o non sarebbe potuta essere. Sulla base del riferimento che il corpo fornisce con continuità, la mente può allora avere a che fare con molte altre cose, reali e immaginarie.
Quest’idea si radica sui seguenti enunciati:
1) il cervello umano e il resto del corpo costituiscono un organismo non dissociabile, integrato grazie all’azione di circuiti regolatori neurali e biochimici interagenti (che includono componenti endocrini, immunitari e nervosi autonomi);
2) l’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme: l’interazione non è del solo corpo né del solo cervello;
3) i processi fisiologici che noi chiamiamo «mente» derivano dall’insieme strutturale e funzionale, piuttosto che dal solo cervello: soltanto nel contesto dell’interagire di un organismo con l’ambiente si possono comprendere appieno i fenomeni mentali. Il fatto che l’ambiente sia, in parte, un prodotto dell’attività stessa dell’organismo semplicemente sottolinea la complessità delle interazioni che bisogna tenere in conto.
Quando si parla di cervello e di mente, non è consuetudine fare riferimento agli organismi. Di fronte all’evidenza che la mente scaturisce dall’attività dei neuroni, si discute solo di questi, come se il loro funzionamento potesse essere indipendente da quello del resto dell’organismo. Ma via via che studiavo i disturbi della memoria, del linguaggio e della ragione, presenti in numerosi esseri umani colpiti da lesioni al cervello, sempre più mi si imponeva l’idea che l’attività mentale - nei suoi aspetti più semplici come in quelli più alti - richiede sia il cervello sia il resto del corpo. Quest’ultimo, a mio avviso, fornisce al primo più che un puro sostegno e una modulazione: esso fornisce la materia di base per le rappresentazioni cerebrali.
E un’idea sostenuta da fatti; vi sono ragioni che la rendono plausibile e ragioni per le quali sarebbe bello se le cose stessero davvero così. Fra queste ultime, soprattutto la considerazione che la precedenza del corpo qui suggerita potrebbe gettar luce su una delle più tormentose domande che assillano gli esseri umani da quando hanno cominciato a indagare sulla mente: come avviene che siamo coscienti del mondo attorno a noi, che sappiamo ciò che sappiamo, che sappiamo di sapere?
Nella prospettiva dell’ipotesi accennata, amore e odio e angoscia, qualità come gentilezza e ferocia, la soluzione pianificata di un problema scientifico o la creazione di un nuovo artefatto si basano tutti su eventi neurali all’interno di un cervello, purché questo sia stato e sia in interazione con il corpo cui appartiene. L’anima respira attraverso il corpo, e la sofferenza, che muova dalla pelle o da un’immagine mentale, avviene nella carne.
Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi , pag. 22
Cinema
John Dillinger è un fuorilegge col vizio del baseball, del cinema e delle macchine veloci. A colpi di Thompson e a capo di una gang armata, rapina banche ed estingue i debiti degli americani impoveriti dalla (Grande) Depressione. Le sue fughe rocambolesche e temerarie gettano imbarazzo e sconforto sulle istituzioni e su Edgar Hoover, ambizioso direttore del Bureau of Investigation. Elegante ed impavido, Dillinger ha un proiettile sempre in canna e un cappotto per ogni occasione e per ogni signora, rapinata del suo cuore o rapita dal suo fascino. La sua nemesi, efficiente e laconica, ha il volto e il garbo "gable" di Melvin Purvis, determinato ad accomodarlo sulla sedia elettrica. Decimata la sua compagine di criminali e assediato dalla polizia, Dillinger sceglierà la via fatale (e letale) del cinema.
Durante gli anni più duri della Depressione banditi rurali, rapinatori di banca indipendenti, rapitori di bambini e ladri alla giornata infestavano il Midwest. Nelle loro scorribande colpivano banche isolate e rifornitori di benzina, abbattendo a colpi di mitra proprietari e passanti inermi, prima di fuggire sulle loro automobili veloci e dentro gli abiti "ricercati". Sfruttando l'inefficienza e la corruzione dell'apparato statale e della polizia, cercavano il denaro facile e trovavano la soddisfazione alla propria eccitazione nel raggiungimento di una fama istantanea. Il maggiore tra loro, John Dillinger, era un fuorilegge e un esibizionista, abilissimo col mitra, simpaticamente disinvolto e irriverentemente in fuga da banche, celle e carceri.
Drogato di glamour come gli sbirri in abiti firmati di Miami Vice e testimone delle grandi promesse delle metropoli (automobili, abbigliamento sfarzoso, belle donne, feste in locali di lusso), Dillinger diventa il nuovo eroe solitario di Michael Mann, nemico pubblico che come il suo autore seppe creare una tendenza.
Conforme al bel sembiante (e al bell'aspetto) di Gary Cooper e Clarke Gable, Johnny Depp incarna l'immagine più sentimentale e romantica del gangster. Segnato dall'impossibilità di toccare le persone senza ferirle, Depp è di nuovo martire sulla strada della sofferenza e delle cicatrici. La morbidezza del suo sguardo scalda la narrazione (formalmente) fredda di Mann e si allarga sul G-man di Christian Bale, sul lato opposto della legge e dell'ordine.
Se Dillinger impiega la rapina come affermazione d'identità, anche sessuale (Billie Frechette è letteralmente "rapita"), e propaga nel mondo il mito dell'invincibilità dell'outlaw hero, Purvis trasforma la caccia ai criminali in un massacro di esecuzioni e tirassegno (l'abbattimento di Baby Face). In delicato equilibrio interdipendente col gangster, l'uomo del governo è caratterizzato e motivato costantemente dalla sua presenza, facendo dell'opposizione-identificazione con Dillinger una questione interiore. Il conflitto con la società ripiega allora nel confronto personale, in cui poliziotto e criminale si sovrappongono. Dentro la densità narrativa e la struttura polifonica del Nemico pubblico di Mann si muovono due combattenti solitari angosciati dalla privazione (ormai prossima) di un ruolo.
Il regista coglie bene il senso tragico del poco tempo che i protagonisti hanno ancora da vivere per compiere il proprio destino. Nel melodramma nero e criminale dell'autore americano il motore dell'azione è la nostalgia per qualcosa che Dillinger e Purvis si sono lasciati alle spalle ma che non riescono ad abbandonare: un blackbird che canta in sala (da ballo) ma tace sotto interrogatorio, un nemico pubblico maledettamente privato e troppo in fretta abbattuto. Architetto degli spazi e creatore (cool) di mondi solidi (e storici), Michael Mann frequenta i generi e ne verifica i limiti fino alla soglia, fino a intrecciarli e a contaminarli. Il suo cinema apre allora derive che interrompono l'azione vera e propria, dirottando su Cuba o su Chicago, dentro storie d'amore perfettamente simmetriche. Gli inseguimenti, le sparatorie, le fughe, l'amore e il sesso si combinano armoniosamente, consumandosi lentamente e in maniera epocale e infilando la potenza evocativa del melodramma in un film di genere radicalmente opposto.
Nel suo Chicago Melodramma e dietro all'eroismo di Dillinger si nasconde un'anima appassionata e (a)morale che morirà come Blackie Gallagher "sulla cattiva strada".
Cinema
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From Paris With Love é un assaggio di quello che l'Europa Corp ha in cantiere per gli anni a venire. Con una faraonica Cinecittà parigina in costruzione, la casa di produzione e distribuzione di Luc Besson mira a contrastare il dominio americano nei film d'azione. Un action movie abbastanza ben costruito e recitato,sorprendente soprattutto la bravura della Smutniak e le sequenze degli inseguimenti e delle sparatorie molto stile Besson.
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