sabato 11 giugno 2011

Pensieri


“Sono stata colpita sia dalla depressione che dal cancro” testimoniava Sandra Mondaini, nell’insuperata bibbia sui disturbi dell’umore “E liberaci dal male oscuro” del professor Cassano e di Serena Zoli “e posso ammettere senza ombra di dubbio quanto sia di gran lunga più invalidante la prima, perché ti annulla la voglia di vivere”.

Lei era lei: e come tutte le persone luminose aveva a prescindere il nostro permesso per rivelarci anche e soprattutto le verità più buie.

Tanto che, quando è arrivata la notizia della sua scomparsa, privi di quella sbirulitudine che fra il sentimento e l’espressione non impone una censura, siamo rimasti zitti. Eppure forse l’abbiamo pensato tutti: vivere non è al primo posto della lista delle cose per cui vale la pena farlo. A quel primo posto c’è vivere bene (o almeno giù di lì).

Così, nella tristezza che fa, Sandra che non c’è più, oggi, ci sembra qualcosa di meno insopportabile e ingiusto della Sandra che abbiamo visto l’ultima volta, al funerale di Raimondo, trasfigurata dal dolore, ostinatamente abbracciata da Berlusconi.

Perché che cosa significa, in fin dei conti, vivere bene (o almeno giù di lì)? Le risposte, naturalmente, sono tante quanti siamo noi. Per quanto mi riguarda, allora, credo che si viva bene quanto più riusciamo a far corrispondere la nostra esistenza a chi fondamentalmente siamo, nel profondo.

Prima bisogna scoprirlo, certo: e le sorprese a volte possono essere decisamente sgradite. Continuando a utilizzarmi, per vizio e per comodità, come esempio, da tempo ho capito di essere (almeno al momento, mi auguro) fondamentalmente, nel profondo, una figlia. Non tanto dei miei genitori: in generale. Una persona insomma ancora troppo spaventata da se stessa per riuscire davvero a entrare in una relazione completa con il resto del mondo.

E’ anche per questo che Sandra Mondaini è morta non solo nell’affetto e nella commozione, ma anche in una sorta di rispetto magico generale: perché lei, fondamentalmente, nel profondo, era e sempre sarebbe stata la moglie di Raimondo. Così come lui era e sempre sarebbe stato suo marito. Va da sé che a chi non riesce ancora (o, come la maggior parte di noi, lo fa fra mille incoerenze e difficoltà) a pensarsi realmente “con”, qualcuno, sembra benedetto il destino di chi invece non riesce più a pensarsi “senza” qualcuno. Non un qualcuno a caso, ci mancherebbe.

Quel, qualcuno. Incontrato per caso, come s’incontrano tutti: e si sa che è impossibile stabilire perché fra tutte le voci e i modi di ordinare un caffè e di baciare in cui ci imbattiamo, capita un uomo, capita una donna che ci raggiunge proprio lì, dove fa sempre freddo. Fatto sta che rimane. Perché passa un giorno, ne passa un altro, e quella persona è continuamente lì. In un primo momento si limita a fare da comparsa ai nostri giorni: c’è quando andiamo a cena, c’è quando passeggiamo, ogni tanto c’è quando ci addormentiamo e c’è quando ci risvegliamo. L’ogni tanto, soprattutto se non ce ne rendiamo conto, comincia a diventare sempre.

E’ esattamente in quel momento che siamo noi a fare la differenza. Se non siamo fatti o non siamo pronti a intrecciare realmente la nostra essenza con quella dell’altro, possiamo finirla lì o continuare: ma il risultato non cambia. Noi saremo noi e l’altro sarà l’altro. Amato, magari amatissimo: ma altro.

Se invece siamo fatti e pronti per quella possibilità, terrificante come tutto quello che non conosciamo e come tutto quello che non conosciamo meravigliosa, ecco. Da lì in poi non ci sarà più spazio per un io che non abbia a che fare con il tu e per un tu che non abbia a che fare con il noi.

Basta vedere le immagini che in questa settimana la televisione ha dedicato alla Mondaini: che abbia trent’anni o cinquanta o sessanta, che sia sul set di un film, dietro le quinte di un programma o a casa sua, con lei c’è sempre Raimondo.

Basta pensare alle immagini che cinque mesi fa sono state dedicate a Raimondo: con lui sempre Sandra.

Come a dire che non solo ogni momento dell’uno vedeva la partecipazione dell’altro. Ma che ogni momento viveva, di quella partecipazione: e non sarebbe per niente potuto essere così com’era, altrimenti.

Succede questo, immagino, a chi nel ruolo di marito o di moglie trova la più spontanea e perfetta espressione della sua vocazione interiore: il ritmo a cui assecondare il passo diventa esclusivamente quello di chi, a sua volta, asseconda il suo al nostro.

Può accadere, certo, che quel passo sia nevrotico e malsano. Pensiamo a quel fantastico e definitivo film che è “La guerra dei Roses”, dove è l’odio a tenere in vita sia il personaggio di Michael Douglas che quello di Kathleen Turner. Odio che però non può e non potrà mai sopravvivere a quello che nello stesso tempo gli fa da focolaio e da nutrimento: il coniuge.

Ma può accadere, fortunatamente, che quel passo sia creativo, danzante. Pensiamo a Federico Fellini e a Giulietta Masina, anche loro scomparsi a una manciata di mesi di distanza. Per tornare a loro: Sandra e Raimondo. Capaci, l’uno grazie all’altro, l’uno perché l’altro, di consolare la realtà con lo spettacolo e viceversa fino al punto, da “Casa Vianello” in poi, di dichiarare che forse, quelle due dimensioni, a guardarle bene, sono la stessa cosa.

Dev’essere vertiginoso, appartenere a una persona al punto di non potere più distinguere dove finisca lei e dove cominciamo noi.

Ripeto: è sempre stata e rimane la prima delle mie aspirazioni, in un mondo dove sempre più vedo gente come me, apparentemente smaniosa di contatto, ma in verità arrabbattata nel timore e nella fatica di riuscire davvero ad affidarsi agli altri.

Perché, sì. Fa paura.

Perché, sì. Può succedere che quella persona senza cui non possiamo più dirci noi stessi, un giorno, fatalmente, ci abbandoni.

E allora?

E allora a quel punto la vita sai che barba. Sai che noia.


Chiara Gamberale

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