giovedì 17 marzo 2011

Dipinti


Una delle ultime e più belle opere di van Gogh è il Campo di grano con corvi, del luglio 1890, realizzata poco tempo prima del suicidio e giudicata dalla critica il suo "testamento spirituale".

Scriverà al fratello Theo, anche a proposito di questo capolavoro: "Qui il mio pennello scorre fra le mie dita come se fosse un archetto di violino... I colpi di pennello vanno come una macchina, vengono e si succedono concatenati". In effetti riuscirà a realizzare settanta quadri in poco più di due mesi.

Spesso si sostiene che il campo di grano ha dei toni drammaticamente cupi, accentuati dal funereo volteggiare dello stormo di corvi neri e dalle pennellate rabbiose e scomposte.

Cupo in realtà è solo il cielo, che da un blu rassicurante passa a tonalità cromatiche sempre più scure, non il campo di grano. Cupa, se vogliamo, è l'atmosfera. L'artista infatti non vede futuro per la sua esistenza immediata, anche se la sua anima continua ad ardere di un fuoco divoratore.

Il campo di grano è così mosso che sembra una foresta in fiamme, in cui strade vuote, che portano verso l'ignoto, cercano di farsi largo e su cui volteggiano tristi presagi: i corvi neri appunto, che sembrano arrivare come avvoltoi su un cadavere.

La tela è un grido di dolore, accentuato dal ritmo a strappi, vorticoso, delle pennellate.

La strada è senza via d'uscita perché i campi, che esprimono i valori rurali del passato, nulla possono contro i nuovi valori borghesi, rappresentati da un cielo che pare un oceano in tempesta, in cui il chiaro si mescola allo scuro confondendo ogni cosa.

In mezzo a questo cielo tenebroso macchie bianche indistinte, misticheggianti, sembrano voler indicare gli astri o nuvole minacciose, ma in realtà raffigurano la solitudine dell'artista, ripiegato su se stesso.

Nell'ansia di cercare qualcosa che colleghi il campo di grano al cielo (e il collegamento è dato appunto dalla strada), l'artista non trova altro che se stesso, svuotato, e i corvi neri sembrano essere la conseguenza ineluttabile della devastazione: stanno per arrivare come una minaccia incombente, una tempesta della natura. Con quale lucidità, dinamismo e potenza di sintesi un uomo riesce a rappresentare così la propria fine!
Non essendoci luminosità nel cielo, appare chiaro che i campi sono gialli soltanto perché ricevono una luce dall'interno. Stridente è il divario tra interno ed esterno: non c'è vera comunicazione tra soggetto e oggetto, ma solo ansia d'averla e disperazione di non poterla avere.

La strada infatti non è una mediazione, ma appunto un'ansia, un desiderio oscuro, nervoso, che in questo tentativo, vano, di trasformare la realtà, si rende conto di non avere forze sufficienti. Gli orli verdi dei due viottoli forse indicano l'onestà di fondo di una ricerca personale.

Il campo di grano è insomma l'elegia di uno sconfitto.

La strada infatti non porta da nessuna parte ed è virtualmente percorsa da una persona, l'artista, che non sa dove andare, né cosa cercare.

Da notare, en passant, che prima di realizzare il quadro, van Gogh era andato a far visita al fratello Theo che viveva a Parigi ed era rimasto scosso per le difficoltà professionali di lui e per la salute cagionevole del nipotino Vincent.

Qualche giorno dopo aver finito l'opera, van Gogh scriverà l'ultima lettera a Theo, in cui dirà espressamente che la sua morte avrebbe posto fine al travaglio della famiglia del fratello: le sue opere sarebbero aumentate di valore e Theo - insieme alla moglie e al figlioletto Vincent - avrebbero potuto condurre una vita migliore (purtroppo anche Theo si ucciderà sei mesi dopo, angosciato per la morte del fratello).

Insomma van Gogh - se guardassimo l'aspetto contingente della sua esistenza - si sarebbe ucciso prendendo questa nota familiare come occasione per realizzare l'ultima missione della sua vita: lui che non era riuscito, in vita, a realizzare alcunché di socialmente utile, pensava di farlo da morto. In realtà l'occasione è solo un pretesto, in quanto è tipico dei folli trovare delle motivazioni etiche al proprio agire disperato. In filosofia gli esempi più classici sono Kierkegaard e Nietzsche.

Il cielo blu-nero, gli astri (se tali sono) sono troppo indeterminati e oscuri perché si possa pensare a un vero obiettivo da raggiungere. Qualche critico ha addirittura intravisto in quelle sagome bianche né astri né nuvole bombate, ma addirittura immagini nascoste, subliminali, come p.es. l'orecchio sinistro (quello che lui si tagliò dopo il litigio furente con Gauguin), un uccello gigante che riempie il cielo, una "presenza incombente" e un trombettiere simile all'arcangelo Gabriele entro le nubi, a testimonianza del lato mistico-irrazionale dell'artista olandese.

Forse è meglio limitarsi a quanto scritto nelle lettere a Theo: "Sono campi estesi di grano sotto cieli agitati, e non avevo bisogno di uscire dalla mia condizione per esprimere tristezza e solitudine estrema".

Infatti, chi percorre le strade del quadro non ha una meta precisa ove andare, non ha futuro, e proprio questa forte rappresentazione dell'angoscia esistenziale, così tipica nell'Europa del nord, borghese e protestante, darà al quadro un incredibile futuro. Le molte interpretazioni di quest'opera particolare sono state le più varie e complesse rispetto a quelle che si sono date di qualsiasi altra sua opera.

Peraltro, per l'uso del movimento delle forme qui si anticipa il futurismo, e per l'uso sapientissimo del colore si anticipa l'astrattismo.

L'aspetto stilisticamente meno riuscito del quadro (relativamente parlando s'intende: non dimentichiamo che l'opera è stata fatta di getto) è proprio quello che avrebbe dovuto indicare il metodo per conseguire un fine: la strada, che, a ben guardare, non è una, ma una sorta di triplice diramazione da un crocevia invisibile, il quale simboleggia, a sua volta, i vari percorsi esistenziali e professionali dell'artista, spesso condotti su direzioni diametralmente opposte e che non hanno portato da nessuna parte, se si esclude ovviamente quella artistica, che è servita come valvola di sfogo di una pentola a pressione.

Le strade, soprattutto quella centrale, sembrano indicare una prospettiva, e anche le distese dei campi; in realtà il quadro è bidimensionale, anzi monodimensionale, in quanto le strade viste dall'alto, i campi di fronte e il cielo di lontano sono tutti elementi di un unico aspetto dominante: lo scontro, senza soluzione di continuità, tra il furore del giallo (la passione interiore per l'assoluto) e l'oppressione del blu-nero, i cui toni cupi (le ambiguità o le ipocrisie del vivere sociale) impallidiscono irrimediabilmente la luce che naturalmente dovrebbe provenire dal cielo (l'esigenza del vero).

Non è ovviamente un quadro realistico, ma esprime molto realisticamente una situazione emotiva ai limiti del collasso.

Qui siamo in presenza a una sorta di icona della disperazione, dove i grandi occhi che parlano mestamente, con saggezza e conforto, nelle icone classiche, qui sono rappresentati dagli stessi campi di grano, agitati da uno spirito inquieto, equivalenti agli occhi di fuoco e alla barba ispida e ribelle nei suoi famosi autoritratti. E' stato detto che l'universo di van Gogh è un campo continuo di energie, come quello di Einstein, ma, si potrebbe aggiungere, di sicura invivibilità.

La strada è dunque il limite maggiore non tanto del quadro, ma dell'esistenza stessa di van Gogh, lacerata da percorsi travagliati, errabondi, diametralmente opposti, che l'hanno sì arricchito di molteplici esperienze, ma anche portato alla sregolatezza e infine alla follia e a una morte prematura.

La critica, in tal senso, è stata forse troppo entusiasta di questi capolavori. Il fatto che van Gogh tendesse a proiettare nella realtà se stesso, trasfigurandola secondo i suoi sentimenti; il fatto ch'egli usasse la linea come funzione espressiva, capace di trasformare il colore reale in una suggestione per l'emozione di chi osserva - tutto ciò, si dovrebbe sempre precisare, può avere un grande significato estetico, ma può avere un qualche valore etico solo nel limite dell'esperienza umana: la realtà non può essere soggettivizzata al punto che alla fine solo l'artista stesso vi ci si ritrova, o un folle come lui.

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