domenica 21 settembre 2014

Cinema






Nella squadra di Barney Ross si materializza il più prevedibile eppure il più clamoroso degli eventi, un incidente che mette a serio repentaglio la vita di uno dei membri. L'evento, unito alla ricomparsa di un vecchio e storico nemico (che come nella migliore delle tradizioni si trattava di un ex-amico, parte del primo gruppo di "mercenari") spinge Ross a trovarsi un'altra squadra, fatta di giovani a cui non sia legato da una profonda amicizia, per portare a termine una nuova missione. Liberarsi degli amici di una vita e tenerli lontani da un bel complesso di esplosioni però è più difficile del previsto.
La difficoltà con la quale la serie di I mercenari cerca di stare appresso al proprio mito, cioè di dimostrarsi all'altezza delle promesse di spettacolo e di rinsaldamento dei "veri valori" dell'action anni '80 che sbandiera, non fa che ridimostrare di film in film la forza spontanea e onesta del primo capitolo. Se il secondo film esagerava dal lato ironia (una parte piccola, per quanto indispensabile, nei film cui I mercenari si ispira), dimenticando strada facendo la tensione dinamica di un racconto che pretende di essere costantemente adrenalinico, questo terzo cerca la controriforma, in un tripudio d'azione con poca (e brutta) computer grafica e molti stunt dal vero, corpi che si scontrano realmente (soprattutto quelli dei più giovani) e stuntmen che fanno il lavoro dei più anziani.
Tuttavia è sempre stupefacente come le più grandi star del cinema d'azione delle passate decadi fatichino a consegnare un prodotto a cui è chiesto unicamente d'esser d'intrattenimento, cioè la maniera in cui non riescano a ricreare di nuovo film con pochi fronzoli e un gran baccano appassionante e divertente. Non che I mercenari 3 non ci provi (sicuramente più del precedente) e in certi momenti sembra quasi instradato su binari migliori tanta è la furia delle sequenze d'azione che coinvolgono tutti i membri (ci si può anche commuovere di fronte alla tipica scena di salto con dietro un'esplosione a cui partecipano tutti gli attori che hanno reso iconica quella trovata visiva), ma quella forza espressiva e quel senso di romantica disperazione dei personaggi ma in fondo anche dei loro interpreti, che aveva fatto del primo film un'esplosione di successo, non si ricrea. Sarebbe facile trovare la motivazione di questa discrepanza tra l'incipit della serie e i suoi capitoli successivi nel fatto che originariamente fosse lo stesso Stallone a dirigere con mano non proprio ferma ma di certo eccitata e partecipe, tuttavia l'impressione è anche che l'esigenza economica di mettere insieme così tanti nomi richieda delle abilità di scrittura superiori a quelle messe in campo. Scrivere un film con una drammaturgia funzionante e un ritmo spinto avendo un cast in cui quasi ogni attore pretende un tempo d'esposizione e battute (o cazzotti) da star non è semplice, e I mercenari spesso soffocano in questa folla.
Alla fine è l'espressione più compiuta del "cinema quantitativo", messa in scena dell'ammasso di star (appassite o meno che siano), incrocio di diverse mitologie legate agli interpreti (quella dell'underdog di Stallone, quella del bastardo dal sorriso beffardo di Ford, quella del pazzo algido di Lundgren, quella dell'eroe coriaceo e individualista di Schwarzenegger e via dicendo) in cui i rivali di una volta, oggi amiconi per interesse, continuano a farsi una guerra fredda per mettere in mostra se stesso più degli altri, cercando di emergere attraverso l'esposizione di quello per cui si è noti. Frasi tipiche, espressioni caratteristiche, tratti che li hanno resi famosi sono ripetuti alla nausea. In questo modo non si crea mai quella nuova immagine di "gruppo di uomini forti", più potenti di un singolo, più determinati dei giovani, più duri e puri di chiunque altro, è solo un ammasso di individualità slegate, messe insieme a forza nelle medesime inquadrature.

Gabriele Niola

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