sabato 2 agosto 2014
Cinema
Decisosi a parlare e mandare in galera tutta la sua famiglia (o almeno quelli che ha lasciato in vita) assieme al proprio clan, il boss mafioso Giovanni Manzoni è continuamente trasferito da una casa all'altra e da un'identità fittizia all'altra per il programma protezione testimoni dell'FBI. Arrivato con la moglie, la figlia adolescente e il figlio di poco più piccolo in un paesino della Francia, tenterà di sopprimere la sua natura mentre i suoi parenti si integrano a modo proprio con l'ambiente locale.
Intanto in una galera americana, uno dei molti capi che ha fatto incarcerare con la sua testimonianza non smette di cercarlo per chiudere i conti.
C'è il tocco di Martin Scorsese su Cose nostre - Malavita, film di cui è produttore esecutivo e che infatti non ha i soliti toni eccessivi di Luc Besson ma un'inedita (per il regista francese) vicinanza ai temi narrati. Il quadro della famiglia di Cose nostre è infatti un film di mafia post-Soprano, in cui i malavitosi sono persone insospettabilmente normali ma capaci di perpetrare azioni truci nella stessa maniera in cui si va al lavoro ogni giorno. Ma diversamente dal solito il ritratto è contaminato da un affetto, una nostalgia e al tempo stesso un autentico terrore del crimine italoamericano che paiono venire dall'immaginario scorsesiano.
Il calco ufficiale è il romanzo "Malavita" di Tonino Benacquista, quello non ufficiale sembra invece l'unione di In Bruges e Quei bravi ragazzi (che in un momento di metacinema sfiorato viene proiettato davanti al protagonista interpretato da Robert De Niro). È impossibile infatti non notare un certo piacere filmico nel manipolare la trama e i personaggi che compongono la famiglia del film in modo che oscillino in continuazione tra dramma e commedia, tra risata e tensione, facendosi forza di un'ambientazione inusuale (il paesino della Francia del nord) utilizzata con una chiave satirica che ricorda il film di McDonagh. Al tempo stesso è anche evidente come uno dei punti chiave della trama sia la discesa del boss, il suo essere ridotto al rango di persona normale, privato dei privilegi, del rispetto e della deferenza che sono dovuti ad un criminale del suo rango e costretto a subire i consueti soprusi di tutti i giorni invece che imporli agli altri, come accade all'Henry Hill di Ray Liotta.
Non c'è quindi molto di originale nel film di Besson, che da sempre è più un abile masticatore di cinema altrui che un creatore originale, tuttavia questa volta il miscuglio è più bilanciato e armonioso del solito. Superando la chimera dell'originalità a tutti i costi, Besson riesce a saltare dall'high school movie alle sparatorie in mezzo alle strade, dai dialoghi screwball dei due coniugi a quelli noir tra De Niro e Tommy Lee Jones, con un'agilità che non fa sentire nessuna fatica al pubblico, anzi esalta le qualità del film.
Gabriele Niola
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