Foto di Kati Seiffer
martedì 23 luglio 2019
Cinema
Mae Holland è figlia unica in una
famiglia di condizioni economiche modeste. Suo padre è affetto da
sclerosi multipla e non può permettersi le cure costose che gli
sarebbero necessarie. Mae lavora presso un call center ed è rassegnata a
un'odissea di precarietà e invisibilità sociale. A sorpresa, la sua
amica Annie riesce invece ad assicurarle un colloquio con l'azienda
futuribile per la quale lavora, The Circle, che assume cento nuovi
dipendenti alla volta. E Mae supera il colloquio, entrando in un
universo parallelo che supera ogni sua immaginazione: un campus popolato
da migliaia di giovani che lavorano insieme e frequentano le attività
ludiche e sportive incessantemente organizzate dai due direttori
dell'azienda, Eamon Bailey e Patton Oswald.
The Circle è un mix di alta
tecnologia e social media, una sorta di Google + Facebook + Amazon +
Apple, e viene raffigurato da Dave Eggers, autore del romanzo alla base
del film di cui è anche sceneggiatore, e dal regista James Ponsoldt come
una società al limite del distopico, perché richiede ai suoi dipendenti
una "trasparenza" che è accesso indiscriminato ad ogni dettaglio della
loro vita personale.
Al centro della trama c'è il
limite fra la possibilità di intervenire in positivo su ogni aspetto
della propria quotidianità grazie alle nuove tecnologie e il rischio di
vedersi così privati di ogni privacy. The Circle sfiora temi di
grande attualità, come le incognite della democrazia diretta, la
persistenza di una stanza dei bottoni al di sopra di ogni ideale di
condivisione totale e la possibilità (o la certezza?) che qualcuno
utilizzi tutte le informazioni fornite, per lo più su base volontaria,
dagli utenti per scopi non esattamente "trasparenti". Il problema è
nella superficialità con cui questa confezione hollywoodiana tocca
questi temi in maniera tangenziale invece che affondare il coltello,
mantenendosi in equilibrio sul crinale di un'ipocrisia di fondo:
avvertire dei pericoli delle alte tecnologie senza però demonizzarle,
denunciare le falle della democrazia senza ipotizzare soluzioni
alternative. In pratica, assetando un colpo al cerchio (vedi il titolo) e
uno alla botte.Paola Casella
Leggende
Mohandas Karamchard Gandhi, detto il Mahatma (in sanscrito significa Grande Anima, soprannome datogli dal poeta indiano R. Tagore), è il fondatore della nonviolenza e il padre dell'indipendenza indiana.
Il nome Gandhi in lingua indiana significa 'droghiere': la sua famiglia dovette esercitare per un breve periodo un piccolo commercio di spezie.
Nato il 2 ottobre 1869 a Portbandar in India, dopo aver studiato nelle università di Ahmrdabad e Londra ed essersi laureato in giurisprudenza, esercita brevemente l'avvocatura a Bombay.
Di origini benestanti, nelle ultime generazioni la sua famiglia ricoprì alcune cariche importanti nelle corti del Kathiawar, tanto che il padre Mohandas Kaba Gandhi era stato primo ministro del principe Rajkot. I Gandhi tradizionalmente erano di religione Vaishnava; appartenevano cioè ad una setta Hindù con particolare devozione per Vishnù.
Nel 1893 si reca in Sud Africa con l'incarico di consulente legale per una ditta indiana: vi rimarrà per ventuno anni. Qui si scontra con una realtà terribile, in cui migliaia di immigrati indiani sono vittime della segregazione razziale. L'indignazione per le discriminazioni razziali subite dai suoi connazionali (e da lui stesso) da parte delle autorità britanniche, lo spingono alla lotta politica.
Gandhi giunge all'uguaglianza sociale e politica tramite le ribellioni pacifiche e le marce.
Alla fine il governo sudafricano attua importanti riforme a favore dei lavoratori indiani: eliminazione di parte delle vecchie leggi discriminatorie, riconoscimento ai nuovi immigrati della parità dei diritti e validità dei matrimoni religiosi.
Nel 1915 Gandhi torna in India dove circolano già da tempo fermenti di ribellione contro l'arroganza del dominio britannico, in particolare per la nuova legislazione agraria, che prevedeva il sequestro delle terre ai contadini in caso di scarso o mancato raccolto, e per la crisi dell'artigianato.
Diventa il leader del Partito del Congresso, partito che si batte per la liberazione dal colonialismo britannico.
Nel 1919 prende il via la prima grande campagna satyagraha di disobbedienza civile, che prevede il boicottaggio delle merci inglesi e il non-pagamento delle imposte. Il Mahatma subisce un processo ed è arrestato. Viene tenuto in carcere pochi mesi, ma una volta uscito riprende la sua battaglia con altri satyagraha. Nuovamente incarcerato e poi rilasciato, Gandhi partecipa alla Conferenza di Londra sul problema indiano, chiedendo l'indipendenza del suo paese.
Del 1930 è la terza campagna di resistenza. Organizza la marcia del sale: disobbedienza contro la tassa sul sale, la più iniqua perché colpiva soprattutto le classi povere. La campagna si allarga con il boicottaggio dei tessuti provenienti dall'estero. Gli inglesi arrestano Gandhi, sua moglie e altre 50.000 persone. Spesso incarcerato anche negli anni successivi, la "Grande Anima" risponde agli arresti con lunghissimi scioperi della fame (importante è quello che egli intraprende per richiamare l'attenzione sul problema della condizione degli intoccabili, la casta più bassa della società indiana).
All'inizio della Seconda Guerra Mondiale Gandhi decide di non sostenere l'Inghilterra se questa non garantirà all'India l'indipendenza. Il governo britannico reagisce con l'arresto di oltre 60.000 oppositori e dello stesso Mahatma, che è rilasciato dopo due anni.
Il 15 agosto 1947 l'India conquista l'indipendenza. Gandhi vive questo momento con dolore, pregando e digiunando. Il subcontinente indiano è diviso in due stati, India e Pakistan, la cui creazione sancisce la separazione fra indù e musulmani e culmina in una violenta guerra civile che costa, alla fine del 1947, quasi un milione di morti e sei milioni di profughi.
L'atteggiamento moderato di Gandhi sul problema della divisione del paese suscita l'odio di un fanatico indù che lo uccide il 30 gennaio 1948, durante un incontro di preghiera.
Cinema
Leo, figlio irrequieto di Luciano, una notte spara alcuni colpi di fucile sulla saracinesca di un bar protetto da un clan locale, in quel di Africo nel cuore dell'Aspromonte. Una provocazione come risposta a un'altra provocazione. Un atto intimidatorio, ma anche un gesto oltraggioso che il ragazzo immagina come prova di coraggio e affermazione d'identità nei confronti del clan rivale e nei confronti del padre, maggiore di tre fratelli, dedito alla cura degli animali e dei morti, e lontano dalla cultura delle faide. I fratelli di Luciano hanno preso altre strade lontano da Africo, in una Milano permeata di affari criminali lungo la rotta della droga tra l'Olanda e la Calabria. Dopo la provocazione notturna, Leo deve e vuole cambiare aria, e raggiunge lo zio Luigi, il più giovane dei tre fratelli, spavaldo nel correre su e giù per l'Europa stingendo patti "commerciali" con cartelli sudamericani, e lo zio Rocco, ormai trapianto a Milano con aria e moglie borghese, arricchito proprio dai proventi di quei traffici internazionali. L'eco della bravata di Leo giunge in quel di Milano e risveglia la mai sopita attrazione per la vendetta, la faida in un misto di orgoglio represso dal benessere, o da esso alimentato sotto mentite spoglie. Il fratello maggiore infatti viene richiamato bonariamente dal boss del clan rivale, e umiliato nel suo essere uomo, primogenito, padre di famiglia. I fratelli si mettono in viaggio verso il loro Sud, la loro terra, sentendo il richiamo di una cultura antica, richiamo fatale a un destino immutabile che punta dritto verso la tragedia, senza scampo.
Francesco Munzi torna al cinema firmando con questo suo terzo film, una tragedia "greca", di fatto calabrese, ispirandosi al romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, edito nel 2008 da Rubettino (coraggiosa casa editrice, da sempre attenta all'indagine della cultura calabrese, e non solo). Munzi arriva a questa opera difficile dopo aver sperimentato storia e stile nei suoi due primi film, Saimir e Il resto della notte. Qui si porta nel cuore della Calabria e della sua cultura ancestrale in odore di 'ndrangheta e lo fa da "straniero", con sguardo aperto, consapevole del rischio, quello di rappresentare luoghi, storie, personaggi quasi mai raccontati prima (la 'ndrangheta è misteriosa anche al cinema). A cosa si è appigliato Munzi per ricreare quel mondo così complesso e misterioso? Qual è l'immaginario di riferimento, laddove uno non c'è? Quanti film d'ambientazione calabrese si ricordano? Quanti che raccontano la cultura della 'ndrangheta? In assenza di una iconografia stratificata (che non sia quella reale e vissuta, ma lì necessariamente esperienziale), Munzi si affida alla scrittura, quella del libro da cui è tratta la storia, e la sua, quella di un regista-sceneggiatore. Poi ci sono i suoi occhi (dei quali è sempre meglio non fidarsi troppo) che hanno visto la Calabria e che hanno visto tanto cinema. E non si sfugge al groviglio di visioni e letture, e sempre una "rete" si cerca per appigliarsi a qualcosa, per trovare una rotta dentro una storia così buia. La struttura è quella della tragedia, e, non a caso, il film a cui si pensa è Fratelli di Abel Ferrara.
Allora, Munzi fa un lavoro egregio e il suo affondo è potente, ma è come se stesse alla continua ricerca di uno stile, di un modo di mettere in scena, tanto sono diversi gli approcci tra un film e l'altro. Qui sembra come "ritrarsi", farsi da parte, lasciare lo spazio alla storia (così abilmente scritta) e agli attori (così abilmente diretti), senza imporre uno sguardo che non sia di "servizio" e al servizio. Un rigore forse un po' troppo rigido, dietro il quale si nasconde forse qualche indecisione, forse una paura, comprensibile, di entrare in un universo sconosciuto ma ben definito nei suoi tratti. Anime nere in questo senso non è un film di denuncia e non è un film realistico. È un film-racconto, dai forti contrasti, che sembra il frutto di una scrittura approfondita, a volte fin troppo, laddove tutto vuole significare qualcosa, sempre e comunque. A tratti questo eccesso di significato emerge e distoglie, ma sempre dentro un flusso continuo dentro cui si è portati incessantemente, facendo esperienza dell'ineluttabile.
Sarebbe un errore quindi considerare Anime nere come la rivelazione di una realtà. Munzi non è Garrone, Criaco non è Saviano, Anime nere non è Gomorra: e soprattutto non vuole esserlo (e non che Garrone sia realistico, anzi il suo scarto verso il fantastico è sempre stato dominante, anche ai tempi di Terra di mezzo). Però siamo come in attesa di un tratto più certo, di uno sguardo più originale. E diciamo questo perché pensiamo che Munzi sia molto bravo, che abbia una qualità rara di scrittura e di "direzione", che si faccia le domande giuste, che guardi le cose con grande curiosità. Tutte qualità importanti, alle quali si deve aggiungere quella di un'autorialità più marcata che si definisca in un stile più proprio.
Dario Zonta
Libri
Gennaro Egidio è stato l'Avvocato che si è occupato in primis,ma non solo,in qualità di contrattatore,della famiglia Orlandi con i suoi rapitori.Dopo quel caso clamoroso si è occupato per decenni di altri casi sempre con il medesimo ruolo e in questo libro spiega tutti i casi nei quali è stato coinvolto ampiando l'orizzonte con una disamina interessante del fenomeno del terrorismo a livello mondiale.Quello che colpisce è soprattutto la precisione dell'analisi e il fatto che poi le sue osservazioni sarebbero state valide anche negli anni a venire,visto che il libro arriva fino a fine degli anni 80 e primi anni 90.Le ombre agiscono e si muovono suadenti sparpagliando falsi indizi,depistando,nascondendo verità scomode,e purtroppo la nostra storia è piena di queste "ombre"che non ci permettono di capire cosa è vero e cosa è falso,sogghignano quando riescono a portarci su strade senza uscita,ma poi esistono persone forti e determina che,a rischio della loro vita,non smettono mai di camminare verso la luce.
domenica 21 luglio 2019
Pensieri
Oggi sarebbe stato il tuo Ottantottesimo Compleanno Mamma,ma purtroppo un mese fa te ne sei andata dopo un periodo di alti e bassi,di solitudine,di sofferenza,di mancanza di voglia di continuare a lottare,comprensibile vista l'età e la poca salute,ma disgraziatamente non a me che sapevo già non avrei mai voluto restare solo senza di te.Mi dicevi sempre "Mi rimpiangerai quando non ci sarò più",ma non è vero Mamma,perchè io ti porto sempre dentro di me e quindi il rimpianto c'è ma è solo per la presenza,per le discussioni,per il tempo trascorso insieme.Quasi tutta la vita abbiamo camminato insieme e questa è stata una grossa fortuna,ci siamo sostenuti sempre a vicenda anche nei momenti più difficili delle nostre malattie e adesso quel vuoto che sento dentro lo devo sconfiggere trovando in me la forza di proseguire.Non ero pronto,e quando si è mai pronti per affrontare la scomparsa di una persona cara?Mai.Poi la sensazione che la Signora in Nero ti sfiori e ti faccia comprendere quanto effimere siano le cose della vita,tutto questo lottare per raggiungere cosa?Ci soccorrono proprio gli insegnamenti dei nostri genitori,mai mollare e soprattutto capire quale è il senso della nostra vita,altrimenti rimane solo un vuoto vagare in mezzo all'oscurità.
Auguri Mamma,ovunque tu sia,perchè tanto sai che ti sono vicino e ti penso sempre e ti vorrò sempre bene più che a me stesso come tu hai fatto sempre con me.
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