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giovedì 10 novembre 2011

Racconti


Pigro e indifferente, scuotendosi agevolmente lo spazio dalle ali, conoscendo la via, l'airone passa sopra la chiesa, sotto il cielo. Bianco e remoto, assorto in se stesso, senza fine copre e scopre il cielo, si muove e s'arresta. Un lago? Cancellane le sponde! Una montagna? Oh, perfetto... l'oro del sole sulle sue pendici. Vi si tuffa dentro. Felci poi, o bianche piume, per sempre, sempre...
Anelando alla verità, aspettandola, laboriosamente distillando qualche parola, anelando per sempre... (un grido si leva a sinistra, un altro a destra. Ruote seguono vie divergenti. Omnibus si ammassano in conflitto)... anelando per sempre... (con dodici distinti rintocchi l'orologio assevera che è mezzogiorno; la luce fa spiovere scaglie d'oro; sciamano i bambini)... perennemente anelando alla verità. Rossa è la cupola, monete pendono dagli alberi, fili di fumo si levano dai camini; latrato, grido, richiamo <>... e la verità?
Convergenti verso uno stesso punto piedi machili e piedi femminili, neri o incrostati d'oro... (Questo tempo nebbioso... Zucchero? no, grazie... Il commonwealth del futuro)... la luce del fuoco guizza e arrossa la stanza, tranne le nere figure dagli occhi lucenti, mentre fuori un furgone scarica, Miss Vattelapesca prende il tè seduta al suo scrittoio, e lastre di vetro proteggono pellicce...
Ostentati, leggeri come foglie, sospinti negli angoli, soffiati nelle ruote, spruzzati d'argento, a casa o non a casa, radunati, dispersi, divisi in ordini separati, trascinati su, giù, lacerati, affondati, aggregati... e la verità?
E adesso ricordare accanto al fuoco sul bianco quadrato di marmo. Levandosi da eburnei abissi le parole perdono la propria tenebrosità, fioriscono e penetrano. Caduto il libro; nella fiamma, nel fumo, nelle fugaci scintille... o in viaggio adesso, il quadrato di marmo sospeso e, sotto, minareti e i mari indiani, mentre lo spazio corre via turchino e le stelle sfavillano... la verità? o adesso, paghi di esservi vicini?
Pigro e indifferente torna l'airone; il cielo vela le sue stelle, poi le mette a nudo.




Lunedi o martedi Virginia Woolf

giovedì 6 ottobre 2011

Racconti


Il mondo è come un giro di giostra in un parco giochi. Quando scegli di salirci pensi che sia reale, perché le nostre menti sono potenti. La giostra va su e giù, e gira intorno, ti fa tremare e rabbrividire, ed è coloratissima e rumorosa, ed è divertente per un po'.
Alcuni ci sono su da tanto tempo e cominciano a chiedersi: "È la realtà o è solo un giro di giostra?" Altri si sono ricordati e vengono da noi per dirci: "Ehi, non vi preoccupate, non abbiate paura, mai, perché questo è solo un giro di giostra." E noi... uccidiamo quelle persone. "Fatelo tacere! Abbiamo investito un sacco in questo giro di giostra. Fatelo tacere! Guardate le mie rughe di preoccupazione, guardate il mio grosso conto in banca, e la mia famiglia. Questo deve essere reale."
È solo un giro di giostra. Ma uccidiamo sempre quella brava gente che tenta di dircelo, l'avete mai notato? E lasciamo che i demoni si scatenino. Ma non ha importanza perché... è solo un giro di giostra. E possiamo cambiare le cose in qualunque momento. È solo una scelta. Niente sforzi, niente lavoro, niente occupazioni, niente risparmi o denaro. Una scelta, proprio ora, fra paura e amore.
Gli occhi della paura vogliono che voi mettiate serrature più grandi alla vostra porta, che vi compriate delle armi, che vi isoliate. Gli occhi dell'amore, invece, ci vedono tutti come una cosa sola. Ecco che cosa possiamo fare per cambiare il mondo, proprio adesso, in un giro di giostra migliore. Prendiamo tutti i soldi che spendiamo in armi e nella difesa ogni anno e spendiamoli invece per cibo, vestiti ed educazione per i poveri nel mondo, e basterebbero a farlo molte volte, nessun essere umano escluso, e potremo esplorare lo spazio, insieme, sia interiore che esteriore, per sempre, in pace.


Bill Hicks

martedì 4 ottobre 2011

Racconti


Un filosofo si recò un giorno da un maestro zen e gli disse:

"Sono venuto a informarmi sullo Zen, su quali siano i suoi principi ed i suoi scopi".

"Posso offrirti una tazza di tè?" gli domandò il maestro. E incominciò a versare il tè da una teiera. Quando la tazza fu colma, il maestro continuò a versare il liquido, che traboccò.

"Ma cosa fai?" sbottò il filosofo. "Non vedi che la tazza è piena?"

"Come questa tazza" disse il maestro "anche la tua mente è troppo piena di opinioni e di congetture perché le si possa versare dentro qualcos'altro. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?".

giovedì 7 luglio 2011

Racconti


Ballate come se nessuno vi guardasse


Per tanto tempo ho avuto la sensazione che la vita sarebbe presto cominciata, la vera vita! Ma c'erano sempre ostacoli da superare, strada facendo qualcosa di irrisolto, un affare che richiedeva ancora tempo, dei debiti che non erano stati ancora regolati, in seguito la vita sarebbe cominciata. Finalmente ho capito che questi ostacoli erano la mia vita. Questo modo di percepire le cose mi ha aiutato a capire che non c'è un mezzo per essere felici, ma che la felicità è un mezzo. Di conseguenza, gustate ogni istante della vostra vita, e gustatelo ancora di più perché lo potete dividere con una persona cara, una persona molto cara per passare insieme dei momenti preziosi della vita, e ricordatevi che il tempo non aspetta nessuno. E allora smettete di pensare di finire la scuola, di tornare a scuola, di perdere 5 chili, di prendere 5 chili, di avere dei figli, di vederli andare via di casa. Smettete di aspettare di cominciare a lavorare, di andare in pensione, di sposarvi, di divorziare. Smettete di aspettare il venerdì sera, la domenica mattina, di avere una nuova macchina o una casa nuova. Smettete di aspettare la primavera, l'estate, l'autunno o l'inverno. Smettete di aspettare di lasciare questa vita, di rinascere nuovamente, e decidete che non c'è momento migliore per essere felici che il momento presente. La felicità e le gioie della vita non sono delle mete, ma un viaggio. Lavorate come se non aveste bisogno di soldi. Amate come se non doveste mai soffrire. Ballate come se nessuno vi guardasse.


Alfred Souza

domenica 8 maggio 2011

Racconti


Temporale

(Da "Pellegrinaggio d'autunno" - 1905)


Quando, la mattina seguente, mi disposi a proseguire il viaggio, non certo di buon'ora, nel cielo burrascoso veleggiavano nastri di nubi sfrangiate, grigie e lilla, e mi accolse un forte vento. Fui presto sul crinale della collina e vidi sotto di me la cittadina, il castello, la chiesa e il piccolo imbarcadero, addossati l'uno all'altro sulla riva, simili a giocattoli. Mi tornarono in mente alcune storie divertenti dei tempi in cui abitavo in quella zona, e scoppiai a ridere. Ne avevo bisogno perché, quanto più mi avvicinavo alla meta del mio viaggio, tanto più mi sentivo oppresso e avvertivo una stretta intorno al cuore, anche se non volevo ammetterlo. Mi fece bene camminare in quell'aria fresca e sibilante. Ascoltavo il vento impetuoso e, mentre procedevo sul sentiero di cresta, vedevo con crescente piacere che il paesaggio si faceva più vasto e possente. Il cielo si andava schiarendo, a partire da nordest: laggiù la vista era libera e si potevano vedere lunghe catene di montagne, disposte in modo meravigliosamente regolare. Man mano che salivo, il vento aumentava. Cantava una melodia autunnale, con gemiti e risa, accennando a passioni favolose accanto alle quali le nostre non erano altro che bambinate. Mi gridava all'orecchio parole mai udite, di un mondo primigenio, come nomi di dei antichi. Dipingeva su tutto il cielo, coi rimasugli delle nuvole erranti, strisce parallele che contenevano qualcosa di dominato a stento e sotto le quali i monti parevano incurvarsi. Davanti al mugghiare dei venti e alla vista di quel vasto paesaggio montuoso, la lieve oppressione che incombeva sulla mia anima scomparve. Da quando, agli occhi miei, strada e clima si erano riempiti di vita, il fatto che mi stessi avvicinando a un incontro con la mia gioventù e a una cerchia di stimoli ancora ignoti non era più così importante ed esclusivo. Poco dopo mezzogiorno mi fermai a riposare nel punto più alto di quel sentiero d'altura, mentre il mio sguardo volava sull'immenso paesaggio che si estendeva intorno a me, perlustrandolo commosso. C'erano montagne verdi e, più lontano, montagne azzurre coperte di boschi e gialle montagne rocciose, colline dalle mille pieghe e, dietro ancora, il monte più alto, con pinnacoli scoscesi e pallide piramidi di neve. Ai miei piedi, in tutta la sua estensione, il grande lago, azzurro come il mare e punteggiato dalla schiuma bianca delle onde, con due vele solitarie e fugaci, che scivolavano curve; sulle sponde verdi e marroni gialli vigneti fiammeggianti, boschi variopinti, bianche strade maestre, villaggi di contadini tra alberi da frutto, villaggi di pescatori, più spogli, città turrite, chiare e scure. Sopra tutto, a spazzar via quelle nuvole grigiastre, tra brandelli di un cielo limpidissimo, pervaso da una luce verde azzurro e opalescente, raggi di sole disposti a mo' di ventaglio sulle nubi. Tutto mosso, anche le catene montuose parevano correre avanti, e così le cime alpine, irregolarmente illuminate, scoscese e discontinue. Con la burrasca e le nuvole, anche i miei sentimenti e desideri si dispersero febbrili e violenti per quel vasto paesaggio, abbracciando lontani pinnacoli innevati e posando fugaci su verdi insenature lacustri. La mia anima fu assalita dalle note, seducenti sensazioni di ogni vagabondaggio, fuggenti e variopinte come l'ombra di una nube: rimpianto per quanto si è perduto, brevità della vita e pienezza del mondo, mancanza di una patria e ricerca della patria, alternate a una fluente sensazione di totale distacco da spazio e tempo. Lentamente trascorsero i flutti, cessarono di cantare e spumeggiare, e il mio cuore si placò e riposò immobile, come un uccello ad alta quota. Poi vidi, sorridendo e con rinnovato calore, le curve delle strade, le cime tondeggianti coperte di boschi e i campanili di dintorni a me familiari: era la terra dei begli anni della mia giovinezza a guardarmi, immutata, con gli stessi occhi di allora. Come un soldato cerca di ripercorrere sulla carta la sua campagna militare, riscaldato dalla commozione quanto da una sensazione di familiarità, così io leggevo in quel paesaggio dai colori autunnali la storia di molte meravigliose follie nonché la storia, ormai quasi trasfigurata in leggenda, di un amore che fu.


Hermann Hesse

domenica 1 maggio 2011

Racconti


La Rivolta di Atlante


Eddie Willers pensò ad un giorno d'estate di quando aveva dieci anni. Quel giorno, in una radura del bosco, l'unica compagna preziosa della sua infanzia gli aveva detto quel che avrebbero fatto da grandi. Le parole erano state decise e brillanti, come la luce del sole. Lui aveva ascoltato, ammirato e sbigottito. Quando gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto fare, aveva risposto: «Quel che è giusto. » E aveva aggiunto: «Tu dovresti fare qualcosa di grande... voglio dire, noi due insieme. » «Che cosa? » aveva domandato lei. E lui: «Non so. È questo che dobbiamo scoprire. Non solo quel che dici tu. Non solo affari e un modo per guadagnarsi da vivere. Cose come vincere battaglie, salvare la gente dalle fiamme o scalare montagne. » «A che servirebbe? » aveva detto lei. E lui aveva risposto: «Il sacerdote, la scorsa domenica, ha detto che dobbiamo cercar sempre di raggiungere il meglio in noi stessi. Cosa pensi che sia il meglio in noi due? » «Non so. » «Dobbiamo scoprirlo. » Ma lei non aveva risposto. Stava guardando lontano, verso le rotaie della ferrovia.

Eddie Willers sorrise. Aveva detto: «Quel che è giusto» ventidue anni prima. Da allora aveva mantenuto fede a quella dichiarazione. Le altre domande si erano sbiadite nella sua mente; aveva avuto troppo da fare, per proporsele. Ma ancora pensava che bisognava fare quel che era giusto; non aveva mai capito come la gente potesse fare il contrario. Sapeva solo che lo facevano. E gli sembrava ancora semplice e incomprensibile: semplice che le cose dovessero essere giuste, incomprensibile che non lo fossero. E sapeva che non lo erano.


Ayn Rand

lunedì 7 marzo 2011

Racconti


Ella poi gli andò incontro ed insieme con lei andava un’ancella con il figlio sul seno, ingenuo, così piccolo, l’amabile figlio di Ettore, simile ad una bella stella, che Ettore soleva chiamare Scamandrio, ma gli altri Astianatte; perché Ettore era il solo che salvava Ilio. In verità egli volgendo lo sguardo verso il figlio, sorrise in silenzio; Ma Andromaca si accostava vicino a lui versando lacrime, gli strinse la mano, gli parlò e lo chiamò per nome: “Infelice, il tuo coraggio ti distruggerà e non hai pietà del figlio piccolo e di me sventurata che presto sarò vedova di te: presto infatti ti uccideranno gli Achei avventandosi tutti (contro di te); per me sarebbe preferibile, rimasta priva di te, discendere sottoterra; poiché per me non ci sarà più altro conforto, quando tu abbia seguito il (tuo) destino, ma (solo) dolori; né ho io mio padre e la veneranda madre. Certamente l’illustre Achille uccise nostro padre, distrusse la città dei Cilici, Tebe dalle alte mura ben abitate: ed uccise Eezione, e non lo spogliò delle armi, ma tenne ritegno di ciò in cuore ma lo bruciò con le armi artisticamente lavorate e gli eresse un tumulo, e piantarono intorno olmi le ninfe dei monti (Oreadi), figlie di Zeus egioco. Ed i miei sette fratelli che erano nelle sale (case), essi tutti in un sol giorno andarono nell’Ade; infatti Achille dai piedi veloci li uccise tutti presso i buoi che trascinano i piedi e le bianche pecore. (Mia) madre che regnava sotto il selvoso Placo, dopo che l’ebbe condotta qui con gli altri bottini, poi la liberò con innumerevoli doni di riscatto, ma nelle case del padre la colpì Artemide saettatrice; O Ettore, tu per me sei padre, veneranda madre e fratello, tu per me sei florido sposo; Suvvia ora abbi pietà e resta qui sulla torre e non rendere il figlio orfano e la moglie vedova; Ferma l’esercito presso il caprificio dove la città è sommamente accessibile ed il muro scalabile. Infatti per tre volte venendo in questo luogo lo tentarono i migliori compagni dei due Aiaci, del molto illustre Idomeneo, compagni degli Atridi e del forte figlio di Tideo; o forse l’ha detto qualcuno che sa bene i responsi, oppure l’animo loro li spinge e li comanda.”
Di rimando il grande Ettore agitator dell’elmo le rispose: “Certamente tutto ciò anche a me sta a cuore, o (cara) consorte; ma in maniera assai tremenda ho vergogna dei Troiani e delle Troiane dai lunghi pepli qualora sfugga come un vile lontano dalla guerra; né l’animo mi invita (a ciò), poiché io ho imparato ad essere valoroso sempre ed a combattere fra i Troiani in prima fila, cercando di conseguire la grande gloria di mio padre e di me stesso. Infatti so bene questo nella mente e nel cuore: verrà un giorno in cui la sacra Ilio perirà e Priamo ed il popolo di Priamo dalla bella lancia; ma non mi sta a cuore tanto per i Troiani in avvenire, né per la stessa Ecuba per Priamo signore né per i fratelli i quali molti e valorosi potrebbero cadere nella polvere per mano dei nemici quanto per te, quando ti conduca via in lacrime uno degli Achei dalle tuniche di bronzo togliendoti la libertà, ed essendo in Argo tesseresti la tela sotto il comando di un’altra e potresti portare l’acqua di Messeide o di Iperea molto controvoglia, e una dura necessità ti sovrasterà. Ed un giorno qualcuno, vedendoti versare una lacrima, dirà “questa è la moglie di Ettore che era solito primeggiare nel combattere fra i Troiani domatori di cavalli, quando combattevano intorno ad Ilio.” Così un giorno qualcuno dirà: “per te poi sarà nuovo il dolore per la mancanza di un uomo siffatto ad allontanare da te il giorno servile; ma me morto la terra versatami sopra mi nasconda, prima che io venga a sapere il tuo grido e la tua cattura.”
Così dicendo l’illustre Ettore tese le mani al suo bambino; a sua volta il bambino, gridando, si piegò indietro al seno della nutrice dalla bella cintura, spaventato alla vista di suo padre, tremando per le armi di bronzo e del cimiero dalla chioma equina, vedendolo ondeggiare terribilmente dalla parte più alta dell’elmo. Suo padre e la veneranda madre risero; subito l’insigne Ettore si tolse dal capo l’elmo e lo depose a terra, tutto splendente; e poi egli, dopo che ebbe baciato ed agitato fra le braccia il suo caro figliuolo, disse pregando Zeus e gli altri dei: “O Zeus e voi altri dei, concedete che anche questo mio figlio sia come realmente sono io, illustre fra i Troiani e così valente nel vigore e che regni con potere su Ilio; e qualcuno un giorno dica ritornando dalla guerra, costui è di gran lunga superiore al padre; e, dopo aver ucciso il guerriero nemico, porti le spoglie insanguinate, e la madre gioisca nell’animo.”
Così dicendo pose il suo bimbo nelle braccia della cara consorte; ed ella lo accolse nel seno profumato sorridendo fra le lacrime; lo sposo vedendola ne ebbe pietà, indi l’accarezzò con la mano, le parlò e la chiamò per nome: “Misera, non addolorarti troppo nell’animo per me; poiché nessun guerriero mi getterà nell’Ade contro il volere del fato; io dico che nessuno degli uomini è sfuggito al destino, non il vile, né il valoroso, da quando per la prima volta sia venuto alla luce. Orsù, và a casa ed attendi ai tuoi lavori, al telaio e alla conocchia ed ordina alle ancelle di affrontare il lavoro; la guerra starà a cuore, e particolarmente a me, a tutti gli uomini, che sono nati in Ilio.”
Dunque l’illustre Ettore, avendo parlato in tal modo, prese l’elmo dalla coda equina; la cara sposa era andata a casa voltandosi indietro ripetutamente e versando abbondanti lacrime.

sabato 29 gennaio 2011

Racconti


Andarsene d'estate


Andarsene d'estate quando gli alberi ti sbattono in faccia il colore della speranza.
Mentre moltiplicano al calore del sole il manto di freschezza.
Sentire il gelo avvolgere il cuore, i pensieri, i ricordi...
Vivere quando si ha il vuoto dentro...

Stai seduto davanti al muro specchiandoti nelle rughe della parete, dove la parola felicità
non arriva in superficie nemmeno in trasparenza.
L'abisso accoglie l'anima che non pulsa più, cancellata dal bianco del pennarello della vita.
Il tuo corpo è la mela che avvizzisce senza succo acerbo o zuccherino, prosciugata dal verme che si è insediato nella tua mensa senza essere invitato.
Non si tramuterà in farfalla come i suoi simili.
Le tue braccia come rami di salici piangenti ricadono sui braccioli dove lasci l'impronta di uno scricciolo.
Prendo la tua mano e la stringo forte.
L'istinto mi dice di lasciarla andare e lei cade come piuma sul corpo che riconosco vivo solo dal movimento della camicia.
Le mie parole d'amore ti investono come acqua di cascata. Dissetano l'orecchio ma l'istinto le permea nel rigetto.
- No!
Un no secco.
La voce è il filo che si spezza nel chiedere perdono per non potermi ascoltare, chiuso nell'oscurità.
Lo sguardo corre lontano, si sofferma nello spazio dove l'immagine si tramuta in essenza d'etere senza tempo né dimensione.
Sfuggi al mio sguardo, diventi serpente che striscia nell'antro nero che si allarga a macchia d'olio.
Mi offro a te senza speranza.
Il dolore senza perché penetra come il coltello nella ferita invisibile del rifiuto del domani.
È tempo di andare, di lasciarti. È il tuo desiderio.
Ti lasci annegare nel nulla dell'esistenza.
Ascolto le tue parole :
- Addio sofferenza di vivere.


Rainalda Torresini

mercoledì 6 ottobre 2010

Racconti


L'ultimo amore
del principe Genji

Quando Genji il Rifulgente, il più grande seduttore che mai abbia
stupito l'Asia, ebbe raggiunto il suo cinquantesimo anno, si accorse
che bisognava cominciare a morire. La sua seconda moglie, Murasaki,
la principessa Violetta, che egli aveva tanto amata attraverso tante
infedeltà contraddittorie, l'aveva preceduto in uno di quei Paradisi
dove vanno i morti che hanno acquisito qualche merito nel corso di
questa vita mutevole e difficile, e Genji si tormentava di non
poterne ricordare esattamente il sorriso, o meglio la smorfietta che
lei faceva prima di piangere. La sua terza sposa, la
Principessa-del-Palazzo-dell'Ovest, l'aveva ingannato con un giovane
parente, come lui stesso, al tempo della sua giovinezza, aveva
ingannato suo padre, con un'imperatrice adolescente. La stessa
commedia ricominciava sul teatro del mondo, ma questa volta lui
sapeva che non gli sarebbe toccata che la parte del vecchio, e a
questo preferiva la parte del fantasma. E così distribuì i suoi beni,
congedò i suoi servitori e si accinse ad andare a finire i suoi
giorni in un eremitaggio che aveva avuto cura di far costruire sul
fianco della montagna. Attraversò un'ultima volta la città, seguito
soltanto da due o tre compagni devoti che in lui non si rassegnavano
a prendere congedo dalla loro giovinezza. Nonostante l'ora mattutina,
alcune donne puntavano il viso contro i sottili listelli delle
persiane. Bisbigliavano ad alta voce che Genji era ancora bellissimo,
e questo provava una volta di più al principe che era proprio tempo
di andarsene.
Misero tre giorni a raggiungere l'eremitaggio situato in lande
assai selvatiche. La casetta sorgeva ai piedi di un acero centenario;
poiché era autunno, le foglie di questo bell'albero ne ricoprivano il
tetto di paglia con uno strato d'oro. In quella solitudine la vita si
rivelò più semplice e più rude ancora di quanto non fosse stata nel
corso del lungo esilio, in una remota provincia giapponese, subìto da
Genji al tempo della sua tempestosa giovinezza, e quell'uomo
raffinato poté finalmente gustare, fino a saziarsene, il lusso
supremo che consiste nel fare a meno di tutto. Presto si annunciarono
i primi freddi, le pendici della montagna si ricoprirono di neve come
le larghe pieghe di quei vestiti ovattati che si portano in inverno,
e la nebbia soffocò il sole. Dall'alba al crepuscolo, al baluginìo di
un avaro braciere, Genji leggeva le Scritture, e trovava in quei
versetti austeri un sapere ormai impossibile per lui nei più patetici
versi d'amore. Ma ben presto si accorse che la sua vista scemava,
come se tutte le lacrime che aveva versate sulle sue fragili amanti
gli avessero bruciato gli occhi, e dovette rendersi conto che per lui
le tenebre sarebbero cominciate prima della morte. Di tanto in tanto
un corriere intirizzito arrivava dalla capitale, zoppicando sui piedi
gonfi di stanchezza e di geloni, e gli presentava rispettosamente
certi messaggi di parenti o di amici che desideravano fargli ancora
una visita in questo mondo, prima degli incontri infiniti e incerti
dell'altra vita. Ma Genji temeva di ispirare ai suoi ospiti soltanto
compassione o rispetto, due sentimenti di cui aveva orrore, e ai
quali preferiva l'oblìo. Scuoteva tristemente il capo, e quel
principe rinomato un tempo per il suo talento di poeta e di
calligrafo rimandava il messaggero con in mano un foglio bianco. A
poco a poco le comunicazioni con la capitale rallentarono; il ciclo
delle feste stagionali continuava a ruotare lontano dal principe che
una volta le dirigeva con un colpo di ventaglio, e Genji, abbandonato
senza ritegno alle tristezze della solitudine, aggravava sempre più
il suo male agli occhi perché non si vergognava più di piangere.
Due o tre delle sue antiche amanti gli avevano proposto di venire a
condividere il suo isolamento pieno di ricordi. Le lettere più tenere
provenivano dalla Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono: era
un'antica concubina di nascita non illustre e di mediocre bellezza;
aveva fedelmente servito come dama d'onore presso le altre spose di
Genji, e per diciott'anni aveva amato il principe senza stancarsi mai
di soffrire. Lui le faceva ogni tanto qualche visita notturna, e
questi incontri, benché rari come le stelle in una notte piovosa,
erano bastati a illuminare la povera vita della
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono. Non facendosi illusioni né
sulla propria bellezza, né sul proprio spirito, né sulla propria
nascita, la Signora, la sola fra tante amanti, conservava per Genji
una dolce riconoscenza poiché non trovava del tutto naturale che egli
l'avesse amata.
Restando senza risposta le sue lettere, affittò una modesta
carrozza e si fece portare alla capanna del principe solitario.
Spinse timidamente la porta di rami intrecciati; si inginocchiò, con
un'umile risatina che la scusasse di essere lì. In quel tempo Genji
riconosceva ancora il viso dei suoi visitatori se si avvicinavano
molto. Una rabbia amara lo colse davanti a quella donna che
risvegliava in lui i più stillanti ricordi dei giorni morti, non
tanto per via della sua presenza quanto perché le sue maniche erano
ancora impregnate del profumo che usavano le sue mogli defunte. Lei
lo supplicava tristemente di tenerla almeno come serva. Spietato per
la prima volta, Genji la cacciò, ma lei aveva conservato qualche
amico fra i vecchi che si occupavano del servizio del principe, e
talvolta costoro le facevano avere notizie. Crudele a sua volta come
non lo era mai stata in vita sua, lei sorvegliava di lontano il
procedere della cecità di Genji, come una donna impaziente di
raggiungere il suo amante aspetta che la sera sia del tutto scesa.
Quando lo seppe quasi del tutto cieco, si spogliò dei suoi vestiti
di città e indossò una casacca corta e rozza secondo l'uso delle
giovani contadine; si intrecciò i capelli alla maniera delle ragazze
dei campi; e si mise sulle spalle un fagotto di stoffe e di terraglie
del genere che si vende nelle fiere paesane. Conciata così, si fece
condurre nel luogo dove l'esule volontario abitava in compagnia dei
cerbiatti e dei pavoni della foresta; fece a piedi l'ultima parte
della strada perché il fango e la stanchezza l'aiutassero a
rappresentare bene la sua parte. Le piogge tenere della primavera
cadevano dal cielo sulla terra molle, e sommergevano gli ultimi
lucori del crepuscolo: era l'ora in cui Genji, ravvolto nel suo
stretto abito da monaco, passeggiava lentamente lungo il sentiero da
cui i suoi vecchi servitori avevano accuratamente scostato ogni
sassolino per impedirgli di inciampare. Il suo viso vacuo,
spassionato, offuscato dalla cecità e dalle avvisaglie della
vecchiaia, sembrava uno specchio brunito che avesse un tempo riflesso
la bellezza, e la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono non ebbe
bisogno di fingere per mettersi a piangere.
Questo rumore di singhiozzi femminili fece sussultare Genji. Si
orientò lentamente dal lato di dove provenivano quelle lacrime.
- Chi sei, donna? disse con inquietudine.
- Sono Ukifune, la figlia del fattore So-Hei, disse la Signora non
dimenticando di adottare l'accento del villaggio. Sono andata in città
con mia madre per comperare stoffe e marmitte perché mi sposano alla
prossima luna. Ma ecco che mi sono smarrita nei sentieri della
montagna, e piango perché ho paura dei cinghiali, dei demoni, del
desiderio degli uomini e dei fantasmi dei morti.
- Tu sei tutta bagnata, fanciulla, disse il principe posandole una
mano sulla spalla.
Infatti era fradicia fino alle ossa. Il contatto di quella mano così
nota la fece vibrare dalla punta dei capelli all'alluce del piede
nudo, ma forse Genji credette che tremasse per il freddo.
- Vieni nella mia capanna, riprese il principe con voce invitante.
Potrai scaldarti al mio fuoco, anche se ci sono più ceneri che
carbone.
La Signora lo seguì, preoccupandosi di imitare l'andatura goffa di
una contadina. Si accovacciarono davanti al fuoco morente. Genji
tendeva le mani verso il calore, ma la Signora dissimulava le dita,
troppo delicate per una ragazza dei campi.
- Sono cieco, sospirò Genji un momento dopo. Non farti scrupoli e
togliti i vestiti bagnati, ragazza. Scaldati nuda davanti al mio
fuoco.
La Signora si tolse docilmente l'abito da contadina. Il fuoco
coloriva il suo corpo esile che sembrava intagliato nella più pallida
delle ambre. All'improvviso Genji mormorò:
- Ti ho ingannata, fanciulla, perché non sono ancora del tutto
cieco. Ti intuisco attraverso una nebbia che forse non è che l'alone
della tua bellezza. Lascia che posi la mano sul tuo braccio che trema
ancora.
E' così che la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono ridivenne
l'amante del principe Genji che per più di diciott'anni aveva
umilmente amato. Non dimenticò di imitare le lacrime e le timidezze
di una fanciulla al suo primo amore. Il suo corpo era rimasto
mirabilmente giovane, e la vista del principe era troppo debole per
permettergli di distinguere qualche capello grigio.
Quando le loro carezze furono finite, la Signora si inginocchiò
davanti al principe e gli disse:
- Ti ho ingannato, Principe. Sono Ukifune, sì, la figlia del
fattore So-Hei, ma non mi sono affatto smarrita nella montagna. La
gloria del principe Genji è giunta fino al villaggio, ed è di mia
spontanea volontà che sono venuta, per scoprire l'amore fra le tue
braccia.
Genji si alzò barcollando, come un pino che vacilli sotto l'urto
dell'inverno e del vento. Gridò con voce sibilante:
- Disgrazia a te, che sei venuta a riportarmi il ricordo del mio
peggiore nemico, il bel principe dagli occhi vivi che con la sua
immagine mi tiene sveglio ogni notte... Vattene...
E la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si allontanò,
rimpiangendo l'errore che aveva appena commesso.
Durante le settimane che seguirono, Genji restò solo. Soffriva. Si
accorgeva, scoraggiato, di essere ancora avvolto nelle illusioni di
questo mondo, e pochissimo preparato agli scorticamenti e alle
epifanie dell'altra vita. La visita della figlia del fattore So-Hei
aveva risvegliato in lui il gusto delle creature dai polsi stretti,
dai lunghi seni conici, dal riso patetico e docile. Da quando stava
diventando cieco, il senso del tatto restava il suo solo modo di
aderire alla bellezza del mondo, e i paesaggi in cui era venuto a
rifugiarsi non gli dispensavano più alcuna consolazione. Il fruscìo
di un ruscello, infatti, è più monotono della voce di una donna, e i
pendii delle colline o le striature delle nuvole sono fatti per chi
può vedere, e planano troppo lontano da noi per lasciarsi
accarezzare.
Due mesi più tardi la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono
fece un secondo tentativo. Questa volta si vestì e si profumò con
cura, ma badò bene che il taglio delle stoffe avesse qualcosa di
meschino e di timido nella sua stessa eleganza, e che quel profumo
discreto, ma banale, suggerisse la mancanza di immaginazione di una
giovane proveniente da un onorevole strato della provincia, e che non
ha mai visto la corte.
Per l'occasione ingaggiò dei portatori e una portantina
ragguardevole che tuttavia mancava delle ultime raffinatezze
cittadine. Fece in modo di arrivare nei dintorni della capanna di
Genji soltanto in piena notte. L'estate l'aveva preceduta nella
montagna. Genji, seduto ai piedi dell'acero, ascoltava il canto dei
grilli. La Signora si avvicinò a lui nascondendo a metà il viso
dietro il ventaglio e mormorò tutta confusa:
- Sono Sciujo, la moglie di Sukazu, un nobile di settimo rango
della provincia di Yamato. Sono partita per il pellegrinaggio al
tempio di
Ise, ma uno dei miei portatori si è storto un piede, e io non posso
continuare la strada prima dell'aurora. Indicami una capanna dove io
possa passare la notte senza temere calunnie, e far riposare i miei
servi.
- Dove, se non nella casa di un vecchio cieco, può essere meglio al
riparo delle calunnie una giovane donna? disse amaramente il
principe. La mia capanna è troppo piccola per i tuoi servi, che
dormiranno sotto quest'albero, ma a te io cederò l'unico materasso
del mio eremo.
Si alzò e camminando a tastoni le indicò la strada. Nemmeno una
volta aveva alzato gli occhi su di lei, e da questo segno ella
riconobbe che era completamente cieco.
Quando si fu distesa sul materasso di foglie secche, Genji andò
malinconicamente a sedersi sulla soglia della capanna. Era triste, e
non sapeva nemmeno se quella giovane fosse bella.
La notte era calda e chiara. La luna stendeva un chiarore sul viso
alzato del cieco, che sembrava scolpito in una candida giada. Dopo un
po' la signora lasciò il suo giaciglio forestiero e a sua volta venne
a sedersi sulla soglia. Disse con un sospiro:
- La notte è bella, e io non ho sonno. Permettimi di cantare una
delle canzoni di cui trabocca il mio cuore.
E senza aspettare risposta cantò una romanza che il principe aveva
cara per averla tante volte sentita dalle labbra della sua moglie
preferita, la principessa Violetta. Genji, turbato, si avvicinò
insensibilmente alla sconosciuta:
- Di dove vieni, giovane donna che conosci le canzoni care alla mia
giovinezza? Arpa in cui vibrano arie di un altro tempo, lasciami
passare la mano sulle tue corde.
E le carezzò i capelli. Dopo un po' le domandò:
- Ahimè, certo tuo marito sarà più bello e più giovane di me,
giovane donna del paese di Yamato.
- Mio marito è meno bello e sembra meno giovane, rispose
semplicemente la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono.
E così, sotto un nuovo travestimento, la Signora divenne l'amante
del principe Genji, al quale un tempo era appartenuta. Al mattino lo
aiutò a preparare una pappa calda, e il principe Genji le disse:
- Sei abile e tenera, giovane donna, e credo che nemmeno il
principe Genji, che è stato tanto felice in amore, abbia avuto
un'amante più dolce di te.
- Non ho mai sentito parlare del principe Genji, disse la Signora
scuotendo la testa.
- Come! esclamò amaramente Genji. E' stato dimenticato così presto?
E restò cupo per l'intiera giornata. La Signora capì allora di aver
fatto un secondo passo falso, ma Genji non accennava a mandarla via,
e sembrava felice di ascoltare il fruscìo del suo vestito di seta
nell'erba.


Arrivò l'autunno e trasformò gli alberi della montagna in
altrettante fate vestite di porpora e d'oro, ma destinate a morire
con i primi freddi. La Signora descriveva a Genji quei bruni grigi,
quei bruni dorati, quei bruni lilla, badando a non alludervi che per
caso, e ogni volta evitava di ostentare l'aiuto che gli recava.
Deliziava ogni giorno Genji inventando complicate collane di fiori,
pietanze raffinate per troppa semplicità, nuove parole che si
adattavano a vecchie arie struggenti e sofferte. Aveva già dispiegato
gli stessi fascini nel suo padiglione di quinta concubina, dove Genji
talvolta le faceva visita. Ma lui, distratto da altri amori, non se
n'era accorto.
Alla fine dell'autunno le febbri salirono dalle paludi. Gli insetti
pullulavano nell'aria ammorbata, e ogni respiro pareva una sorsata
presa a una sorgente avvelenata. Genji si ammalò e si distese sul suo
letto di foglie morte, convinto ormai di non rialzarsi più. Davanti
alla Signora si vergognava della propria debolezza e delle cure
umilianti a cui lo costringeva la malattia, ma quell'uomo che per
tutta la sua vita aveva cercato ciò che c'è insieme di più unico e di
più straziante in ogni esperienza, non poteva che apprezzare quanto
una simile intimità nuova e miseranda poteva aggiungere fra due
esseri alle intime dolcezze dell'amore.
Un mattino in cui la Signora gli massaggiava le gambe, Genji si
sollevò sul gomito, e cercando a tastoni le mani della Signora,
mormorò:
- Giovane donna che curi chi sta per morire, io ti ho ingannata. Io
sono il principe Genji.
- Quando sono venuta da te, non ero che una provinciale ignorante;
disse la Signora, e non sapevo chi fosse il principe Genji. Ora so
che è stato il più bello e il più desiderato degli uomini, ma tu non
hai bisogno di essere il principe Genji per essere amato.
Genji la ringraziò con un sorriso. Da quando i suoi occhi tacevano,
sembrava che lo sguardo gli vagasse sulle labbra.
- Sto per morire, disse con fatica. Non mi lamento di un destino
che condivido con i fiori, con gli insetti, con gli astri. In un
universo dove tutto passa come un sogno, non ci perdoneremmo di
durare sempre. Non mi addolora che le cose, gli esseri e i cuori
siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza è fatta
di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici. Un tempo,
la certezza di ottenere in ogni istante della mia vita una
rivelazione non destinata a rinnovarsi, rappresentava il fiore dei
miei segreti piaceri. Ora io muoio pieno di vergogna, come un
privilegiato che abbia assistito da solo a una festa sublime data una
volta sola. Cari oggetti, voi non avete più per testimone se non un
cieco che muore... Saranno in fiore altre donne, sorridenti come
quelle che io ho amato, ma il loro sorriso sarà diverso, e il neo che
mi ispirava tanti slanci si sarà spostato per lo spessore di un atomo
sulla loro guancia d'ambra. Altri cuori si spezzeranno sotto il peso
di un amore insopportabile, ma le loro lacrime non saranno le nostre
lacrime. Mani umide di desiderio continueranno a intrecciarsi sotto i
mandorli in fiore, ma la stessa pioggia di petali non si sfoglia mai
due volte sulla stessa felicità umana. Ah, mi sento simile a un uomo
trascinato da un'inondazione, che voglia almeno trovare un angolino
di terra asciutta per affidargli qualche lettera ingiallita e qualche
ventaglio dalle sfumature sbiadite... Che ne sarà di te, quando non
sarò più qui a intenerirmi sul tuo ricordo, Principessa Azzurra, mia
prima moglie, al cui amore non ho creduto che il giorno dopo la tua
morte? E tu, ricordo desolato della
Signora-del-Padiglione-delle-Campanule, che sei morta nelle mie
braccia perché una rivale gelosa pretendeva di essere sola ad amarmi?
E voi, ricordi insidiosi della mia troppo bella matrigna e della mia
troppo giovane sposa, occupate volta a volta a insegnarmi quanto si
soffra a essere il complice o la vittima di un'infedeltà? E tu,
ricordo sottile della Signora Cicala-del-Giardino che si eclissò per
pudore, tanto che io dovetti consolarmi con il suo giovane fratello,
il cui viso infantile rifletteva ogni tratto di quel timido sorriso
di donna? E tu, caro ricordo della Signora-della-Lunga Notte, che sei
stata tanto dolce, e che consentisti a essere soltanto la terza nella
mia casa e nel mio cuore? E tu, povero piccolo ricordo pastorale
della figlia del fattore So-Hei, che in me non amava che il mio
passato? E tu soprattutto, tu, ricordo delizioso della piccola Sciujo
che in questo momento mi massaggi i piedi e che non avrai il tempo di
essere un ricordo? Sciujo, che avrei voluto incontrare più presto
nella mia vita, ma è anche giusto che all'estremo autunno sia
riservato un frutto...
Ebbro di tristezza, lasciò ricadere la testa sul duro cuscino. La
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si curvò su di lui e
tremando tutta mormorò:
- Non c'era un'altra donna nel tuo palazzo, una di cui non hai
pronunciato il nome? Non era dolce? Non si chiamava per caso la
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono? Ah, cerca di ricordare...
Ma già i tratti del principe Genji avevano assunto quella serenità
che soltanto ai morti è riservata. La fine di ogni dolore aveva
cancellato dal suo viso ogni traccia di sazietà o di amarezza, come
se l'avesse convinto di avere ancora diciott'anni. La
Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si buttò a terra urlando
contro ogni ritegno; le sue lacrime salate le devastavano le guance
come una pioggia tempestosa, e i suoi capelli strappati a manciate
volavano via come borra di seta. Il solo nome che Genji avesse
dimenticato, era precisamente il suo.



Novelle orientali,Marguerite Yourcenar

domenica 19 settembre 2010

Racconti


IL LATTE DELLA MORTE

Marguerite Yourcenar



La lunga fila grigia e marrone dei turisti si allungava nella strada maggiore di Ragusa. I berretti spighettati, le opulente vesti ricamate ondeggiavano al vento sulla soglia delle botteghe e accendevano l'occhio dei viaggiatori in caccia di regali a buon mercato o di travestimenti per i balli in costume sulla nave. Faceva caldo come fa caldo soltanto all'inferno. Le montagne rase dell'Erzegovina tenevano Ragusa sotto fuochi di specchi ustori. Philip Mild entrò in una rosticceria tedesca dove in una semioscurità soffocante ronzava qualche grossa mosca. La terrazza del ristorante si affacciava paradossalmente sull'Adriatico, rispuntato fuori in piena città, proprio dove meno lo si sarebbe immaginato, senza che quell'improvvisa irruzione azzurra servisse ad altro che ad aggiungere un colore all'arlecchinante piazza del Mercato. Un fetore saliva da un mucchio di resti di pesce di cui certi gabbiani bianchi in modo quasi insopportabile stavano facendo piazza pulita. Nemmeno un alito veniva dal largo. Il compagno di cabina di Philip, l'ingegnere Jules Boutrin, stava bevendo, seduto a un tavolino di zinco, all'ombra di un ombrellone color fuoco che di lontano sembrava una grossa arancia ondeggiante sul mare.

– Raccontatemi un'altra storia, mio vecchio amico, disse Philip lasciandosi cadere pesantemente su una sedia. Davanti a questo mare ho bisogno di un whisky e di una storia... la storia più bella e meno vera che sia possibile, capace di farmi dimenticare le menzogne patriottiche e contraddittorie di quei giornali che poco fa ho comprato sulla banchina. Gli Italiani insultano gli Slavi, gli Slavi i Greci, i Tedeschi i Russi, i Francesi la Germania e quasi altrettanto l'Inghilterra. Tutti hanno ragione, penso. Parliamo d'altro... che cosa avete fatto ieri a Scutari dove eravate tanto impaziente di andare a vedere con i vostri stessi occhi non so quali turbine?
– Niente, disse l'ingegnere. A parte un'occhiata a certi vaghi lavori di una diga, ho dedicato il meglio del mio tempo a cercare una torre. Ho sentito tante vecchie serve raccontare la storia della Torre di Scutari che avevo proprio bisogno di ritrovarne i mattoni sbrecciati e di esaminare se per caso non conservino, come si dice, una striscia bianca... ma il tempo, le guerre e i contadini dei dintorni preoccupati di consolidare i muri delle loro fattorie l'hanno demolita pietra dopo pietra, e soltanto nei racconti il suo ricordo resiste... A proposito, Philip, siete tanto fortunato da possedere quella che si dice una buona madre?
– Che domanda, fece negligentemente il giovane Inglese. Mia madre è bella, slanciata, ben truccata, dura come il vetro di una vetrina. Che volete che vi dica di più? Quando usciamo insieme mi prendono per suo fratello maggiore.

– Appunto. Siete come tutti noi. Quando penso che certi idioti assicurano che la nostra epoca manca di poesia, come se non avesse i suoi surrealisti, i suoi profeti, le sue stelle del cinema e i suoi dittatori! Credete a me, Philip, quello che ci manca è qualche realtà. La seta è artificiale, quel cibo detestabilmente sintetico assomiglia a quelle imitazioni alimentari di cui si riempiono le mummie, e le donne sterilizzate contro il dolore e la vecchiaia sono scomparse ovunque. Soltanto nelle leggende dei paesi semibarbari, si incontrano ormai quelle creature ricche di latte e di lacrime da cui saremmo fieri di essere nati... Dove ho sentito parlare di un poeta che non poteva amare nessuna donna perché in un'altra vita aveva incontrato Antigone? Un tipo del genere che dico io... qualche dozzina di madri e di innamorate, da Andromaca a Griselda, mi hanno fatto diventare esigente nei confronti di quelle bambole infrangibili che si pretendono realtà.
"Isotta per amante, e per sorella la Bell'Alda... sì, ma quella che avrei voluto per madre è una ragazzina della leggenda albanese, la moglie di un giovane fringuello di queste parti...
"C'erano tre fratelli che lavoravano alla costruzione di una torre di vedetta contro i predoni turchi. Si erano messi loro stessi all'opera, sia che la mano d'opera fosse rara, e cara, sia che da bravi contadini non si fidassero che delle loro stesse braccia, e le loro mogli venivano a turno a portare da mangiare. Ma ogni volta che riuscivano a concludere tanto bene il loro lavoro da issare un ciuffo d'erba sul tetto, il vento della notte e le streghe della montagna rovesciavano la loro torre proprio come Dio fece crollare Babele. Ci sono buone ragioni sì perché una torre non si regga in piedi, e si può incolpare l'inettitudine degli operai, la cattiva volontà del terreno e l'insufficienza del cemento che tiene insieme le pietre. Ma i contadini serbi, albanesi o bulgari non attribuiscono a questo disastro che un'unica causa: sanno che un edificio crolla se non si è preso cura di chiudere nelle fondamenta un uomo o una donna il cui scheletro sostenga fino al giorno del Giudizio Universale quella pesante carne di pietre. Ad Arta, in Grecia, si mostra un ponte in cui fu murata una ragazza: qualche filamento dei suoi capelli esce da una fessura e pende sull'acqua come una pianta bionda. I tre fratelli cominciarono a guardarsi con diffidenza e facevano attenzione a non proiettare la loro ombra sul muro incompiuto perché è possibile, in mancanza di meglio, chiudere in un edificio in costruzione quel nero prolungamento dell'uomo che potrebbe corrispondere alla sua anima. E l'uomo la cui ombra viene imprigionata così, muore come un disgraziato colpito da una pena d'amore.
"La sera ognuno dei tre fratelli si sedeva dunque il più lontano possibile dal fuoco, per timore che qualcuno gli s'avvicinasse silenziosamente alle spalle, gettasse un sacco di tela sulla sua ombra e se la portasse via semistrozzata, come un piccione nero. Il loro ardore per il lavoro languiva, e a bagnare di sudore la loro fronte bruna non era più la stanchezza ma l'angoscia. Finalmente, un giorno, il primogenito riunì intorno a sé i fratelli più giovani e disse:
"– Fratelli miei di sangue, di latte e di battesimo, fratellini miei, se la nostra torre resta incompiuta i Turchi si insinueranno di nuovo sulle rive di questo lago, dissimulati dietro le canne. Violenteranno le ragazze della nostra fattoria; ci bruceranno nei campi la promessa del pane futuro; crocifiggeranno i nostri contadini agli spauracchi dei frutteti, che così saranno ghiotta preda dei porci. Fratellini miei, noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Non si può chiedere al trifoglio di sacrificare una delle sue tre foglie, ma ognuno di noi ha una moglie giovane e forte, con le spalle e una bella nuca abituate a portare fardelli. Non prendiamo decisioni, fratelli: lasciamo scegliere al Caso, questo simulacro di Dio. Domani, all'alba, noi prenderemo per murarla viva nelle fondamenta della torre quella delle nostre donne che verrà a portarci da mangiare. Vi chiedo soltanto il silenzio di una notte, o miei fratelli più giovani, e guardiamoci dall'abbracciare con troppe lacrime e sospiri quella che, dopo tutto, ha due possibilità su tre di respirare ancora al tramonto.
"Era facile per lui parlare così perché in segreto detestava la sua giovane moglie e voleva sbarazzarcene per prendere al suo posto una bella ragazza greca dai capelli rossi. Il secondo fratello non fece obiezioni perché pensò subito che al ritorno avrebbe avvertito sua moglie, e il solo che protestò fu il più giovane, perché aveva l'abitudine di tener fede alla sua parola. Commosso dalla magnanimità dei fratelli maggiori, che in nome dell'opera comune rinunziavano a ciò che avevano di più caro al mondo, finì per lasciarsi convincere e promise di tacere tutta la notte.

"Rientrarono all'accampamento a quell'ora del crepuscolo in cui il fantasma della luce morta girovaga ancora per i campi. Il secondo fratello raggiunse tutto irritato la sua tenda e ordinò rudemente a sua moglie di aiutarlo a togliersi gli stivali. Quando fu accoccolata ai suoi piedi, lui le sbatté le calzature in pieno viso e dichiarò:
"– Sono otto giorni che porto la stessa camicia, verrà la domenica e io non potrò mettermi biancheria pulita. Maledetta fannullona, domani alla prima alba dovrai andare al lago con il cesto della biancheria e ci resterai fino a notte fra la spazzola e la mestola. Morirai se te ne allontani di uno spessore di suola.
"E la giovane, tremando, promise di consacrare al bucato la giornata seguente.
"Il primogenito rientrò alla sua tenda ben deciso a non dir nulla alla sua massaia i cui baci lo esasperavano e di cui non apprezzava più la greve bellezza. Ma aveva un pericoloso difetto: parlava in sogno. L'opulenta matrona albanese quella notte non riuscì a dormire, domandandosi in che cosa avesse potuto spiacere al suo signore. All'improvviso sentì il marito bofonchiare mentre tirava a sé la coperta:
"– Cuore mio, caro cuoricino che mi batte in petto, presto sarai vedovo... come ce la godremo, quando i buoni mattoni della torre ci avranno separati da quella moraccia...
"Ma il più giovane rientrò alla sua tenda pallido e rassegnato come un uomo che per la strada avesse incontrato la Morte in persona, che con la falce in spalla se ne andasse a mietere. Baciò il bambino nella culla di vimini, prese teneramente la giovane moglie tra le braccia e lei, tutta la notte, se lo sentì piangere contro il cuore. Ma la giovane, discreta, non gli chiese la causa di quel grande dolore perché non voleva costringerlo a confidenze, e perché non aveva bisogno di conoscere le sue pene per tentare di consolarlo.

"Il mattino dopo i tre fratelli presero le zappe e i martelli e se ne andarono in direzione della torre. La moglie del secondo fratello preparò il cestino del bucato e andò a inginocchiarsi davanti alla moglie del primogenito:
"– Sorella, disse, cara sorella, dovrei andare io oggi a portare da mangiare agli uomini, ma sotto pena di morte mio marito mi ha ordinato di lavargli le camicie di tela bianca e come vedi ne ho la cesta piena.
"– Sorella, cara sorella, disse la moglie dei primogenito, andrei molto volentieri a portare da mangiare ai nostri uomini, ma questa notte il diavolo mi si è insinuato dentro un dente.... ahi, ahi, ahi, riesco solo a gridare per il male...
"E senza tante cerimonie batté le mani per chiamare la moglie del più giovane:
"– Moglie del nostro fratello più giovane, disse, cara piccola moglie dell'ultimo, prendi il
nostro posto e vai a portare da mangiare ai nostri uomini perché la strada è lunga,
abbiamo i piedi stanchi e siamo meno giovani e meno leggere di te. Va', cara piccola, e
noi ti riempiremo il paniere di cose buone perché i nostri uomini ti accolgano con un
sorriso, Messaggera che cancellerai la loro fame.
"E il paniere fu riempito di pesci del lago canditi nel miele e nell'uva di Corinto, di riso
avvolto in foglie di vite, di formaggio di capra e di torta alle mandorle salate. La giovane
affidò teneramente il bambino alle braccia delle due cognate e prese la strada, sola, con
il suo fardello sul capo e il suo destino appeso al collo come una medaglia benedetta, invisibile a tutti, sulla quale Dio stesso avesse scritto che genere di morte le destinava, e che posto nel suo cielo.

"Quando i tre uomini la scorsero di lontano, figurina ancora indistinta, le corsero incontro, i due primi tutti preoccupati che il loro stratagemma andasse a buon fine, mentre il più giovane pregava Dio. Il primogenito inghiottì una bestemmia scoprendo che non si trattava della sua moraccia, e il secondo ringraziò il Signore ad alta voce per aver risparmiato la sua lavandaia. Ma l'ultimo s'inginocchiò, circondò con le braccia i fianchi della giovane moglie e gemendo le chiese perdono. Poi si trascinò ai piedi dei fratelli e li supplicò di avere pietà. Poi si rialzò e fece brillare al sole l'acciaio del suo coltello. Un colpo di martello sulla nuca lo gettò ansimante sul ciglio della strada. La giovane spaventata aveva lasciato cadere il paniere e le cibarie disperse andarono a rallegrare i cani dei gregge. Quando capì di che cosa si trattava, alzò le mani al cielo:
"– Fratelli a cui ho sempre obbedito, fratelli in nome del mio anello di nozze e della benedizione del prete, non fatemi morire, ma avvertite piuttosto mio padre che è capo del clan della montagna, e lui vi procurerà mille serve che voi potrete sacrificare. Non uccidetemi: amo tanto la vita. Non mettete fra il mio amato e me lo spessore della pietra.
"Ma di colpo tacque perché s'era accorta che il suo giovane marito steso sul ciglio della strada non muoveva le palpebre, e che i suoi capelli neri erano sporchi di sangue e di materia cerebrale. Allora senza grida e senza lacrime si lasciò condurre dai due fratelli fino alla nicchia scavata nel muro convesso della torre: poiché lei stessa stava per morire poteva risparmiarsi di piangere. Ma mentre veniva posato il primo mattone davanti ai suoi piedi calzati di sandali rossi, si ricordò del suo bambino che aveva l'abitudine di mordicchiarle le scarpe come un giovane cane pazzerello. Lacrime calde le rotolarono lungo le guance e andarono a mescolarsi al cemento che la spatola livellava sulla pietra:
"– Ahimè! Piccoli piedi miei, disse. Voi non mi porterete più fino alla cima della collina perché presenti più in fretta il mio corpo allo sguardo del mio amore. Non sentirete più la freschezza dell'acqua in corsa: soltanto gli Angeli vi laveranno, il mattino della Resurrezione.

"La commessura di mattoni e di pietre arrivò fino alle sue ginocchia coperte di una gonna dorata. Ben diritta al fondo della sua nicchia, aveva l'aria di una Maria in piedi dietro il suo altare.
"– Addio, mie care ginocchia, disse la giovane. Non cullerete più il mio bambino; seduta sotto l'albero bello dell'orto che è insieme cibo e ombra, non vi riempirò più di buoni frutti da mangiare.
"Il muro si alzò ancora un po', e la giovane proseguì:
"– Addio, care mie piccole mani che pendete lungo il mio corpo, mani che non cuocerete più la cena, mani che non torcerete più la lana, mani che non vi allaccerete più intorno al mio amore. Addio miei fianchi, e tu mio ventre, che non conoscerete più la maternità né l'amore. Bambinetti che io avrei potuto mettere al mondo, fratellini che non ho avuto il tempo di dar al mio unico figlio, mi farete voi compagnia in questa prigione che mi fa da tomba, e dove resterò in piedi, insonne, fino al giorno dei Giudizio Universale.
"Il muro di pietre le arrivava già al petto. Allora un brivido percorse la parte superiore del corpo della giovane, e i suoi occhi supplichevoli ebbero uno sguardo simile al gesto di due mani supplici.
"– Cognati, disse, per riguardo non a me ma al vostro fratello morto, pensate al mio bambino e non lasciatelo morire di fame. Non murate il mio petto, fratelli miei, fate che i miei due seni restino accessibili sotto la mia camicia ricamata, fate che ogni giorno mi si porti il mio bambino all'alba, a mezzogiorno e al crepuscolo. Finché mi resteranno poche gocce di vita, esse scenderanno fino alla punta dei miei due seni per nutrire il bambino che ho messo al mondo, e il giorno in cui non avrò più latte lui berrà la mia anima. Acconsentite, fratelli cattivi, e se farete così, il mio caro marito e io non avremo per voi in serbo rimproveri il giorno in cui ci incontreremo davanti a Dio.
"Intimiditi, i fratelli accettarono di esaudire quell'ultimo desiderio e lasciarono un intervallo di due mattoni all'altezza del seno. Allora la giovane mormorò:
"– Fratelli cari, mettetemi due mattoni davanti alla bocca perché i baci dei morti fanno paura ai vivi, ma lasciatemi una fessura davanti agli occhi perché io possa vedere se il latte giova al mio bambino.

"Fecero come lei aveva detto, e una fessura orizzontale fu lasciata all'altezza degli occhi. Al crepuscolo, all'ora in cui la madre usava allattarlo, portarono il bambino lungo la strada polverosa, bordata di arbusti bassi brucati dalle capre, e la suppliziata salutò l'arrivo del neonato con grida di gioia e benedizioni rivolte ai due fratelli. Onde di latte scesero dai suoi seni duri e tiepidi, e quando il bambino fatto della medesima sostanza del suo cuore le si fu addormentato contro il petto, ella prese a cantare con una voce che si attutiva nello spessore del muro di mattoni. Quando il piccolo si fu staccato dal suo seno, lei ordinò che lo riportassero all'accampamento per dormire, ma la tenera melopea si granò tutta la notte sotto le stelle, e quella ninnananna cantata a distanza bastava a impedirgli di piangere. Il giorno dopo lei non cantava più, e fu con voce debole che domandò come Vania avesse passato la notte. Due giorni dopo ella non parlò più ma respirava ancora, poiché i suoi seni abitati dal fiato salivano e scendevano impercettibilmente nella loro gabbia. Qualche giorno più tardi il suo alito andò a raggiungere la sua voce, ma i suoi seni immobili non avevano perduto nulla della loro dolce abbondanza di sorgente, e il bambino addormentato nell'incavo del suo petto poteva ancora sentire il suo cuore. Poi quel cuore in così bell'accordo con la vita allentò i suoi battiti. Quegli occhi languidi si spensero come il riflesso delle stelle in una cisterna senz'acqua, e attraverso la fessura non si videro più che due pupille vitree incapaci di guardare il cielo. Si liquefecero a loro volta, quelle pupille, e lasciarono il posto a due orbite cave in fondo alle quali si scorgeva la Morte, ma il giovane petto restava intatto e per due anni, all'aurora, a mezzogiorno e al crepuscolo continuò quello zampillo miracoloso, fino a quando il bambino, svezzato, si staccò spontaneamente dal seno.
"Soltanto allora quel petto esaurito andò in briciole, e sull'orlo dei mattoni non ci fu più che un mucchietto di ceneri bianche. Per qualche secolo le madri intenerite vennero a toccare con il dito lungo il mattone rossastro, i solchi tracciati dal latte meraviglioso, poi la torre stessa scomparve e il peso delle volte cessò di gravare su quel leggero scheletro di donna. Alla fine anche quelle fragili ossa si dispersero, e non resta più qui che un vecchio francese bruciato da questo calore infernale, che rispiattella al primo venuto questa storia degna di ispirare ai poeti tante lacrime quante quelle di Andromaca.
In quel momento, una zingara orribilmente incrostata e dorata di sporcizia si avvicinò alla tavola dove i due uomini appoggiavano i gomiti. Aveva fra le braccia un bambino i cui occhi inalati sparivano sotto bende di stracci. Si piegò in due con il servilismo più insolente che è proprio soltanto delle razze miserabili e regali e le sue gonne gialle spazzarono la terra. L'ingegnere la scostò con rudezza, senza preoccuparsi della sua voce che dal tono della preghiera passava a quello della maledizione. L'inglese la chiamò indietro per farle l'elemosina di un dinaro.
– Che cosa vi prende, vecchio sognatore? disse con impazienza. I suoi seni e le sue collane valgono senz'altro quelli della vostra eroina albanese. E il bambino che è con lei è cieco.
– Quella donna la conosco bene, rispose Jules Boutrin. Un medico di Ragusa mi ha raccontato la sua storia. Sono mesi che applica sugli occhi del bambino certi repellenti impiastri che gli infiammano la vista e impietosiscono i passanti. Lui ci vede ancora, ma presto sarà ciò che lei desidera che sia: un cieco. Quella donna si sarà garantita il proprio sostentamento, e per tutta la vita, perché la cura di un infermo è una professione remunerativa. C'è madre e madre.

(Tratto da "Novelle orientali", Casa Editrice Bur, traduzione di Maria Luisa Spaziani)

lunedì 6 settembre 2010

Racconti


La vita non è in ordine alfabetico

La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare... un po' qua e un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l'altro? A volte quello che sta sul cocuzzolo e sembra sorretto da tutto il mucchietto, è proprio lui che tiene insieme tutti gli altri, perché quel mucchietto non ubbidisce alle leggi della fisica, togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola, si appiattisce e non ti resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme... e poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, sulla sabbia c'è un tracciato strano, un disegno senza logica e senza costrutto, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori.


Antonio Tabucchi

sabato 28 agosto 2010

Racconti


La Rivolta di Atlante

Eddie Willers pensò ad un giorno d'estate di quando aveva dieci anni. Quel giorno, in una radura del bosco, l'unica compagna preziosa della sua infanzia gli aveva detto quel che avrebbero fatto da grandi. Le parole erano state decise e brillanti, come la luce del sole. Lui aveva ascoltato, ammirato e sbigottito. Quando gli aveva chiesto cosa avrebbe voluto fare, aveva risposto: «Quel che è giusto. » E aveva aggiunto: «Tu dovresti fare qualcosa di grande... voglio dire, noi due insieme. » «Che cosa? » aveva domandato lei. E lui: «Non so. È questo che dobbiamo scoprire. Non solo quel che dici tu. Non solo affari e un modo per guadagnarsi da vivere. Cose come vincere battaglie, salvare la gente dalle fiamme o scalare montagne. » «A che servirebbe? » aveva detto lei. E lui aveva risposto: «Il sacerdote, la scorsa domenica, ha detto che dobbiamo cercar sempre di raggiungere il meglio in noi stessi. Cosa pensi che sia il meglio in noi due? » «Non so. » «Dobbiamo scoprirlo. » Ma lei non aveva risposto. Stava guardando lontano, verso le rotaie della ferrovia.

Eddie Willers sorrise. Aveva detto: «Quel che è giusto» ventidue anni prima. Da allora aveva mantenuto fede a quella dichiarazione. Le altre domande si erano sbiadite nella sua mente; aveva avuto troppo da fare, per proporsele. Ma ancora pensava che bisognava fare quel che era giusto; non aveva mai capito come la gente potesse fare il contrario. Sapeva solo che lo facevano. E gli sembrava ancora semplice e incomprensibile: semplice che le cose dovessero essere giuste, incomprensibile che non lo fossero. E sapeva che non lo erano.

Ayn Rand

mercoledì 25 agosto 2010

Racconti


La storia della matita

Il bambino guardava la nonna che stava scrivendo la lettera. A un certo punto, le domandò:
“Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? E che magari parla di me. ”
La nonna interruppe la scrittura, sorrise e disse al nipote:
“È vero, sto scrivendo qualcosa di te. Tuttavia, più importante delle parole, è la matita con la quale scrivo. Vorrei che la usassi tu, quando sarai cresciuto. ”
Incuriosito, il bimbo guardò la matita, senza trovarvi alcunché di speciale.
“Me è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita! ”
“Dipende tutto dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se riuscirai a trasporle nell'esistenza sarai sempre una persona in pace col mondo.
“Prima qualità: puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che esiste una Mano che guida i tuoi passi. 'Dio': ecco come chiamiamo questa mano! Egli deve condurti sempre verso la Sua volontà.
“Seconda qualità, di tanto in tanto, devo interrompere la scrittura e usare il temperino. È un'azione che provoca una certa sofferenza alla matita ma, alla fine, essa risulta più appuntita. Ecco perché devi imparare a sopportare alcuni dolori: ti faranno diventare un uomo migliore.
“Terza qualità: il tratto della matita ci permette si usare una gomma per cancellare ciò che è sbagliato. Correggere un'azione o un comportamento non è necessariamente qualcosa di negativo: anzi, è importante per riuscire a mantenere la retta via della giustizia.
“Quarta qualità: ciò che è realmente importante nella matita non è il legno o la sua forma esteriore, bensì la grafite della mina racchiusa in essa. Dunque, presta sempre attenzione a quello che accade dentro te.
“Ecco la quinta qualità della matita: essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo, tutto ciò che farai nella vita lascerà una traccia: di conseguenza impegnati per avere piena coscienza di ogni tua azione. ”

Paolo Coelho

domenica 22 agosto 2010

Racconti


Ho sognato nella mia vita

Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; son passati attraverso il tempo ed attraverso di me, come il vino attraverso l'acqua, ed hanno alterato il colore della mia mente.


Emily Bronte

mercoledì 4 agosto 2010

Racconti


Si potrebbe quasi
Si potrebbe quasi...
"Si potrebbe quasi mangiare fuori"
Quello che conta è il "quasi", è il condizionale.
A tutta prima sembra una pazzia.
Siamo all'inizio di marzo, abbiamo avuto una settimana di pioggia.
E poi, da stamani, è spuntato il sole, con una intensità smorzata, una forza tranquilla.
Il pranzo è pronto, la tavola apparecchiata.
Ma anche dentro tutto è cambiato.
La finestra socchiusa, i rumori di fuori, una leggerezza nell'aria.
"Si potrebbe quasi mangiare fuori"
La frase arriva sempre nello stesso istante.
Proprio prima di mettersi a tavola, quando sembra troppo tardi per sovvertire il corso del tempo, quando l'antipasto sta già sulla tovaglia.
Troppo tardi? Il futuro lo decidi tu.
Forse sarai così pazzo da precipitarti fuori, a passare lo straccio sul tavolo del giardino, a suggerire maglioni, a canalizzare l'aiuto che ciascuno offre con brio maldestro.
Oppure ti rassegnerai a mangiare al caldo: le sedie sono troppo bagnate, l'erba così alta...
Poco importa. Quello che conta è il momento della frase. Si potrebbe quasi...
È bella la vita al condizionale, come nell'infanzia:
"Potremmo fare così: tu sei..."
Una vita inventata che prende in contropiede le certezze.
Una vita quasi: l'aria fresca a portata di mano.
Una fantasia modesta, una ventata di saggia follia che cambia tutto senza cambiare niente...
Talvolta diciamo: "Si sarebbe quasi potuto..."
Questa è la frase triste degli adulti che hanno mantenuto in equilibrio sul vaso di Pandora solo la nostalgia. Ma ci sono delle volte in cui cogliamo il giorno nel momento fluttuante delle possibilità, nel momento delicato di un'esitazione onesta, senza orientare in anticipo il giogo della bilancia.
Ci sono giorni in cui si potrebbe quasi... ".


Philippe Delerm

lunedì 2 agosto 2010

Racconti


Ho sognato nella mia vita

Ho sognato nella mia vita, sogni che son rimasti sempre con me, e che hanno cambiato le mie idee; son passati attraverso il tempo ed attraverso di me, come il vino attraverso l'acqua, ed hanno alterato il colore della mia mente.


Emily Bronte

domenica 1 agosto 2010

Racconti


La vita non è in ordine alfabetico

La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare... un po' qua e un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l'altro? A volte quello che sta sul cocuzzolo e sembra sorretto da tutto il mucchietto, è proprio lui che tiene insieme tutti gli altri, perché quel mucchietto non ubbidisce alle leggi della fisica, togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola, si appiattisce e non ti resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme... e poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, sulla sabbia c'è un tracciato strano, un disegno senza logica e senza costrutto, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori.


Antonio Tabucchi

mercoledì 28 luglio 2010

Racconti




Ascolta la voce del silenzio

- Devi, tu, diventare indifferente agli oggetti ed ai pensieri
- quando la tua forma ti apparirà irreale, così come irreali
da sveglio ti appaiono le forme vedute nel sogno
- quando il suono interno ucciderà quello esterno
- allora abbandonerai il falso per entrare nel vero
- prima che l'Anima possa vedere, gli occhi devono essere resi ciechi
- prima che l'Anima possa udire, devi diventare sordo ai rumori come ai mormorii
- prima che l'Anima possa capire e ricordare, lei stessa deve unirsi al Silenzio
- ed allora l'Anima capirà e ricorderà
- ed allora l'orecchio interno ascolterà...
... la Voce del Silenzio


Helena Petrovna Blavatsky

martedì 27 luglio 2010

Racconti


Il momento dell'aurora

Un rabbino riunì i suoi allievi e domandò loro:
“Come possiamo conoscere il momento preciso in cui finisce la notte e comincia il giorno? ”
“Quando, a una certa distanza, siamo in grado di distinguere una pecora da un cane, ” disse un ragazzino.
“In verità, si può affermare che è ormai giorno quando, a una certa distanza, siamo in grado di distinguere un olivo da un fico, ” replicò un altro allievo.
“Non sono soluzioni particolarmente convincenti. ”
“Qual'è la risposta giusta allora? ” domandarono tutti.
e il rabbino disse:
“Quando si avvicina uno straniero e noi lo confondiamo con un nostro fratello, ponendo fine a ogni conflitto. Ecco, questo è il momento in cui finisce la notte e comincia il giorno. ”

Paulo Coelho

domenica 25 luglio 2010

Racconti


Le bocche di Cattaro

Quando persi mio padre, nel 1890, e avevo solo due anni, mia madre
accolse in casa nostra, come una sorella maggiore, una vecchia donna,
e fu la mia tenerissima, espertissima fata.
Era venuta tanti anni prima in Egitto dalle Bocche di Cattaro dove
risiedeva, ma era per nascita più croata, se possibile, che non sia la
gente delle Bocche.
Lo stupore che ci raggiunge dai sogni, m'insegnò lei a indovinarlo.
Nessuno mai si rammenterà quanto se ne rammentava lei, di avventure
incredibili, nè meglio di lei le saprà raccontare per invadere la
mente e il cuore d'un bambino con un segreto inviolabile che ancora
oggi rimane fonte inesauribile di grazia e di miracoli, oggi che quel
bimbo è ancora e sempre bimbo, ma bimbo di ottant'anni.
Ho ritrovato Dunja l'altro giorno, ma senza più le grinze d'un secolo
d'anni che velandoli le sciupavano gli occhi rimpiccioliti, ma con il
ritorno scoperto degli occhioni notturni, scrigni di abissi di luce.
Di continuo ora la vedo bellissima giovane, Dunja, nell'oasi apparire,
e non potrà più attorno a me desolarmi il deserto, dove da tanto erravo.
Non ne dubito, prima induce a smarrimento di miraggi, Dunja, ma subito
il bimbo credulo assurge a bimbo di fede, per le liberazioni che sempre
frutterà la verità di Dunja.
Dunja, mi dice il nomade, da noi, significa universo.
Rinnova occhi d'universo, Dunja.

Giuseppe Ungaretti