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mercoledì 18 aprile 2012

Cinema


Ci si imbatte a volte in film straordinari,non solo per le storie narrate,per la forza delle immagini,per il talento creativo che esprimono,ma soprattutto perchè affrontano,felicemente,temi "spirituali" che sono tra i più impalpabili e facilmente banalizzati quando dietro non c'è quell'energia benefica intrisa di una "pura visione".Qui questa pura visione c'è e rende memorabile la pellicola,impossibile non rimanere affascinati dalle immagini dei flashback che riguardano la terza parte della vita del protagonista,dove,sullo sfondo di un cielo infinitimante stellato fa Tai Chi,immagine nell'immagine,che fonde l'Uomo con l'Universo.Il tre,volutamente metaforico, fa da metronomo preciso della pellicola,tre sono le epoche nelle quali si dipana la vicenda dei protagonisti,dalla Spagna dell'Inquisizione,ai giorni nostri,ad un futuro incalcolabile per l'attuale capacità del pensiero umano;Tre sono i personaggi,interpretati sempre dagli stessi,eccellenti attori,il condottiero che dovrà salvare la Regina Isabella dalla malvagità di un inquisitore spietato,il ricercatore che cerca la cura per i tumori ed è colpito proprio da vicino da questa patologia perchè ne viene colpita l'amatissima moglie,il monaco che cerca di succhiare la linfa vitale dell'albero della vita per poter ringiovanire e ritrovare la sua adorata donna che gli appare come fantasma esortandolo a tenerla sempre accanto a lui;Tre sono le morti e le rinascite dei protagonisti,quella del condottiero ad opera di uno stregone maya,quella della Regina Isabella sopraffatta dagli eventi,quella della moglie del ricercatore per tumore,quella del monaco che rinato verrà inghiottito dalle radici dell'albero salvifico,metafora della superiore potenza della Natura sull'Uomo.La potenza evocativa delle immagini,le interpretazioni straordinarie di Hugh Jackman e di Rachel Weisz,la dicotomia tra il calore fortissimo del legame d'amore e la freddezza della morte e del destino,a mio avviso ne fanno uno dei capolavori della cinematografia moderna.

lunedì 16 aprile 2012

Cinema


Cheyenne è stato una rockstar nel passato. All'età di 50 anni si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico e vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane a Dublino. La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York. Scopre così che l'uomo aveva un'ossessione: vendicarsi per un'umiliazione subita in campo di concentramento. Cheyenne decide di proseguire la ricerca dal punto in cui il genitore è stato costretto ad abbandonarla e inizia un viaggio attraverso gli Stati Uniti.
“And you're standing here beside me/I love the passing of time/Never for money/Always for love /Cover up and say goodnight . . . say goodnight/Home - is where I want to be/But I guess I'm already there/I come home - she lifted up her wings/Guess that this must be the place".
(“E tu sei qui vicino a me/Amo lo scorrere del tempo/Mai per denaro/ Sempre per amore/Copriti ed augura la buonanotte/ Casa- è dove voglio essere/Ma mi sa che ci sono già/ Vengo a casa-lei ha sollevato le ali/Sento che questo dovrebbe essere il posto".)
Il testo della canzone dei Talking Heads che dà il titolo al film e riveste un ruolo in una delle scene più importanti e intense rappresenta una sorta di sintesi di questa opera in cui Sorrentino torna al lucido intimismo degli esordi sotteso costantemente da una ricerca che si fa percorso di vita. Cheyenne, rocker ormai in disarmo ma che un tempo fu celebre e di quella celebrità gode ancora i frutti economici, è un uomo che quotidianamente si trasforma in maschera. Quasi avesse bisogno di aggrapparsi a quel passato di gloria che ora non rinnega ma rifugge. Accanto a lui da 35 anni una donna solida che sa come essere sorridente argine alla sua pacata depressione. Al suo fianco un costante peso. Che sia il carrello della spesa o il trolley da viaggio (di cui sentirà magnificare l'innovatività creativa) Cheyenne si trascina dietro un bagaglio di situazioni irrisolte. Prima fra tutte la dinamica dei rapporti con la figura paterna. È un Edward Manidiforbice dei nostri giorni Cheyenne/John Smith. Un essere umano che il padre ha creato e, al contempo, limitato trasmettendogli inconsciamente un'ossessione che il figlio scoprirà solo dopo la sua morte. Il castello in cui Edward/Cheyenne si è rinserrato è il suo aspetto esteriore che al contempo lo lega al passato ormai amato/odiato e lo separa dal presente. Sean Penn è straordinario nel disegnare, ancorandolo alla realtà, un personaggio che potrebbe ad ogni inquadratura dissolversi nel grottesco o nella caricatura. Quest'uomo che fa di tutto per essere riconosciuto e, al contempo, nega pervicacemente con tutti la propria identità ha la complessità di quelle figure che si imprimono con forza nell'immaginario cinematografico. Un personaggio che, anche se lo nega (“Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico non in India”) compie un lungo viaggio per ri/trovare un posto dentro di sé.

Cinema


La terra trema. Dopo il Grande Terremoto che la sorprese indifesa nel 1461 e poi nel 1703, l'Aquila è abbattuta nella primavera del 2009 e di nuovo "città rovinata", come ebbe a scrivere tre secoli prima Marco Garofalo, Marchese Della Rocca, al Vicerè di Napoli. Questa volta a compiere il miracolo del terremoto non sarà però il martire cefaloforo Emidio, condannato alla pena capitale e poi canonizzato. Al culto emidiano si sostituisce quello berlusconiano, (auto)celebratosi a partire dal 7 aprile, il giorno successivo alla scossa fatale che ha colpito al cuore l'Abruzzo e piegato le sue anime "forti e gentili".
Da qui si avvia il documentario di Sabina Guzzanti, cronaca delle 'cose nostre' e della politica dei fattacci che hanno compromesso il futuro dell'Aquila e della sua gente. Persuasa che da quando i politici sono diventati barzellettieri, i comici hanno il dovere morale e l'autorevolezza per parlare di politica o addirittura di fare politica, la Guzzanti indossa letteralmente i panni del premier e parte alla volta dei campi di soccorso, promossi dal governo Berlusconi in attesa di edificare una New Town da inaugurare il giorno del suo compleanno. Magari confezionando una torta e mettendo in fresco una bottiglia di spumante rigorosamente italiano da stappare in suo onore. Parola del presidente. E già, perché il 6 aprile del 2009 il nostro premier pativa una crisi di popolarità che il terremoto aquilano avrebbe certamente risollevato. Venuto "di cielo in terra a miracol mostrare", il consacrato dal popolo investe la Protezione Civile, nella persona di Guido Bertolaso, di ricostruire la città in barba alla sua storia, alla sua cultura e ai suoi cittadini. Favorito da normative straordinarie e da una sinistra desolante e desolata come la tenda abbandonata del Pd, il "braccio armato" del governo realizza altrove una città altra, che distrugge il valore degli incontri e costringe gli aquilani 'più fortunati' in appartamenti asettici e davanti a televisori che predicano il berlusconismo.
Abbandonando la satira indigesta per il giornalismo d'inchiesta, Sabina Guzzanti intervista una messe di persone e personalità, provando a ragionare sui fatti (in)evitabili, sulla prevenzione mancata, sulle vite condannate, sulle speculazioni, sui finanziamenti illeciti, sulla sistematica messa in discussione dei principi di trasparenza e legalità che fondano l'idea di una socialità democratica. Contro l'orrore e l'indignazione di intercettazioni telefoniche inconcepibili e mostruose, contro l'incredibile capacità di pervertire l'idea di giustizia, contro l'uso disinvolto dell'ironia, della decenza, della memoria storica e della correttezza istituzionale si alza la voce degli abruzzesi, uno su tutti, il lucidissimo professore Colapietro, che ha deciso di abitare "nonostante" il centro storico dell'Aquila, rinnovando, con una manciata di operai e di euro, la sua casa e la sua vita. Centro storico e culturale a cui l'imprenditore, il politico, l'uomo medio dei media ha negato l'accesso e prorogato restauri e ristrutturazioni, disperdendo lungo la costa una popolazione cittadina imprescindibilmente legata al tessuto artistico e architettonico della propria città.
Soprassedendo sulle immagini sgranate, sulle inquadrature di stampo televisivo e l'approssimazione estetica, Draquila rivela la maschera tragica del nostro Paese e solleva la voce che non ha timore di raccontarci una volta di più cos'è (stata) l'Italia berlusconiana. Davvero non c'è niente da ridere e Sant'Emidio fulmini una volta per sempre chi la notte del 6 aprile ha irriso ai vivi e ai morti dell'Aquila. E adesso (ri)"facciamo bella, che nulla nello regame possa confrontarsi ad essa".

martedì 14 febbraio 2012

Cinema


Claire Stenwick è un'avvenente agente della CIA con licenza di sedurre, Ray Koval è un agente dei servizi segreti britannici sedotto (drogato e gabbato) dal fascino della concorrenza. A New York, cinque anni dopo, Claire e Ray si ritrovano loro malgrado occupati per la stessa multinazionale, che vorrebbe entrare in possesso della formula di un prodotto rivoluzionario in anticipo sull'azienda rivale. Innamorati con riserva, diffidenti per mestiere, i due amanti depongono le armi, praticano l'amore, bevono champagne, bruciano di passione e pianificano di imbrogliare i magnati delle industrie concorrenti. Tra Dubai e Miami, tra Cleveland e Roma, tra salti temporali e sentimenti senza fine, Claire e Ray getteranno la maschera e berranno alla salute di una sfida inaugurata con un Margarita e finita "in bollicine".
Già dal titolo, Duplicity esplicita la sua doppia natura, la sua appartenenza a regimi discorsivi diversi che cercano di trovare una loro complementarietà. Da un lato l'inequivocabile spy story, dall'altro la screwball comedy, ovvero la "commedia svitata" del desiderio che si consuma in un'attesa carica di sfide, brividi, azioni e conversazioni seduttive e continuamente rilanciate. Dopo Michael Clayton, un thriller medio dalle ambizioni sproporzionate, Tony Gilroy gira una commedia romantica dentro le maglie di un semplice racconto di spionaggio, un luogo dei generi dove tutti mentono e bluffano. Noto come sceneggiatore della trilogia di Jason Bourne, il regista americano al suo secondo film impiega a trecentosessanta gradi il divismo frontale di Julia Roberts e Clive Owen, come già aveva fatto con quello di sbieco di George Clooney. Gli agenti belli e speciali di una multinazionale di cosmetici e lozioni "svitano" tappi (come indica la sfumatura etimologica screwy), si concedono parecchi calici di champagne e stabiliscono la propria relazione come campo di gioco e il gioco qualche volta può farsi duro. Quel che in Ray si configura come aperta battaglia, in Claire è esercizio di strategia, dialettica e fisica, che precipita il rivale amato in situazioni imbarazzanti e irresistibili.
Lungo questa frontiera tra spionaggio e sentimento si colloca Duplicity, diffuso di folgorante stordimento, agito da una signora intraprendente e un mascalzone azzimato, condito di femminile astuzia e di virile orgoglio. Abbandonata la confezione patinata del legal thriller precedente, Gilroy reitera l'interessante architettura narrativa della saga di Bourne, procedendo e muovendosi questa volta verso le origini di una coppia. In un contesto spaziale e industriale disseminato di antagonisti, le spie amanti Stenwick e Koval, al contrario di Matt Damon, sono inseguitori che diventano inseguiti, spie che diventano obiettivi. Ancora una volta lo sceneggiatore promosso autore fa sua la grande lezione della serialità televisiva, capace di costruire personaggi tanto profondi quanto calati nell'azione. Scandito da inseguimenti e appuntamenti, da dislocazioni e flash di memoria, per rimarcare il concetto che i personaggi sono l'azione, Duplicity si avvia verso un epilogo quasi meraviglioso e ad alta concentrazione alcolica.

mercoledì 8 febbraio 2012

Cinema


La guerra di Troia la conosciamo (o crediamo di conoscerla) tutti. Perchè a scuola abbiamo amato (o subito) Omero. Perchè alcuni suoi protagonisti hanno nomi che valicano anche la barriera dell'incultura dei talk show televisivi o dei 'Grandi Fratelli'. I meno giovani poi hanno anche avuto la fortuna di nutrirsi di peplum e affini negli anni Sessanta e questo ha ampliato il loro immaginario in materia. Trovarsi quindi di fronte a tutta la vicenda (a partire dal rapimento di Elena sino alla morte di Achille) non presenta novità ma carica comunque di aspettative. A questo punto vanno pronunciati due giudizi: uno contro e uno a favore. Quello 'contro' non è certo legato alla spettacolarizzazione (necessaria per un film cosi') quanto piuttosto al fatto che Troy paga il fatto di venire dopo Il Signore degli Anelli. Quindi tutte le battaglie finiscono, pur con il grande dispiego di mezzi che le caratterizza, a sembrare deja vu e comunque visivamente meno 'ricche' di quelle che le hanno precedute sullo schermo.
Il pregio sta invece nella grande scena del combattimento tra Ettore ed Achille. Sarà che la pagina omerica è a quel punto così "grande" da non poter che ispirare immagini forti ma la commozione prende e prosegue con la prestazione di un grande Peter O'Toole (Priamo) che va a chiedere a un Brad Pitt (Achille) quantomai misurato di restituirgli il corpo del figlio. Quell'Achille che in altra parte del film aveva affermato che proprio la consapevolezza di essere mortali rende affascinanti gli eventi della vita. Un'ultima annotazione: si tratta di un film a cui si possono portare i ragazzi. A ripassare (o magari a conoscere per la prima volta) una vicenda che potrebbe, forse, farli innamorare della pagina scritta.

domenica 5 febbraio 2012

Cinema


Una malattia per molti versi simile all'influenza suina ma capace di svilupparsi anche per contatto con estrema rapidità sta colpendo il mondo. La comunità medica mondiale si trova in breve tempo a dover affrontare la ricerca di una cura e il controllo del panico che si diffonde progressivamente ovunque. Le persone reagiscono in modo diverso e a seconda della responsabilità che è stata loro attribuita o che si sono autonomamente conferita.
Se un alieno fosse messo dinanzi a Ocean's Eleven, Full Frontal e Il Che quasi sicuramente non direbbe che sono frutto del talento dello stesso regista. Perché uno dei grandi pregi di Steven Soderbergh (anche quando, come in questo caso, lavora su commissione) è quello di continuare a sperimentare sia sul piano della sceneggiatura che su quello linguistico cinematografico. Potremmo rifarci a Traffic per questo film ma la memoria corre piuttosto al cinema altmaniano in cui una molteplicità di personaggi (nessuno dei quali viene mai narrativamente abbandonato) contribuisce alla costruzione di un mosaico in cui le ombre prevalgono sulle luci. Il tema sociologicamente impegnativo della reazione nei confronti dell'ignoto sembra appassionare il regista che lo scandaglia sotto le più diverse prospettive che finiscono con il rivelarsi sempre e comunque parziali e incapaci di fornire risposte risolutive.
Che si tratti della reazione dell'uomo che perde moglie e figlio o del responsabile del Consiglio Mondiale della Sanità oppure che si evidenzino le ragioni (ma anche la paranoia) del fustigatore mediatico di qualsiasi complotto (vero o presunto) gli elementi dei primordi (sesso, bugie e videotape) non sono estranei a un film che prende l'avvio dal giorno numero 2. Da lì si dipanano vicende private e pubbliche scandite con la cronometrica precisione dell'orologio della Morte. Il principio della fine verrà reso noto solo in conclusione. Dove si mostrerà che le piaghe che tormentano l'uomo d'oggi non hanno la dimensione epica di quelle bibliche. Possono avere cause molto ma molto più banali.Angosciante.

Cinema


In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d'arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L'imprevisto ‘dare di stomaco' sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un'esilarante carneficina dialettica.
Non è la prima volta che Roman Polanski ‘costringe' e isola i suoi protagonisti a bordo di una barca, dentro un castello, oltre il ghetto di Cracovia, sopra un'isola (in)accessibile. Da sempre nella filmografia del regista polacco la separazione è necessaria per mettere ordine e avviare un' ‘inchiesta'. Accomodati tre premi Oscar (Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz) e un candidato eterno non protagonista (John C. Reilly) in un appartamento di Brooklyn, ambientazione dichiarata dalla prima inquadratura e trattenuta da due alberi che dietro le fronde rivelano lo skyline ‘alterato' di Manhattan, Polanski denuncia ancora una volta il riferimento al (suo) maestro inglese. In particolare un capolavoro di Hitchcock palpita sotto la superficie, un omaggio che dopo molte risate lascia un ‘nodo alla gola'. Trattenuto in un'unica location e svolto in tempo reale, Carnage è ‘scenograficamente' prossimo al Rope hitchcockiano che, girato a Los Angeles, apriva le finestre del suo appartamento su una Manhattan in scala, ricreata attraverso un ciclorama di quattrocento metri quadrati e illuminato da un'abbondanza di lampadine e insegne al neon. Il richiamo non si limita allo spazio esterno, ma ancora e di più a quella maniera unica di tradurre un'idea in un movimento, in movimenti invisibili quanto mirabili di macchina. Versione cinematografica della piéce teatrale di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice con Polanski, Carnage coniuga il piacere della forma al valore della storia, una storia che ancora una volta suggerisce l'illusione della trasparenza. La maschera linda dei quattro protagonisti insinua presto un malessere sordo, un orrore che c'è e si vede. Così progressivamente le tempeste dialettiche restituiscono alla superficie i ‘corpi' nascosti nei bauli dalla stessa vanità e gratuità degli studenti hitchcockiani.
Polanski, naturalizzato francese ma apolide per vocazione, satura l'inquadratura di uomini e donne che si sentono ostinatamente migliori dell'ambiente che li circonda, che rimandano a se stessi come gli specchi dell'appartamento, ubicato fuori dalla finzione a Parigi e dimostrazione della condizione di “perseguitato” di Polanski. In cattività, congiuntamente ai suoi coniugi (in)stabili e (ir)ragionevoli, il regista ribadisce l'impraticabilità di introdurre un ordine nella realtà perché basta un conato di bile, un cellulare annegato, un libro imbrattato, una borsetta rovesciata a disperdere equilibrio e ‘democrazia'. Città immaginaria e ferocemente reale, New York apre e chiude il dramma da camera di Polanski, che spacca e fruga, ‘percorrendo' con lo sguardo personaggi già ipocriti e corrotti, strumenti di ferocia intrappolati in un cul de sac. In barba al politicamente corretto, l'irriducibile e non riconciliato Polanski ha cominciato a saldare i conti con l'American Dream. Un sogno che non c'è più e forse è solo la più grande menzogna mai tramandata.

mercoledì 1 febbraio 2012

Cinema


Alice e Mattia. Coetanei a Torino. Bambini le cui coscienze sono attraversate da un trauma profondo che non li abbandonerà mai. Alice e Mattia. Si conoscono. Potrebbero amarsi. Si separano (lui accetta un incarico in Germania e lei si sposa). Potrebbero ritrovarsi se consentissero a se stessi ciò che si sono sempre in qualche modo vietati.
Saverio Costanzo alla sua terza prova si assume il non facile compito di rileggere un best seller quale è il romanzo omonimo di Paolo Giordano (con il quale scrive la sceneggiatura). Lo fa con grande coraggio a partire dal nuovo mutamento di stile. Nessuno dei tre film del regista è simile all'altro nello sguardo e nelle modalità di ripresa perché Costanzo adatta il proprio fare cinema (che resta coerente in quanto a scelta di tematiche di base) alla storia che racconta. Questo può spiazzare chi preferisce che un regista rimanga sempre fedele ad elementi linguistici che lo rendano facilmente identificabile e collocabile.
Costanzo destruttura la linearità narrativa del romanzo avvertendoci sin dall'inizio (grazie anche alla musica di Mike Patton e a una grafica di forte impatto) che ci troviamo dinanzi ad un horror. Perché l'orrore della sofferenza attraversa corpi ed anime dei due protagonisti. Alice, la cui lesione fisica verrà spiegata solo molto più avanti ma che da subito determina il suo rapporto con il mondo e Mattia, che ha un vulnus che lo tormenta nel profondo spingendolo all'autolesionismo. Due corpi che potrebbero fondersi ma che restano murati in una solitudine che si presenta come ineluttabile perché il senso di colpa e il sentirsi fuori posto (in una società sempre più spietata sin dalle età più giovani) finiscono con lo spingere a costruire muri in cui si possono aprire solo piccole brecce che sembrano sempre pronte a richiudersi.
I flashback inseguono i flashforward perché il dolore non conosce percorsi canonici e gli eventi che hanno segnato una vita non chiedono il permesso per riemergere. Costanzo ricostruisce la sofferenza del vivere di Alice e Mattia quasi fosse il puzzle che quest'ultimo portò alla festa di compleanno di un compagno di classe che costituì l'atroce punto di non ritorno della sua vita. I pezzi di un puzzle si combinano per associazioni che ogni appassionato al gioco individua in modo diverso e finiscono con il determinare solo alla fine una struttura che origina dal caos di una miriade di pezzi. Così come le vite dei due protagonisti. Così come le vite di molti. Numeri primi divisibili solo per uno e per sé stessi in disperata e talvolta contraddittoria ricerca di una possibilità diversa.Assolutamente perfetta Alba Rohrwacher.

Cinema


John Dillinger è un fuorilegge col vizio del baseball, del cinema e delle macchine veloci. A colpi di Thompson e a capo di una gang armata, rapina banche ed estingue i debiti degli americani impoveriti dalla (Grande) Depressione. Le sue fughe rocambolesche e temerarie gettano imbarazzo e sconforto sulle istituzioni e su Edgar Hoover, ambizioso direttore del Bureau of Investigation. Elegante ed impavido, Dillinger ha un proiettile sempre in canna e un cappotto per ogni occasione e per ogni signora, rapinata del suo cuore o rapita dal suo fascino. La sua nemesi, efficiente e laconica, ha il volto e il garbo "gable" di Melvin Purvis, determinato ad accomodarlo sulla sedia elettrica. Decimata la sua compagine di criminali e assediato dalla polizia, Dillinger sceglierà la via fatale (e letale) del cinema.
Durante gli anni più duri della Depressione banditi rurali, rapinatori di banca indipendenti, rapitori di bambini e ladri alla giornata infestavano il Midwest. Nelle loro scorribande colpivano banche isolate e rifornitori di benzina, abbattendo a colpi di mitra proprietari e passanti inermi, prima di fuggire sulle loro automobili veloci e dentro gli abiti "ricercati". Sfruttando l'inefficienza e la corruzione dell'apparato statale e della polizia, cercavano il denaro facile e trovavano la soddisfazione alla propria eccitazione nel raggiungimento di una fama istantanea. Il maggiore tra loro, John Dillinger, era un fuorilegge e un esibizionista, abilissimo col mitra, simpaticamente disinvolto e irriverentemente in fuga da banche, celle e carceri.
Drogato di glamour come gli sbirri in abiti firmati di Miami Vice e testimone delle grandi promesse delle metropoli (automobili, abbigliamento sfarzoso, belle donne, feste in locali di lusso), Dillinger diventa il nuovo eroe solitario di Michael Mann, nemico pubblico che come il suo autore seppe creare una tendenza.
Conforme al bel sembiante (e al bell'aspetto) di Gary Cooper e Clarke Gable, Johnny Depp incarna l'immagine più sentimentale e romantica del gangster. Segnato dall'impossibilità di toccare le persone senza ferirle, Depp è di nuovo martire sulla strada della sofferenza e delle cicatrici. La morbidezza del suo sguardo scalda la narrazione (formalmente) fredda di Mann e si allarga sul G-man di Christian Bale, sul lato opposto della legge e dell'ordine.
Se Dillinger impiega la rapina come affermazione d'identità, anche sessuale (Billie Frechette è letteralmente "rapita"), e propaga nel mondo il mito dell'invincibilità dell'outlaw hero, Purvis trasforma la caccia ai criminali in un massacro di esecuzioni e tirassegno (l'abbattimento di Baby Face). In delicato equilibrio interdipendente col gangster, l'uomo del governo è caratterizzato e motivato costantemente dalla sua presenza, facendo dell'opposizione-identificazione con Dillinger una questione interiore. Il conflitto con la società ripiega allora nel confronto personale, in cui poliziotto e criminale si sovrappongono. Dentro la densità narrativa e la struttura polifonica del Nemico pubblico di Mann si muovono due combattenti solitari angosciati dalla privazione (ormai prossima) di un ruolo.
Il regista coglie bene il senso tragico del poco tempo che i protagonisti hanno ancora da vivere per compiere il proprio destino. Nel melodramma nero e criminale dell'autore americano il motore dell'azione è la nostalgia per qualcosa che Dillinger e Purvis si sono lasciati alle spalle ma che non riescono ad abbandonare: un blackbird che canta in sala (da ballo) ma tace sotto interrogatorio, un nemico pubblico maledettamente privato e troppo in fretta abbattuto. Architetto degli spazi e creatore (cool) di mondi solidi (e storici), Michael Mann frequenta i generi e ne verifica i limiti fino alla soglia, fino a intrecciarli e a contaminarli. Il suo cinema apre allora derive che interrompono l'azione vera e propria, dirottando su Cuba o su Chicago, dentro storie d'amore perfettamente simmetriche. Gli inseguimenti, le sparatorie, le fughe, l'amore e il sesso si combinano armoniosamente, consumandosi lentamente e in maniera epocale e infilando la potenza evocativa del melodramma in un film di genere radicalmente opposto.
Nel suo Chicago Melodramma e dietro all'eroismo di Dillinger si nasconde un'anima appassionata e (a)morale che morirà come Blackie Gallagher "sulla cattiva strada".

Cinema


Assistente dell'ambasciatore americano a Parigi, James Reeves sogna di fare l'agente segreto. L'occasione si presenta per un summit internazionale quando gli viene affidato un partner, Wax, dai metodi non proprio convenzionali…
From Paris With Love é un assaggio di quello che l'Europa Corp ha in cantiere per gli anni a venire. Con una faraonica Cinecittà parigina in costruzione, la casa di produzione e distribuzione di Luc Besson mira a contrastare il dominio americano nei film d'azione. Un action movie abbastanza ben costruito e recitato,sorprendente soprattutto la bravura della Smutniak e le sequenze degli inseguimenti e delle sparatorie molto stile Besson.

sabato 28 gennaio 2012

Cinema


Sono due anni che Mr. Brooks non uccide nessuno e fila diritto. Con l'aiuto di Dio e di un gruppo terapeutico, a cui tace la vera natura della sua dipendenza, è riuscito a reprimere l'altro sé: Marshall, proiezione criminale del suo io, che lo spinge a commettere efferati delitti. Il "killer delle impronte", fuori servizio, è un padre amabile, un marito fedele e un imprenditore di successo. Ossessionato dal controllo e dalla pulizia, la scena dei suoi crimini non rivela mai un indizio. Ma una notte, mentre consuma un duplice omicidio, qualcuno lo osserva e lo fotografa. Il voyeur non sembra però ansioso di consegnarlo alla giustizia…
Il cinema americano si affida spesso ai "cattivi" per costruire la propria forza morale. Si potrebbe tratteggiare una galleria di volti contro cui il cinema dei "buoni" ha combattuto. Uno su tutti: il Kevin Spacey di Seven e dei Soliti sospetti, che incarna perfettamente il fascino del male metafisico, liberato cioè dalla costrizione del corpo (John Doe è invisibile perché ha cancellato le proprie impronte digitali, Kayser Soze si annulla inventando una creatura efferata). Mr. Brooks è invece e soprattutto un corpo. La fisionomia del malvagio di Kevin Costner segue la strada della seduzione e la tentazione del male torna ad avere una (bella) forma sullo schermo.
Da questo punto di vista ancora più interessante e ambigua appare la scelta di Kevin Costner per il ruolo del serial killer, che in un certo senso sconvolge le regole dell'invariabilità interpretativa.
Bruce A. Evans, sceneggiatore dello Stand by me di Rob Reiner, consegna al cattivo il corpo di un buono incallito, costringendo lo spettatore a subire un male ancora più forte. L'eroico Costner di Balla coi lupi mutua e degrada la propria immagine, corrompe l'espressione innocente (che conservava anche nel "mondo perfetto" di Eastwood), interpretando la perversione che attrae irresistibilmente i personaggi (il fotografo ficcanaso e l'agente di polizia) e gli spettatori.
I motivi di interesse della pellicola di Evans terminano qui. Le promesse di inquietudine si esauriscono presto, molto presto, in situazioni inverosimili e la suspense, determinata soltanto dall'attesa dello smascheramento, è priva di qualsiasi immaginazione. Si avverte una sorta di sfasatura nel tessuto, il film sembra sfuggire di mano al regista in un continuo scollamento tra le intenzioni e i risultati.
Mr. Brooks risulta alla fine strutturato di momenti topici, costruito con situazioni forti, che finiscono per negare i personaggi, resi inspiegabilmente tutti ambigui. Il doppio di Kevin Costner è William Hurt, alter ego gigionesco e colpevole.

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Un gruppo di amici si ritrova nel Maine per una sorta di pellegrinaggio. Ognuno di loro ha dei problemi: chi di amore, chi di tendenza al suicidio, chi di alcolismo. Uno di loro, dopo un incidente, soffre di strane premonizioni. Giunti a destinazione trovano uno sconosciuto decisamente misterioso. Gli alieni sono in agguato?
Ancora una trasposizione per il cinema di un racconto di Stephen King. Ci sarebbe pure una firma di qualità alla sceneggiatura e alla regia. Kasdan ha sempre amato i generi popolari che sapeva però nobilitare con quel tocco che rende il Cinema diverso dal cinema. In questo suo tentativo di affrontare l’horror mette insieme una serie di citazioni kinghiane ma non riesce ad andare oltre. Il povero Morgan Freeman "passa di lì" ma non c’entra niente.Una pellicola che inizia benissimo ma poi si trasforma in uno splatterone di quelli indicibili,l'unica originalità sta nel finale.Un vero peccato viste le premesse,un eccellente regista,un cast di attori bravissimi,un libro cui ispirarsi di un certo livello,il tema della telepatia,la lotta degli amici uniti contro il male,tutti temi che potevano servire a realizzare un buon film,e invece....

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Quattro agenti della polizia di New York rimangono uccisi in un conflitto a fuoco. Sono gli uomini della narcotici di Francis Tierney Jr., figlio di Francis Tierney Senior, Capo dei Detective di Manhattan e fratello di Ray, anche lui impiegato in polizia. Le indagini condotte da Ray, riluttante ad accettare il caso in cui sono coinvolti gli agenti uccisi e il cognato Jimmy Egan, svelano molto presto che non si è trattato affatto di un sequestro di droga finito tragicamente ma di un agguato barbaro e deliberato. Ray, sospettando che uno dei familiari possa essere implicato in un gravissimo caso di corruzione, dovrà scegliere tra la lealtà che lo lega alla famiglia e la fedeltà verso le istituzioni.
Dopo i Padroni della notte, storia di due fratelli a New York che si ritrovano dalla parte opposta della barricata (quella della legge e quella del disordine), arriva sugli schermi Pride and Glory, storia di due fratelli poliziotti (e irlandesi) che provano a fare la scelta giusta nella Grande Mela, abusata dal crimine e dalla polizia corrotta. Un dramma familiare cupo e monocromatico scaturito dalla malattia morale che alberga nel fratello “acquisito” dei Tierney, compromesso con criminali e trafficanti e sprofondato nella corruzione e nel dispotismo. Il racconto prevalentemente notturno di Gavin O'Connor si sviluppa su un piano privato e drammatico, eliminando qualsiasi dinamismo e restando stretto sui personaggi, alla disperata ricerca di identità tra la legge austera dei legami di sangue e la pericolosa seduzione del Male. Nondimeno, l'implacabile logica terrena del poliziotto fuorilegge di Farrell non riesce a porsi come lettura metafisica ed esistenziale.
Il dissidio nel plot di Pride and Glory si esaurisce, assecondando quella fastidiosa tendenza del cinema americano ufficiale, a tagliare il senso in una morale da buono e cattivo. L'eroe diventa eroe buono che lotta contro il “se stesso” eroe cattivo, ormai irrimediabilmente doppio diabolico e nemico da sconfiggere. In questo modo la logica del racconto prende la distanza dalla pericolosa fascinazione per la violenza che caratterizza e che produce il poliziotto di Farrell. Buona parte della forza del film risiede nell'interpretazione degli attori, Jon Voight, Edward Norton e Noah Emmerich, che si muovono come fantasmi in un mondo privato della luce, alla ricerca di un avversario che certifichi il loro essere poliziotti. Norton, segnato sul viso e nel cuore da una cicatrice, si riempie progressivamente di lividi e ferite (quelle inflitte e quelle subite), consolidando il suo status di attore intelligente e schivo. Un attore pieno di una bellezza che sfugge alle definizioni.

martedì 24 gennaio 2012

Cinema


Si conoscono in cella: Sanders (Foxx) è un tappistello da strapazzo, Jaster (Pastorelli) è un genio delle rapine che ha soffiato 42 millioni di dollari in oro allo stato. Il detective Cleenton (Morse) fa in modo che Sanders venga liberato e lo segue per farsi portare sulle tracce di un altro criminale, molto più importante. In sostanza il teppista farà l'"esca", appunto. Il finale è scontato. Il tutto è certamente dinamico, con le naturali, funzionali location di New York.Buon action movie con un Jamie Foxx in gran spolvero.

mercoledì 18 gennaio 2012

Cinema


Josey è una giovane donna,madre di due figli,che per le continue violenze subite da parte del marito alcolizzato decide di scappare via portandosi i figli con lei.Va dai genitori e si arrangia con dei lavoretti fino a che un giorno incontra un'amica d'infanzia che le prospetta la possibilità di lavorare in miniera,lavoro duro ma pagato bene e continuo.Siamo nel nord del Minnesota,in piena e profonda provincia americana,dove il clima invernale è artico,ma josey allettata dall'idea dell'indipendenza economica fa domanda e viene assunta.All'inizio è contentissima perchè guadagna bene,si trova una casa per lei e i figli,riesce finalmente a vedere la sua vita stabilizzarsi in maniera positiva.Ma all'interno del luogo del lavoro cominciano le prime molestie,prima leggere poi sempre più pesanti fino ad arrivare ad un tentativo di stupro da parte di un uomo che era stato suo ragazzo ai tempi del college.Josey decide di denunciare il fatto al titolare della miniera ma qui trova un muro di omertà e di insensibilità e viene invitata a dimetterti per non turbare la quiete dell'ambiente di lavoro.Decisa e concreta cerca l'appoggio da parte delle colleghe,vittime come lei di molestie continue,solo che queste non vogliono perdere il loro posto di lavoro e preferiscono stare zitte e subire.Alla fine Josey trova un avvocato e inizierà una class action contro la società proprietaria della miniera,vincendola e stabilendo condizioni all'interno della miniera che diventeranno legge in tutti i luoghi di lavoro degli Stati Uniti e modello di legge per altri paesi nel mondo contro la discriminazione e le molestie delle donne sul lavoro.la storia è vera e questo la rende più dolorosa in molte parti,l'ambiente maschilista e bigotto della provincia ce la mette tutta per screditare e annullare Josey come persona ma grazie alla sua tenacia e alla forza che gli dà la sua famiglia e i suoi figli riuscirà a vincere.La Theron è molto convincente nella parte,veramente molto brava in un ruolo davvero difficile,affiancata da attori di ottimo livello come Sean Bean,Sissy Spacek,Woody Harrelson.Un film che fa arrabbiare ed emozionare.

lunedì 16 gennaio 2012

Cinema


Le vie del vino sono infinite, ma anche profumate, gustose, limpide come il cristallo di un balloon. Il gusto di queste emozioni, hanno dato vita a un film, un road movie, dove l'amicizia fra due uomini di mezza età, è la dolceamara riflessione sul continuare a essere dei "novelli" giovani o apprezzare i piaceri della maturità, dell'invecchiamento.
Jack (Thomas Haden Church) è un attore di soap opera in procinto di sposarsi. Il suo migliore amico Miles (Paul Giamatti), bruttino, dolorosamente divorziato da due anni, e scrittore non proprio di successo, decide di fargli un regalo speciale. Una settimana sulle strade del vino della California, per un piacevole e intenso addio al celibato fra calici di nettare e campi da golf. Incontreranno anche l'amore, e Miles conoscerà Maya (Virginia Madsen), che, come lui, vive per la gioia di una buona bottiglia.
Ironico e riflessivo, il film di Alexander Payne, delinea i personaggi, le loro forze, le loro debolezze, e le mette in parallelo al vino, alle modalità dell'invecchiamento, di conservazione, di degustazione. I sette giorni che Miles e Jack trascorrono insieme sono il percorso di crescita di due uomini, profondamente diversi fra loro, ma legati da un'amicizia ventennale. La cultura di Miles, espressa da un irresistibile Paul Giamatti (le sue battute scandiscono il film), si scontra con l'istinto animale e grezzo di Jack. E le donne per loro vanno di pari passo con il vino. Per lo scrittore devono essere rare e uniche (come la ex-moglie), da apprezzare e da sorseggiare nella loro maturità; per il belloccio divo da soap opera, devono avere l'immediata esplosività di un "frizzantino".
Sideways,lento nell'apertura, ironico nel suo incedere, prende vita attimo dopo attimo (verrebbe da dire, sorso dopo sorso), quando le vineyards californiane e le cantine illuminano la scena. E' la sottile magia di un film, che realmente va lasciato decantare, per apprezzarne le qualità.
Come dice Maya, in uno dei momenti più intensi del film, il vino è vivo, come ognuno di noi. Nasce, cresce e raggiunge la maturità. In quel momento, ha un gusto fantastico.

Cinema


La storia è tratta da un romanzo di Nicholas Sparks, autore amato dal cinema 'romantico'. Una donna anziana affetta dal morbo di Alzheimer si sente narrare da un altro ricoverato la storia di un amore nato negli anni Trenta. In realtà quell'amore non è frutto della fantasia di uno scrittore.L'amore come terremoto nelle vite degli esseri che impone delle scelte,spesso difficili e dolorose,e che segnano poi il futuro,ma come insegna anche questo film ogni azione ha una conseguenza e non si può pensare soltanto individualmente,egoisticamente,quando di mezzo ci sono vite e dolori altrui.Il pregio maggiore di questo film è che non è scontato,il difetto sta nell'essere magari un po' troppo melenso,ma per gli inguaribili romantici che credono alla forza anche salvifica dell'amore allora questo non sarà mai un film inutile.Ottime le interpretazioni della Rowlands e di Garner.

sabato 14 gennaio 2012

Cinema


Ex astronauta, uomo di grandi qualità fisiche e mentali, dopo le dimissioni dalla NASA riceve offerte principesche. Accanto alla bellissima moglie si godrà la vita. Ma il nuovo ambiente è pieno di trabocchetti, e l'ex eroe forse ha un passato, e una circostanza, non tanto eroiche. Tensioni anche paranormali.

venerdì 13 gennaio 2012

Cinema


Un allenatore di football del Sud, con moglie e figlie, è chiamato al capezzale della gemella che ha tentato il suicidio. Aiutato dalla psicanalista di lei, con la quale ha un'intensa e breve storia d'amore, riesce ad affrontare un tragico episodio della sua infanzia che aveva rimosso, consentendo alla psicanalista di aiutare anche la sua paziente. Tratto dal best seller di Pat Conroy (che l'ha anche sceneggiata con Becky Johnston), coprodotta, diretta (è la sua 2ª regia) e interpretata da B. Streisand con sensibilità e onesta convinzione, è una storia forte, con un bel cast, un grande N. Nolte e una bella fotografia (Stephen Goldblatt).Una di quelle pellicole che ti avvinghiano inesorabilmente,ti emozionano,ti scuotono,ti fanno ridere,piangere,sperare,pensare,insomma quello che dovrebbe fare ogni film ma che solo pochi riescono a fare,vale a dire catturare emotivamente lo spettatore e catapultarlo all'interno di una storia.Molto della riuscita del film per me lo si deve a Nick Nolte,lui che è la quintessenza della fisicità maschile riesce a dare dei tratti di dolcezza e fragilità al suo personaggio assolutamente unici rendendo poi credibili tutti i vari passaggi.Forse si vede molto l'occhio femminile sia del libro che della sceneggiatura,il Tom protagonista è l'uomo che ogni donna vorrebbe avere accanto,simpatico,un po' canaglia,forte,ma anche dolce,sensibile,fragile in certi momenti,capace di dare amore,forse è anche l'uomo che ogni uomo vorrebbe essere,chissà......

Cinema


Da un romanzo di Lorenzo Carcaterra, sceneggiato dal regista che l'ha anche prodotto, il film, scomponibile in tre blocchi, racconta le peripezie di quattro ragazzi del quartiere di Hell's Kitchen nel West Side di New York che, chiusi in riformatorio, subiscono un infame calvario di maltrattamenti e abusi sessuali. Una dozzina di anni dopo due di loro uccidono il più sadico degli aguzzini. Il film è suddiviso in tre parti,l'infanzia spensierata anche se povera,la seconda parte con la descrizione dei primi reati e il riformatorio,che è sicuramente la parte più cruda della pellicola,e la terza che riguarda il processo ai due assassini del carceriere protagonista degli abusi.Non è facile legare queste tre parti in un percorso omogeneo però levinson a mio avviso ci riesce abbastanza bene,contando sulla drammaticità degli eventi e sulle interpretazioni di eccellenze recitative come De Niro,Hoffman,Vittorio Gassman,e anche di un bravo Brad Pitt.Molto lungo ma intenso.