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sabato 10 marzo 2012
Internazionale
Sulla spiaggia di Arraial do Cabo, circa 170 chilometri a est di Rio de Janeiro, alcuni turisti tentano di salvare una trentina di delfini spiaggiati. I bagnanti riescono a trascinare gli animali verso le acque profonde per permettere loro di prendere il largo. Secondo il sito web jukinvideo.com, che ha distribuito la clip, le immagini sono state girate dal tedesco Gerd Traue, turista in vacanza in Brasile. Il quotidiano brasiliano 'O Globo', che ha intervistato la popolazione locale, ha spiegato che è cosa comune per i delfini e altri mammiferi incagliarsi sulla spiaggia anche se è raro che così tanti animali perdano l'orientamento tutti insieme.
martedì 6 marzo 2012
Internazionale
Wikilieaks è tornato a rivelare segreti di stato e di giochi di potere assai delicati. Si è parlato molto in questi giorni delle oltre 5mila di mail recuperate dai server della Stratfor, società privata americana di analisi geopolitica e intelligence, e rese pubbliche dal sito di Assange. Come già fatto in precedenza, il sito si avvarrà della collaborazione di 25 testate giornalistiche mondiali per diffondere ed analizzare il contenuto dei documenti. Per l'Italia farà riferimento a La Repubblica e L'Espresso. Rimangono per ora misteriosi i mezzi con cui Wikileaks è entrata in possesso di questi dati.
Della corrispondenza della Statfor è stato immediatamente divulgato uno scambio di mail tra i due numeri uno della società, che mette in dubbio la morte di Osama Bin Laden, o meglio, la fine che ha fatto il suo cadavere. Fred Burton, considerato uno dei più grandi esperti internazionali in tema di sicurezza, scrive queste righe a Geroge Fredman, fondatore e amministratore delegato della società: "Se il corpo è stato buttato a mare, cosa di cui io dubito, è simile al caso di Adolf Eichmann. La tribù ha fatto la stessa cosa con le ceneri dei nazisti. Vorremmo fotografie, campioni di DNA, impronte digitali. Il suo corpo è una scena del crimine e non credo che né l'FBI né il DOJ (il Dipartimento di Giustizia, Nda) permetteranno che ciò accada".
La risposta di Fredman: "Eichmann è stato visto vivo per molti mesi durante il processo prima che venisse condannato a morte e giustiziato. Nessuno avrebbe voluto per lui una tomba. Per questo venne cremato. Ma non mi pare che qualcuno abbia detto che non si trattasse di Eichmann. Non si può paragonare con questa sepoltura in mare senza che ci sia stata qualche possibilità di vederlo. Dubito che questo sia accaduto". Lo scambio di mail è datato 2 maggio 2011, poco dopo la morte di Bin Laden e la diffusione della versione ufficiale degli Stati Uniti secondo cui il cadavere del terrorista sarebbe stato buttato nell'Oceano Indiano. In sostanza, entrambi dubitano che il corpo del fondamentalista islamico sia stato gettato in mare e il paragone cui fa riferimento Burton, quello con Eichmann, dà bene l'idea di come secondo lui fosse necessaria una verifica sulla morte dell'uomo più pericoloso e ricercato degli ultimi dieci anni. La morte di Bin Laden è quindi da mettere in discussione?
Sarebbe certo un'ipotesi allarmante, che arriva come una doccia gelata nel bel mezzo delle presidenziali americane. In tutta risposta, la Stratford si solleva da ogni responsabilità, denunciando l'accaduto e il fatto che le mail potrebbero essere state "manipolate, contraffatte, e contenere imprecisioni". E conclude dicendo: "Siamo stati derubati, doverne rispondere significherebbe essere due volte vittime".
Intanto in Pakistan è stato demolito il compound dove, secondo la versione ufficiale, morì Osama bin Laden
mercoledì 8 febbraio 2012
Internazionale

Siamo veramente liberi di costruire la nostra vita? Il nostro futuro è davvero nelle nostre mani? Il nostro Wellthiness è solo frutto del nostro agire o è già scritto a priori?
Nella lontana e spirituale India vengono conservate migliaia di foglie di palma sulle quali, si dice, che ci sia scritto il destino degli uomini.La tradizione vuole che, migliaia di anni fa, degli uomini santi, i Rishi, abbiano avuto la possibilità di canalizzare le conoscenze riguardanti eventi futuri del mondo e le informazioni dettagliate su ogni persona che avrebbe visitato l’India per conoscere il proprio destino.
LE ORIGINI
Le origini del Shastra Naadi (trattati di energia canalizzata) sono avvolte nelle nebbie del tempo. Si tratta di un affascinante sistema di predizione usato, per molti secoli, e che, per chi ci crede, rappresenta una guida affidabile per la conoscenza di se stessi, del proprio passato e futuro, delle proprie relazioni e dei propri destini.
Una serie di ricerca hanno dimostrato che questo sistema è utilizzato da almeno 4000 anni, dal momento che i trattati Naadi sono stati scritti (su rotoli di foglie di palma) in sanscrito, la lingua predominante dell’antica India.
La trasmissione originale avveniva per via orale.
I Shastra, si ritiene, che siano stati i primi ad essere composti molto tempo fa dai Sapta Rishi (sette saggi) – Agasthya, Kausika, Vyasa, Bohar, Bhrigu, Vasishtha e Valmiki.
Il centro principale nel quale si svolge ancora oggi la lettura dei Naadi Shastra è nel Vaitheeswarankoil, nei pressi di Chidambaram nel Tamil Nadu, uno stato nel sud dell’India.
Qui Lord Shiva, si narra, che ha assunto il ruolo di un vaidhya (un medico), dedito a cercare di alleviare le sofferenze dei propri devoti.
Fino al 1930, i Naadi sono rimasti non più che un antico retaggio: erano poco utilizzati quando, non, addirittura, incomprensibili da parte della maggioranza degli astrologi indù.
La conservazione delle foglie di palma Naadi la e la traduzione dal sanscrito in una forma antica della lingua Tamil è stata effettuata, su larga scala, circa 1000 anni fa, durante il regime dei re di Tanjore (dal 9 al 13 secolo dC).
Quando, poi, con il passare del tempo e l’usura, le foglie hanno iniziato a rompersi, i governanti Tanjore hanno incaricato una serie di studiosi di trascrivere il tutto su fresche ola (foglie di palma). Alcuni dei grantha Naadi sono stati anche tradotti in un’altra lingua indiana del Sud, Telugu.
Ogni Naadi è costituito da una ola particolare o una foglia di palma, scritta in ezathu vatta, lingua tamil, tramite uno strumento simile ad un chiodo chiamato ezuthani.
Le foglie di palma sono preservate venendo sfregate con olio di pavone, quando vengono utilizzate per i vaticini. Vengono conservate, specialmente, nella biblioteca Mahal Saravasti di Tanjore, nel sud dello stato indiano del Tamil Nadu.
Le previsioni dei Naadi sono, in generale, espresse in forma di commenti, anche se nei Shiva Naadi sono presenti come conversazioni tra il Dio Shiva e Parvati Mata, che esprimono la loro preoccupazione e le benedizioni su di loro devoti.
I contenuti delle varie foglie sono una serie di manoscritti altamente organizzati divisi in sedici capitoli o kandams. Le Kandams descrivono i vari aspetti della vita materiale e spirituale del destino di un individuo come la famiglia, il matrimonio, professione, ricchezza…
L’ASTROLOGIA
Il termine Naadi si riferisce ad un arco molto piccolo dello zodiaco, di dimensioni che vanno da 1/150 ad 1/600 di un segno (da 12 a 3 minuti). Ci sono molti antichi testi astrologici Naadi alcuni dei quali si occupano solo delle implicazioni astrologiche ed altri che combinando le caratteristiche della chiromanzia e dell’astrologia.
Del primo tipo sono testi come Bhrigu Naadi, Dhruva Naadi, ecc, mentre gli scritti in lingua tamil come Saptarishi Naadi appartengono al secondo gruppo.
Nella cultura Naadi, le persone che hanno come ascendente un determinato segmento di arco temporale, pare che siano soggetti a seguire modelli di vita predefiniti espressi in termini di transiti planetari. Sulla base di un simile schema interpretativo viene letto il vasto corpus di manoscritti registrati sulle foglie di palma.
IL PERCORSO DI LETTURA
Il percorso di lettura del destino inizia fissando un appuntamento, con circa due settimane di anticipo, perché, oggi, i lettori Naadi sono molto occupati. Il giorno stabilito, prima che la cerimonia inizi, ai partecipanti viene domandato di registrarsi depositando, su piccoli fogli di carta, l’impronta digitale del proprio pollice (il destro per gli uomini ed il sinistro per le donne) ed un nome, non necessariamente il proprio vero.
Le impronte digitali sono state suddivise in 108 categorie, per potere procedere alla particolare lettura Naadi.
Quindi, il primo passo è di stabilire a quale delle suddette categorie corrisponde l’impronta digitale del pollice. Una volta rintracciato il gruppo di appartenenza, il lettore Naadi inizia la ricerca tra le foglie di palma.
L’operazione di indagine è molto lunga e può durare anche l’intera giornata. Invero il processo di individuazione è scandito da due diverse fasi: nella prima il lettore Naadi, tramite l’impronta digitale, identifica un certo numero di foglie che le corrispondono e tra le quali ci potrebbe essere la specifica del soggetto in questione, nella seconda, con l’aiuto del soggetto stesso, al quale il lettore pone una serie di domande, viene trovata la sua foglia personale.
Quindi, appena il lettore seleziona le potenziali foglie del destino, chiede al soggetto che lo ha interpellato di accomodarsi in una stanza, per dare inizio alla seconda fase di scrematura.Prima di incominciare, a chi lo interpella, il lettore chiede di rispondere ad una serie di quesiti ai quali si deve, semplicemente, rispondere con un ‘sì’ o un ‘no’, per non fornire ulteriori informazioni e dettagli.
Il lettore apre il primo gruppo di foglie ed inizia a leggere, ad alta voce, i contenuti in lingua tamil. Ogni volta che il lettore identifica qualche informazione che potrebbe essere abbastanza importante per formulare una domanda, interrompe la lettura e comunica all’interpretare che lo accompagna il quesito.
Se la risposta è affermativa, prosegue nella consultazione della foglia ponendo altre domande, finchè non arriva una risposta affermativa, al che cambia il gruppo di foglie.Indipendentemente dal fatto che ci crediamo o meno alla possibilità che qualcuno abbia scritto millenni fa il nostro destino, è interessante notare come il desiderio di rifiutare la credenza, diffusa in epoca Postmoderna, che tutto, dal mondo alla vita dell’uomo, sia affidato esclusivamente al caso, ad una serie fortuita di coincidenze, ha sempre meno credibilità nella società di oggi.
Il numero di persone che ricerca un senso, il Senso del proprio esistere, convinta di avere una missione da compiere su questa Terra, di essere frutto di un disegno divino (per alcuni che non lede il libero arbitrio, per altri che assume la forma di uno stretto determinismo) cresce in continuazione.
La ricerca di senso è proprio una delle cifre che contraddistinguono l’era in stato nascente, un’epoca nella quale l’uomo, come da sempre, dà due diverse risposte. Da un lato, si sente, fino in fondo, responsabile di se stesso, del proprio futuro, artefice del proprio destino. Si tratta dell’atteggiamento tipico della nuova generazione dell’UniCum. Dall’altro, si convince di non avere scelta, di essere inserito in un meccanismo, a-priori, dal quale non può sfuggire.
Le due alternative descrivono due modi diversi di affrontare la vita: uno più attivo, pro-attivo, co-creativo, l’altro più passivo, più deterministico
In entrambi i casi, però, consta il fatto che l’era dell’uomo ad una dimensione, in balia del caso, del nonsenso, pare abbia, ormai, segnato il passo.
lunedì 30 gennaio 2012
Internazionale

Il tribunale della Capitale ha deciso di rinviare a giudizio l'anziano dittatore, responsabile negli anni '80 della "terra bruciata", la tattica della giunta militare che, tra il 1982 e il 1983, uccise 1.800 persone. Una pagina nera nella guerra civile che in 36 anni provocò 200 mila vittime.La decisione del tribunale non era scontata. Ma quando dopo 12 anni la sua immunità parlamentare è decaduta per la fine del mandato all’assemblea legislativa, il vecchio ex generale Efrain Rios Montt, oggi 85enne, avrà probabilmente pensato di essere troppo vecchio per dover subire un processo. Invece, il tribunale di Guatemala city chiamato a decidere sul rinvio a giudizio dell’ex dittatore per crimini contro l’umanità, ha accolto gli argomenti dell’accusa: durante i 17 mesi della giunta militare, tra il 1982 e il 1983, è stato la mente della “terra bruciata”, la tattica usata dai militari per contrastare la guerriglia e sottoporre gli indigeni maya a un vero e proprio genocidio, sancito dal lavoro della Commissione per la chiarezza storica (Comisiòn par el Esclarecimiento Històrico, Ceh) creata sotto gli auspici dell’Onu nel 1994.
Davanti al tribunale, decine di persone si erano radunate per chiedere che il generale fosse mandato a processo. Un piccolo risarcimento morale e storico per le oltre 200mila vittime dei 36 anni di guerra civile in Guatemala. In quella terribile fase della storia del Paese, conclusa nel 1996, gli anni di Rios Montt sono considerati una delle pagine più oscure e inquietanti proprio per la sistematicità dei piani di “pulizia etnica” contro la popolazione indigena.
Secondo l’accusa, rappresentata dal procuratore Manuel Vazques, il militare è stato direttamente responsabile, in quanto vertice di una rigida catena di comando, di almeno 100 massacri, in cui hanno perso la vita quasi 1800 persone e altre 29 mila sono invece state costrette a lasciare le proprie terre. Vazques ha detto alla corte di poter provare la responsabilità dell’ex generale, grazie a una massiccia documentazione che dimostra come l’uomo sia stato dietro “l’ideazione, la pianificazione e il controllo dei piani militari di contro-insurrezione contro la popolazione indigena di Ixil de Quiche”.
La difesa, affidata all’avvocato Gonzalo Rodriguez Galvez ha cercato invano di controbattere che il generale “non era mai presente sul campo” al momento dei massacri.
E se l’attuale presidente guatemalteco Otto Pereze Molina, che ha avuto incarichi proprio sotto Rios Montt, avrebbe probabilmente preferito che il capitolo dei massacri non fosse riaperto, molti in Guatemala e nel mondo hanno accolto con soddisfazione la decisione di celebrare il processo.
Il rapporto finale della Ceh, pubblicato nel 1999 con il titolo “Guatemala, la memoria del silenzio” documentò e riuscì a identificare, di cui 23.671 uccise con esecuzioni sommarie e 6159 desaparecidos. Dai dati raccolti in cinque anni di lavoro, la Ceh concluse che gli indigeni maya costituivano l’83 per cento delle vittime della guerra e che il 93 per cento delle atrocità commesse durante la guerra erano state opera delle forze armate governative.
Ad agosto dell’anno scorso, quattro soldati sono stati condannati a 30 anni di prigione per ciascuna delle 201 vittime del massacro di Dos Erres (6 dicembre 1982), quando una unità delle forze speciali dell’esercito guatemalteco sterminò un intero villaggio, donne e bambini compresi, di contadini maya proprio per ordine dell’allora leader Rios Montt. Quella condanna, la prima nella storia del Guatemala, aveva ridato speranza alle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e alle famiglie delle vittime dei massacri, che hanno aspettato il verdetto del giudice tenendo in mano cartelli con un messaggio semplice e diretto: “Nessuna impunità”. La loro speranza è stata realizzata, anche se il processo sarà lungo e riaprirà ferite mai del tutto rimarginate.
mercoledì 30 novembre 2011
Internazionale

Si era comportato male all'asilo, per questo il piccolo Bastien, tre anni, è stato chiuso nudo in lavatrice da suo padre Christophe Champenois che ha poi avviato la macchina. Il piccolo è stato ritrovato dalla madre Charlene congelato e ormai senza vita. Un orrore che si è consumato nella cittadina di Germigny-l'Eveque nella Seine-et-Marne. Entrambi i genitori sono stati immediatamente arrestati, lui, 33 anni, per assassinio di minore, lei per non aver impedito la tragedia. Secondo quanto riportano i vicini la madre sarebbe corsa con il bimbo in braccio ormai morto a chiedere aiuto dicendo che era caduto per le scale.Leggere questa notizia mi ha letteralmente choccato,essendo padre di famiglia,immagino quel povero bambino e immagino quella povera bambina nel vedere il fratellino ucciso dalla furia omicida di un essere inqualificabile,che spero passi il resto dei suoi giorni in carcere,anche se questo non riporterà sulla terra quell'angioletto.
A raccontare la verità era stata invece la figlia Maud di cinque anni che aveva visto il fratellino essere tirato fuori già morto dalla lavatrice. La ragazzina aveva cercato di parlare a Bastien e il padre l'aveva aggredita. Secondo i racconti di Maud non era la prima volta che Bastiene veniva punito in questo modo: questa volta però il castigo della lavatrice è risultato fatale.
sabato 26 novembre 2011
Internazionale

La vita di migliaia di cani randagi in Romania è appesa a un filo. Il 22 novembre è passata al Parlamento rumeno una nuova legge che concede a tutti i sindaci del Paese diritto di vita o morte incondizionato sui randagi della propria città. Rimandato più volte per il putiferio alimentato dalle associazioni animaliste e arrivato fino al Parlamento europeo di Bruxelles, il voto ha visto 168 favorevoli e 111 contrari. Adesso bisogna solo aspettare la promulgazione del presidente della Repubblica rumena Traian Basescu.
La scusa ufficiale è liberare le strade delle città rumene da una sovrappopolazione di randagi e prevenire i rischi di attacchi alle persone e contagi di rabbia. Solo a Bucarest si stimano circa 50mila cani randagi, entrati ormai a far parte del profilo stesso della città. Secondo le autorità rumene gli attacchi agli esseri umani non sono episodi isolati, come dimostra il caso di una donna azzannata, e poi morta, proprio quest’anno.
La nuova legge introduce la possibilità di sopprimere i cani malati, aggressivi o pericolosi dopo soli tre giorni dalla loro cattura. Non vengono specificate le modalità attraverso le quali le amministrazioni comunitarie possono prendere questa decisione, mentre resta vago anche il concetto di “consultazione popolare” prevista per la soppressione di cani non malati né pericolosi dopo 30 giorni. Difficile poi adottare un amico a quattro zampe. Per farlo bisogna non solo dimostrare di avere spazio a sufficienza, risorse materiali per mantenerlo e l’ok dei vicini di casa, condizioni di per sé comprensibili, ma soprattutto bisogna pagare una tassa, cosa che in un Paese che non naviga esattamente nell’oro può rappresentare un certo disincentivo.
A nulla è valsa la battaglia di mesi e mesi condotta dalle associazioni animaliste internazionali. L’appello a preferire altre forme di controllo del randagismo, come una campagna a tappeto di sterilizzazione, è finita nel cestino perché, evidentemente, non giudicata adeguata a risolvere il problema. “Non c’è nessuna evidenza scientifica del fatto che rimuovere i cani dalla strada abbia un impatto significativo nel ridurre la densità della popolazione canina o il diffondersi di malattie come la rabbia”, ricorda l’associazione “Four Paws” (Quattro zampe) citando un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (WHO Expert Committee on Rabies, Eighth Report, Geneva 1992, Series No. 824, P. 31).
Duro il commento di Sara Turetta, presidente di “Save the dogs”, associazione animalista attiva in Romania: «E’ una sconfitta per la classe politica romena che ha perso l’ennesima occasione per dimostrare di essere più europea di quanto fin’ora si sia creduto. Ma è anche una sconfitta per i cittadini romeni che vedranno sperperati milioni di fondi statali senza risolvere il problema». Save the Dogs tira in ballo la “lobby dei boiacani” che “si arricchisce catturando ed uccidendo i randagi romeni”. L’associazione stima che solo a Bucarest sono stati spesi 14 milioni di euro per uccidere i randagi dal 2001 al 2007. Una situazione ben conosciuta anche in Italia, dove piccole associazioni di volontari, come Lamento Rumeno nel trevigiano, organizza viaggi all’Est per sottrarre alla morte dei cani portandoli in Italia, e tutto a spese dei volontari.
Non chiamatela eutanasia. “Portare un animale alla morte senza una diagnosi veterinaria non è eutanasia bensì omicidio”, ha detto Walter Winding, ex presidente della Federazione dei veterinari europei durante una conferenza organizzata da CAROdog (network di associazioni animaliste europee) lo scorso maggio a Bruxelles. A marzo dall’Europarlamento era partito perfino un appello alle autorità rumene alla luce di quanto messo nero su bianco dall’articolo 13 del Trattato di Lisbona, dove gli animali sono chiaramente definiti “esseri senzienti”. Ma tutto questo non è bastato.
Per quanto riguarda la legge approvata in Romania, ufficialmente bisogna aspettare la sua promulgazione da parte del Presidente della Repubblica. Ma le possibilità di un capovolgimento del voto parlamentare sono davvero molto scarse.
venerdì 18 novembre 2011
Internazionale
I FAD sono oggetti galleggianti che attirano esemplari giovani di tonno, ma anche specie minacciate come tartarughe marine, squali balena e altri pesci che regolarmente finiscono in queste reti in modo accidentale. Una volta pescati, tonni diversi vengono conservati e congelati tutti insieme a bordo, e la loro identificazione risulta difficile. L'utilizzo dei FAD sta distruggendo l'ecosistema marino e conducendo gli stock di tonno verso il collasso.
venerdì 28 ottobre 2011
Internazionale

Buenos Aires – Dodici ergastoli. Ieri è stata una giornata storica per la giustizia argentina. Dopo quasi due anni si è conclusa una prima tranche del maxi processo Esma: quella relativa alla tortura, sequestro e omicidio di 86 persone. Sono stati condannati al carcere a vita dodici repressori, tra cui Jorge Acosta detto “Tigre”, capo del gruppo operativo dell’Esma, il principale centro di detenzione della Marina negli anni della dittatura, e l’ex capitano di corvetta Alfredo Astiz, conosciuto come l’angelo biondo o angelo della morte, diventato il simbolo del male e dell’efferatezza di quegli anni.
Il processo verteva sui casi di sparizione, tortura e morte di un gruppo di genitori di desaparecidos, conosciuto come il gruppo di Santa Cruz, tra cui anche tre delle fondatrici del movimento delle madri di plaza de Mayo e tre monache francesi che le assistevano nelle ricerche. Un sequestro reso possibile proprio da Astiz, che si infiltrò nel gruppo fingendosi fratello di uno scomparso. L’ex capitano di corvetta è stato riconosciuto colpevole assieme ad altri anche della sparizione e della morte di Rodolfo Walsh, icona del giornalismo militante di quegli anni e autore di una celebre lettera aperta alla giunta militare in cui si denunciavano i crimini della dittatura. Una lettera che gli costò la vita.
L’“angelo della morte” era già stato condannato all’ergastolo in contumacia in Francia per l’omicidio delle monache e in Italia per la sparizione di tre cittadini del nostro Paese, ma è la prima volta che viene condannato da un tribunale argentino. Per questo la sentenza di ieri ha una forte valenza simbolica.
Nel processo erano coinvolti diciotto repressori (ma all’Esma secondo i testimoni sarebbero passati almeno 200 militari), tra cui molti nomi noti tra i familiari dei desaparecidos e i sopravvissuti ai campi di tortura, come l’ex capitano di fregata Antonio Pernias, considerato uno dei torturatori più crudeli, l’ex capitano di Corvetta Ricardo Cavallo e Jorge Radice, tutti condannati al carcere a vita.
Per quattro imputati sono state stabilite pene dai 18 ai 25 anni di carcere, mentre due sono stati assolti ma resteranno in carcere perché coinvolti in altri processi.
L’Esma, l’ex Scuola di Meccanica della Marina, è stato uno dei principali centri di detenzione e tortura all’epoca della dittatura. Al suo interno sono state imprigionate e torturate almeno cinquemila persone, gran parte delle quali sono state poi trucidate o gettate in mare con i famigerati “voli della morte”. Si sono salvati in meno di duecento. Proprio grazie alle loro testimonianze è stato possibile ricostruire l’orrore di quegli anni: la meccanica dei sequestri, la spaventosa catena delle torture, i corpi lanciati vivi dagli aerei, il destino finale nel rio della Plata.
Carlos Lordkipanidse e Miriam Lewin sono tra i sopravvissuti dell’Esma, entrambi hanno testimoniato in numerosi processi. Dopo essere stati torturati in modo selvaggio, gli ufficiali della Marina li hanno destinati alla pecera, l’acquario come lo chiamavano allora, una sorta di ufficio all’interno del centro di tortura dove venivano falsificati documenti, prodotte traduzioni, archiviati dati e giornali dell’epoca. Si sono salvati così, “lavorando” per il nemico.
Ieri erano entrambi in aula ad attendere la sentenza. “E’ un giorno di giustizia”, ha commentato commossa la Lewin, diventata una giornalista molto nota. “Vedere i miei ex torturatori seduti in manette, a oltre trent’anni dalla dittatura, è stato impagabile”.
Per Carlos Lordkipanidse è la fine di un incubo, adesso potrà liberarsi della paura che lo ha accompagnato in tutti questi anni. Anche se il ricordo delle violenze subite, spiega, non si cancella: Lordkipanidse venne torturato assieme al suo bambino di pochi mesi. I suoi aguzzini glielo poggiavano sul petto, o lo sollevavano in aria minacciando di fracassargli la testa contro il muro se Carlos non avesse rivelato nomi e indirizzi dei suoi compagni di militanza.
Con la sentenza di ieri si chiude un capitolo tragico della storia argentina, anche se restano aperti numerosi altri processi relativi agli anni della dittatura; per esempio quelli sui casi di appropriazione dei figli di detenute desaparecidas, poi dati in adozione a personale della Marina e dell’Esercito; i voli della morte; la sottrazione sistematica dei beni delle persone sequestrate.
giovedì 20 ottobre 2011
Internazionale

Nuova denuncia di Greenpeace: “Salvati la pelle!”. Questa l’esortazione dall’associazione ambientalista internazionale, che in occasione della Fiera internazionale LineaPelle, il più importante salone espositivo del settore conciario in corso questi giorni a Bologna, lancia l’allarme: “se ci tenete all’Amazzonia, salvatevi la pelle”. La kermesse è la piattaforma di lancio ideale per il nuovo rapporto Promesse infrante, in cui l’associazione denuncia i crimini e le illegalità commesse dalle aziende conciarie brasiliane sul terreno della foresta pluviale.
Nel mirino dell’inchiesta, la brasiliana Jbs, una delle più grandi aziende rivenditrici di pelli e carni bovine per i crimini e le illegalità che “il gigante della carne e della pelle” continua a commettere. Per avere pelli e carne a buon mercato, le aziende del settore zootecnico non si fanno scrupolo di utilizzare mezzi illegali, come l’impiego di lavoro schiavile, l’occupazione di terre indigene, la distruzione di ampi tratti di foresta. Gli allevamenti bovini sono infatti la principale causa della deforestazione in Amazzonia – ogni 18 secondi ne viene distrutto un ettaro. Risultato: ce ne resta il 20%.
Non solo: le modalità adottate per la riconversione di vaste zone delle foreste millenarie in allevamenti industriali, sono a dire poco inquinanti. La sbrigativa combustione di vaste aree boschive, genera il rilasciano enormi quantitativi di CO2 e altri gas contenuti nel terreno, “producendo ogni anno più inquinamento di tutti i trasporti mondiali messi insieme”, come spiega Chiara Campione, la responsabile della Campagna Foreste di Greenpeace.
Per questo motivo, l’azione spettacolare che ha avuto luogo davanti a Palazzo Re Enzo, è diretta alle aziende del settore presenti in fiera, nonché all’intero mercato dell’Alta Moda, esortandoli a controllare la provenienza delle pelli utilizzate per divani e abiti. Un set di 4 modelle a rappresentare la bellezza dell’Amazzonia, con abiti realizzati appositamente dalla stilista Mariangela Grillo con materiali sostenibile, vengono fotografate da un vero fotografo di moda, attirando l’attenzione dei passanti sui pannelli che recitano lo slogan tenuti dagli attivisti.
Come è solito fare, Greenpeace ammonisce sulle implicazioni riguardanti l’acquisto di prodotti di cui non si conosce la filiera, e dunque sulla parte di responsabilità che ne può derivare, da parte di aziende italiane che da questi rivenditori si riforniscono, e non da ultimo, su chi compra il prodotto finale, contribuendo a mantenere vivo un mercato che sta distruggendo il nostro ultimo polmone verde:l’Amazzonia.
“Il messaggio che vogliamo lanciare, è che i vostri prodotti potrebbero essere contaminati con azioni a dir poco criminali – spiega la campainer – “se avete JBS fra i vostri fornitori, fatevi qualche domanda in più”. Greenpeace non è ancora riuscita a risalire alle aziende italiane, come fece già con i quattro anni di ricerca che portarono alla denuncia, nel 2009 con la campagna “Fai respirare l’Amazzonia” (la campagna portò aziende come Nike, Geox a rivedere l’intera filiera di produzione). Ma fatto è che l’azienda in Italia vende, e ha appena aperto una conceria nel nostro Paese.
Non esagerazioni da fanatici ambientalisti (bassezza qualunquista con cui spesso si liquidano questioni comuni), ma una questione di salute pubblica – se proprio non la si vuole considerare dal lato del rispetto del pianeta. Questione per ciascuno di noi, dall’industria fino all’utilizzatore finale, può essere responsabile, nel bene e nel male. Realizzato in due giorni dallo staff di Greenpeace, il sito www.salvatilapelle.org contiene tutti i documenti, nonché il video della protesta di oggi.
lunedì 10 ottobre 2011
Internazionale

Pena di morte: “La comunità internazionale
si sveglia solo nella giornata mondiale”
E' la denuncia di Amnesty international. Nel 2010 in 67 paesi sono state inflitte 2024 nuove sentenze capitali, ma c'è l'incognita cinese, che considera questo dato "segreto di stato". Riccardo Noury: "In Italia c'è una tradizione abolizionista, ma la gente si innamora di un caso ma non del problema nel suo complesso"Oggi si celebra la nona Giornata mondiale contro la pena di morte, incentrata sulla disumanità della pena capitale in quanto trattamento e punizione crudele, inumano e degradante. Secondo Amnesty International, dal 1977 impegnata in una campagna mondiale contro la pena di morte, nel 2010 almeno 23 paesi hanno eseguito la pena capitale per un totale di 527 esecuzioni riportate. In testa l’Iran con almeno 252 esecuzioni, la Corea del Nord con almeno 60, lo Yemen con almeno 53, gli Stati Uniti d’America con 46, l’Arabia Saudita con almeno 27. Questi dati non includono la Cina. Amnesty sostiene che l’anno scorso siano state eseguite migliaia di pene capitali ma non è possibile stabilirne il numero perché la Cina considera i dati un segreto di stato. Inoltre nel 2010 in 67 paesi sono state inflitte 2024 nuove sentenze capitali, e questo sarebbe il numero minimo dedotto dalle ricerche si Amnesty.
Una dichiarazione congiunta rilasciata da Catherine Ashton, alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Esteri e la Politica sulla sicurezza, e Thorbjørn Jagland, segretario generale del Consiglio D’Europa, riafferma la netta presa di posizione contro la pena di morte e l’impegno per l’abolizione in tutto il mondo. “Crediamo che la pena capitale sia inumana e sia una violazione della dignità dell’uomo. Ogni pena capitale che deriva da un errore della giustizia, da cui nessun sistema giudiziario è immune, rappresenta una perdita umana irreversibile. […] Il sostegno crescente alle risoluzioni dell’Onu nel 2007, 2008 e 2010 confermano una crescita della tendenza contro la pena di morte nel mondo”. Le dichiarazioni a livello europeo stridono con il fatto che in Bielorussia, uno stato dell’Europa orientale, nel 2010 sono stati eseguite due pene capitali.
Sulla pena di morte abbiamo intervistato Riccardo Noury, rappresentante di Amnesty International Italia.
Perché ancora la pena di morte nel mondo? C’è una ragione etica?
Ci sono governi che amministrano la giustizia in questo modo, usando la scorciatoia, non credo sia per motivi etici. Usano la pena di morte come facile presa in campagna elettorale per far vedere che stanno lavorando per la sicurezza.
Che fa il mondo concretamente?
La comunità internazionale purtroppo si ricorda della pena di morte solo in questo giorno. Si deve fare di più oltre ad avere un giorno internazionale e oltre alle moratorie dell’Onu, bisogna fare di più e intervenire su casi concreti 364 giorni l’anno, non soltanto uno. In Europa c’è lo scandalo assurdo della Bielorussia che è europea e hanno ucciso anche nel 2011. Il dato positivo è che nel mondo aumentano i paesi contro la pena di morte. In Giappone sono a un anno e due mesi senza esecuzioni. Molti paesi dell’Africa stanno lavorando per abolire la pena di morte, l’Africa sta procedendo molto bene. La campagna che lanciamo oggi è per l’abolizione della pena di morte in Bielorussia.
E in Cina? Non si conosce neanche il numero di esecuzioni.
In Cina lavorano molto dal punto di vista giuridico sia le organizzazioni locali sia i magistrati e gli avvocati cinesi, che cercano di smontare il sistema. La prima urgenza è quella di rendere pubblici i dati, che si possano controllare (la Cina ha dichiarato di aver diminuito le esecuzioni ma non ha fornito dati – ndr).
Cosa pensa la gente in Italia e cosa fanno le istituzioni?
All’Italia si deve riconoscere il ruolo storico, condiviso dalle forze politiche, di aver rilanciato il dibattito sulla pena di morte dal 2007 in avanti. Ha una sua grande tradizione abolizionista. La gente.. beh i sondaggi non sono attendibili in quanto le persone si innamorano di un caso, come quello Sakineh (la donna giudicata colpevole di adulterio in Iran e condannata a morte per lapidazione e a cui nel 2010, diventata un caso internazionale, è stata commutata la pena in 5 anni di prigione – ndr) ma si scordano le 470 impiccagioni per reati comuni e reati politici nel 2011. Se si fa un sondaggio dopo che è scoppiato un caso il 60% degli italiani è contro la pena di morte, se si fa un sondaggio dopo un delitto efferato il 60% è per la pena di morte. I sondaggi non contano molto. In Italia però c’è un comune sentire, laico, politico e religioso, contro la pena di morte. Nessun politico si sognerebbe di fare una campagna elettorale basata sull’introduzione della pena di morte.
Un discorso non etico ma molto popolare negli Stati Uniti: perché dobbiamo mantenere a vita un assassino seriale? È un peso economico sulla comunità e nuoce soltanto.
Se parliamo di costi, che comunque sono un discorso importante, costa molto di più una procedura che prevede la pena di morte fra appelli, ricorsi, domande di grazia ecc. C’è stata una polemica in California proprio sui costi per tenere in piedi il braccio della morte.
E delle famiglie che vogliono vendetta?
Questo è un tema importante: il supposto conforto alla famiglia delle vittime. In realtà di anno in anno cresce il numero di associazioni di famiglie di vittime contro la pena di morte inflitta a loro nome.
venerdì 23 settembre 2011
Internazionale

Usa, giustiziato Troy Davis
falliscono tutti gli appelli per salvarlo
Ha vissuto quattro ore di più. Doveva morire, per iniezione letale, alle sette di sera. Il suo appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti, perché bloccasse l’esecuzione, l’ha fatto arrivare alle 11 di sera. I nove giudici della Corte hanno ricevuto la sua richiesta, e l’hanno respinta. E’ stato solo allora che Troy Davis è entrato nella camera della morte della prigione di Jackson, Georgia. L’hanno legato al lettino, gli hanno praticato l’iniezione. Otto minuti dopo è stato dichiarato morto.
Sono state ore convulse, fuori della prigione di Jackson e in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di persone hanno continuato la loro veglia, sul piazzale antistante il carcere. Erano soprattutto afro-americani, come Davis. Levavano cartelli di protesta, urlavano slogan come “Risparmiate la vita di Troy”, “Basta al linciaggio legale”. Accanto a loro, divisi da un cordone di poliziotti, c’erano i sostenitori della pena capitale. Tra loro, prima di entrare in carcere ad assistere all’esecuzione, è passata la vedova del poliziotto che Troy Davis, 22 anni fa, avrebbe secondo l’accusa ucciso. Ha detto: “Siamo noi le vittime, non Davis. Abbiamo delle leggi, in questo Paese. Non uccidiamo Davis semplicemente perché vogliamo”.
I legali del condannato hanno fatto di tutto, prima dell’esecuzione, per salvargli la vita. Una richiesta di sospensione dell’esecuzione è stata inviata alla Corte Suprema della Georgia. Rifiutata. Una proposta di sottoporre Davis alla macchina della verità è arrivata al Georgia Board of Pardons and Paroles. Anche questa, rifiutata. I gruppi sostenitori di Davis hanno chiesto, informalmente, l’intervento del Ministero della Giustizia, e persino di Barack Obama, perché risparmiassero Davis sulla base dei “pregiudizi razziali” che hanno condotto alla sua condanna. Ma Obama, e il segretario alla Giustizia, Eric Holder, non hanno risposto. Quando anche la Corte Suprema di Washington, la massima istanza giuridica degli Stati Uniti, ha detto no, il destino di Troy Davis era segnato.
La confusione e la frenesia delle ultime ore concludono una vicenda divenuta negli anni un vero caso internazionale. Molte organizzazioni abolizioniste, a cominciare da Amnesty International, hanno fatto della storia di Troy Davis una delle loro bandiere, per dimostrare pecche e incongruenze del sistema giudiziario statunitense. Soprattutto, di quello che porta un uomo a essere condannato a morte. In effetti, il caso di Davis mostra più di un’incongruenza. Questo afro-americano, oggi 42enne, fu arrestato e condannato a morte per l’omicidio di Mark MacPhail, un agente privato della sicurezza, ucciso a Savannah nel 1989. MacPhail intervenne una notte, davanti a un Burger King, a difesa di un homeless che veniva selvaggiamente picchiato da un gruppo di ragazzi. L’agente venne colpito con due pallottole di una calibro 38, al cuore e in piena faccia. Morì immediatamente. Una serie di testimoni identificarono in Troy Davis l’autore dell’assassinio. E le pallottole ricollegarono la calibro 38 a un’arma precedentemente usata da Davis.
L’arma dell’omicidio non fu però mai trovata. La perizia degli agenti balistici venne più tardi messa in discussione. Sette dei nove testimoni chiave, che in un primo tempo avevano giurato sulla colpevolezza di Davis, ritrattarono le loro accuse. Lentamente, emersero testimonianze e accuse sulle pressioni esercitate dalla polizia per incastrare Davis. Il quadro probatorio finì per apparire così debole che un milione di persone firmarono la petizione per salvare Troy Davis dall’inizione letale (tra queste, l’ex-presidente USA, Jimmy Carter, papa Benedetto XVI, un’ex direttore dell’FBI). “Quando si condanna a morte un individuo, bisogna essere moralmente certi di quello che si fa. E in questo caso, non esiste l’assoluta certezza morale della colpevolezza di Davis”, ha detto Larry Thompson, vice-ministro della giustizia di George W. Bush.
La mobilitazione, nazionale e internazionale, non è però servita. Davis è stato messo a morte dallo stato della Georgia, e molti di quelli che in questi anni si sono battuti per la sua liberazione lanciano ora accuse esplicite di razzismo. “Siamo tornati a prima del Civil Rights Act del 1964. Siamo tornati a una nuova era di segregazione. I neri di questo Stato conoscono molto bene la sensazione”, ha detto il reverendo Raphael Warnock, che oggi dirige la chiesa dove servìMartin Luther King. Poco si sa delle ultime ore del condannato. Secondo alcune testimonianze, avrebbe rifiutato l’ultimo pasto offerto dalla prigione. Una funzionaria di Amnesty International, che l’ha visitato martedì scorso, lo descrive “di buon’umore, deciso a combattere fino all’ultimo respiro”. “La battaglia per la giustizia non finisce con me. La battaglia è per tutti quelli che verranno dopo di me”, ha scritto Troy Davis in una lettera, poco prima di entrare nella camera della morte.
Sono state ore convulse, fuori della prigione di Jackson e in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di persone hanno continuato la loro veglia, sul piazzale antistante il carcere. Erano soprattutto afro-americani, come Davis. Levavano cartelli di protesta, urlavano slogan come “Risparmiate la vita di Troy”, “Basta al linciaggio legale”. Accanto a loro, divisi da un cordone di poliziotti, c’erano i sostenitori della pena capitale. Tra loro, prima di entrare in carcere ad assistere all’esecuzione, è passata la vedova del poliziotto che Troy Davis, 22 anni fa, avrebbe secondo l’accusa ucciso. Ha detto: “Siamo noi le vittime, non Davis. Abbiamo delle leggi, in questo Paese. Non uccidiamo Davis semplicemente perché vogliamo”.
I legali del condannato hanno fatto di tutto, prima dell’esecuzione, per salvargli la vita. Una richiesta di sospensione dell’esecuzione è stata inviata alla Corte Suprema della Georgia. Rifiutata. Una proposta di sottoporre Davis alla macchina della verità è arrivata al Georgia Board of Pardons and Paroles. Anche questa, rifiutata. I gruppi sostenitori di Davis hanno chiesto, informalmente, l’intervento del Ministero della Giustizia, e persino di Barack Obama, perché risparmiassero Davis sulla base dei “pregiudizi razziali” che hanno condotto alla sua condanna. Ma Obama, e il segretario alla Giustizia, Eric Holder, non hanno risposto. Quando anche la Corte Suprema di Washington, la massima istanza giuridica degli Stati Uniti, ha detto no, il destino di Troy Davis era segnato.
La confusione e la frenesia delle ultime ore concludono una vicenda divenuta negli anni un vero caso internazionale. Molte organizzazioni abolizioniste, a cominciare da Amnesty International, hanno fatto della storia di Troy Davis una delle loro bandiere, per dimostrare pecche e incongruenze del sistema giudiziario statunitense. Soprattutto, di quello che porta un uomo a essere condannato a morte. In effetti, il caso di Davis mostra più di un’incongruenza. Questo afro-americano, oggi 42enne, fu arrestato e condannato a morte per l’omicidio di Mark MacPhail, un agente privato della sicurezza, ucciso a Savannah nel 1989. MacPhail intervenne una notte, davanti a un Burger King, a difesa di un homeless che veniva selvaggiamente picchiato da un gruppo di ragazzi. L’agente venne colpito con due pallottole di una calibro 38, al cuore e in piena faccia. Morì immediatamente. Una serie di testimoni identificarono in Troy Davis l’autore dell’assassinio. E le pallottole ricollegarono la calibro 38 a un’arma precedentemente usata da Davis.
L’arma dell’omicidio non fu però mai trovata. La perizia degli agenti balistici venne più tardi messa in discussione. Sette dei nove testimoni chiave, che in un primo tempo avevano giurato sulla colpevolezza di Davis, ritrattarono le loro accuse. Lentamente, emersero testimonianze e accuse sulle pressioni esercitate dalla polizia per incastrare Davis. Il quadro probatorio finì per apparire così debole che un milione di persone firmarono la petizione per salvare Troy Davis dall’inizione letale (tra queste, l’ex-presidente USA, Jimmy Carter, papa Benedetto XVI, un’ex direttore dell’FBI). “Quando si condanna a morte un individuo, bisogna essere moralmente certi di quello che si fa. E in questo caso, non esiste l’assoluta certezza morale della colpevolezza di Davis”, ha detto Larry Thompson, vice-ministro della giustizia di George W. Bush.
La mobilitazione, nazionale e internazionale, non è però servita. Davis è stato messo a morte dallo stato della Georgia, e molti di quelli che in questi anni si sono battuti per la sua liberazione lanciano ora accuse esplicite di razzismo. “Siamo tornati a prima del Civil Rights Act del 1964. Siamo tornati a una nuova era di segregazione. I neri di questo Stato conoscono molto bene la sensazione”, ha detto il reverendo Raphael Warnock, che oggi dirige la chiesa dove servìMartin Luther King. Poco si sa delle ultime ore del condannato. Secondo alcune testimonianze, avrebbe rifiutato l’ultimo pasto offerto dalla prigione. Una funzionaria di Amnesty International, che l’ha visitato martedì scorso, lo descrive “di buon’umore, deciso a combattere fino all’ultimo respiro”. “La battaglia per la giustizia non finisce con me. La battaglia è per tutti quelli che verranno dopo di me”, ha scritto Troy Davis in una lettera, poco prima di entrare nella camera della morte.
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